Mi ha sempre molto colpito l’interrogativo pieno di stupore di Heidegger: “Perché, in fondo, l’essere e non il nulla?”. È un interrogativo estremamente sfuggente, ma che ci pone con grande forza davanti al mistero dell’esistente.
C’è un essere che giustifica l’esistente?
Se non esistesse, se non esistesse né Dio né l’uomo, chi allora potrebbe stupirsi del mondo? Ma è pensabile il nulla, l’esistere del nulla?
Devo mettere tra parentesi queste domande paradossali.
Come credente, io vedo tre modi fondamentali di esistere: l’esistere dell’uomo, l’esistere del mondo, l’esistere di Dio.
Io, uomo, apro gli occhi e ancora prima che possa pensare qualche cosa, ecco lì il mondo, davanti a me, il mondo che mi colpisce e che qualche volta, incidentalmente, mi ferisce. Il mondo non sa che io mi stupisco di lui; esso, invece, è per me “uno stupore infinito” (Sofocle). ma se io non esistessi, se non fossi consapevole di esistere in lui, per che cosa mai esso, il mondo, esisterebbe? per chi esisterebbero le piante, i fiori, gli animali, i minerali che esso contiene, il petrolio con il quale la mia macchina mi porta dove io voglio? Mi sembra proprio innegabile una specie di antropocentrismo del mondo… Il petrolio andava accumulandosi nelle viscere della terra da milioni di anni. In attesa che venisse l’uomo e che l’uomo imparasse a servirsene?
Ma l’uomo sa di esistere, e per questo è in grado di porsi tutte queste domande. Senza l’uomo, che ne fa parte, il mondo non saprebbe di esistere, e quindi, non esisterebbe neanche. L’uomo, è ancora Sofocle che parla, è quell’essere di cui “niente è più stupendo”. L’uomo trascende il mondo, è l’apparizione, in esso, dell’autocoscienza, del pensiero, della capacità di dire “io”, di meravigliarsi, di cercare e di raggiungere la verità, di approdare sempre a nuove verità, verità più vere delle precedenti già raggiunte. L’uomo vive, lui solo veramente vive, perché sa di vivere e, come osservò Pascal, anche se il mondo lo schiacciasse, egli, l’uomo, gli sarebbe superiore anche in quel momento, perché saprebbe di morire, mentre il mondo non saprebbe di ucciderlo.
Il mondo è bello e buono, come afferma il libro della Genesi, ma è bello e buono soltanto in ragione dell’uomo che lo contempla nella sua bellezza e lo utilizza nelle sue energie. Senza l’uomo, il mondo sarebbe veramente un “essere di troppo”, come lo definiva J.P. Sartre, assurdo , anonimo, osceno. Ma anche Sartre era un uomo, un essere pensante e giudicante; senza di lui il mondo semplicemente, non sarebbe niente, il suo esistere equivarrebbe al non esistere.
L’uomo è la vita del mondo, il trascendentale che lo pone nell’essere, che in un certo senso lo crea.
Come cristiano e come essere pensante, a questo punto, un’altra esigenza mi si affaccia, quella di Dio:
“dal trascendentale al Trascendente” (A. Carlini).
Dio: come definirlo, come descriverlo?
Dio, se esiste, non può che esistere diversamente da me. È il semplicemente diverso da me, come diceva la filosofia scolastica. Se riesco a parlarne, a dire qualche cosa di pertinente, che lo coglie nel suo essere misterioso, questo essere diverso deve tuttavia avere qualche cosa di simile a me, non può essere il “totalmente diverso”. È il concetto di analogia che qui fa capolino: diverso, sì, ma simile a me in qualche cosa.
È diverso perché non può non esistere, mentre io sì potrei non esistere. Io sono “contingente”, non ho cioè in me la mia ragione di esistere. Egli invece è l’assoluto e, come assoluto e necessario, riesce a spiegarmi il perché del mio esistere non necessario. Se non fosse così diverso da me, non mi servirebbe, non mi aiuterebbe a capire né a spiegare niente, né il mio io, né l’essere del mondo, né il mio rapporto con il mondo.
Da cristiano, so che questo Dio, rispetto al mondo, è il suo creatore. Lo ha tratto liberamente dal nulla. Quindi Dio non è il mondo e il mondo non è Dio. Il mondo creato da Dio è tuttavia la sua immagine, il visibile che annuncia l’invisibile, il suo “sacramento” (Agostino), da contemplarsi come tale, l’immagine che conduce verso l’inimmaginabile tutti coloro che sono disposti a questo itinerario.
Ma nuovamente, tra Dio e il mondo c’è l’uomo.
Per chi e per che cosa, altrimenti, Dio avrebbe creato il mondo? Per se stesso? Ma che cosa aggiunge, il mondo, a Dio? Possiamo figurarcelo come un suo balocco, un trastullo per i suoi momenti di noia?
Il mondo entra in comunione con Dio soltanto attraverso l’uomo, e soltanto attraverso l’uomo, che pensa, che crede, che opera, che gioisce, che soffre, il mondo si pone in comunione con Dio. Dio ha creato l’uomo a propria immagine e ora l’uomo, nel mondo, è il sacerdote che ripresenta a Dio il mondo da lui creato, il pontefice che fa di se stesso un ponte fra due esistenze.
L’uomo trova in Dio la spiegazione di sé e del mondo che abita. Dio trova nell’uomo da lui creato la giustificazione del mondo, della sua creazione, di tutto ciò che esso, sovrabbondantemente, contiene in sé, destinato da Dio all’uomo.
Non è sorprendente tutto ciò? Non è sorprendente la vita dell’uomo, in rapporto alla vita del mondo?
E se la vita dell’uomo e del mondo è così stupefacente, perché dovrebbe essere meno vera e credibile la stupefacente esistenza di Dio?
In realtà, ciò che esige maggiormente di essere spiegato non è tale misteriosa esistenza, ma l’esistenza degli altri esseri, dell’uomo e del mondo, i quali senza Dio non potrebbero assolutamente spiegare né giustificare se stessi.
Questi tre modi di esistere, in conclusione, non possono, di fatto, che essere assunti insieme, nel loro reciproco annunciarsi e sostenersi. Vivere, qui ora, con spirito di fede, il rapporto con il mondo e con Dio, è, per l’uomo, il modo migliore per prepararsi a vivere, nell’al di là, un rapporto simile, ma anche diverso, con le due altre realtà, quella creata e quella eterna.
Invitati a sperare, Morcelliana, Brescia 1996, pp. 25-29.