È vero che scrivo tanti libri, ma li faccio piccoli, in modo di non approfittare troppo della benevolenza del lettore. In realtà, a me pare che si viva in un’epoca in cui di libri di religione se ne scrivono moltissimi, addirittura troppi. C’è un grande interesse per gli argomenti religiosi, ma io mi domando, ed è la mia vita che mi ha condotto a pormi questa domanda, se è veramente buono, spontaneo, credibile questo ritorno di interesse oppure, in qualche modo, nasconde qualcosa di velleitario. Vogliamo sentirci un po’ buoni, vogliamo ritrovare i valori tradizionali per sentirci rassicurati, confermati nelle nostre sicurezze, per uscire dai dubbi lancinanti dell’uomo contemporaneo. E confesso la mia impressione che molto spesso questi articoli o libri religiosi obbediscano, più che al desiderio di ricercare la verità – che è una verità difficile, problematica, perché abbiamo alle spalle 20 secoli di storia di cristianesimo che non sono tutti d’oro, non sono tutti d’argento e neanche tutti di ferro, ma che presentano problemi di una complessità enorme – all’esigenza di far emergere qualcosa che ha il senso di un rimpianto del passato, di una specie di nostalgia dell’infanzia. Oh come è bella la religione, com’era bello quando l’umanità era ordinata, quando si credeva. Ecco, questo atteggiamento mi sembra debole, perché mi pare che sulla base di una religiosità così intesa ci siano ben poche possibilità di fondare un autentico interesse, un’autentica domanda religiosa. Ci manteniamo nel cielo delle buone intenzioni, dei principi edificanti, ma non tocchiamo la concretezza delle difficoltà dei nostri problemi.
Vorrei fare a questo proposito un appunto, e mi permetto di farlo perché è un amico, a Ferruccio Parazzoli, che ha scritto ultimamente per un’editrice cattolica che è la Piemme un libro intitolato Credo?, con il punto interrogativo. Ora Ferruccio Parazzoli ha scritto nel passato un’inchiesta sulla crocifissione che a me è era apparsa allora e mi appare ancora un bellissimo testo. Qui ritorna sul tema del credere, ma è curioso che il termine “credo” sia seguito da un punto interrogativo, nonostante Ferruccio Parazzoli sia un autore cattolico, che pubblica un testo cattolico, presso un editore cattolico.
Parte dalla constatazione molto giusta di quando era bambino e si alzava la domenica per andare a messa dove, assieme a tutti gli altri, recitava il ‘credo’, mentre adesso gli accade che si alza con tutti gli altri ma non ha più il coraggio di recitarlo. Tanto quelle verità che sono contenute nel ‘credo’, gli sembrano sconcertanti, quasi incomprensibili. Ci sono affermazioni sorprendenti: “il Figlio della stessa sostanza del Padre”, oppure l’idea della resurrezione dei morti. Veramente noi crediamo in questo? Veramente noi crediamo che il sacrificio di Gesù Cristo sulla croce abbia lavato i nostri peccati, ci abbia riconciliato con Dio? Allora siamo forse, ancora, delle strane persone che pensano, come gli antichi, al valore sacrificale, purificatorio dei sacrifici del sangue. Ecco sono tutti temi nei confronti dei quali l’uomo contemporaneo, se è coerente con la cultura del tempo in cui vive, prova delle difficoltà. Facciamo un altro esempio. Il cristiano dice che in Cristo è stata vinta la morte; ma poi pensa, supponiamo ad Auschwitz o al Ruanda, al Burundi o all’ex Iugoslavia. Se non si sofferma a riflettere, continua a ripetere tranquillamente la formula e le dà un valore metaforico, allusivo, simbolico; se, invece, si ferma un momento a pensare, gli tremano le vene e i polsi: ma dov’è questa morte vinta? O non sono forse 20 secoli che la morte continua ancora a dominare?
Allora il mio amico Parazzoli, partendo dalla consapevolezza nella difficoltà che le formule del ‘credo’ pongono alla coscienza dell’uomo contemporaneo, afferma: è come se mi trovassi di fronte a un corpo di affermazioni, il ‘credo’, che è come una specie di cerchio magico, nel senso che non so da che parte entrare. Tanto queste affermazioni, così assolute, così totalizzanti, così eterne, sono affermate univocamente per sempre, tanto sono turbato.
E allora nel suo libro cerca di trovare delle argomentazioni umane per rendere più credibile alla sua modernità, alla sua esperienza di uomo contemporaneo, le affermazioni del ‘credo’. Però, e ho avuto occasione di dirglielo, questo procedimento approda appunto all’esito di mettere un punto interrogativo dopo la parola “credo”. Perché si comincia a domandare: “C’è il giudizio finale?”, (ma nel ‘credo’ si afferma: “verrà a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine”), idea che per l’uomo contemporaneo non è molto facile da ammettere, da accettare, e si finisce per rispondere: il giudizio universale non è un qualche cosa che implichi quella specie di rappresentazione cosmica, con il Cristo giudice, ma è qualche cosa che significa che ogni uomo è chiamato a rispondere dinnanzi alla perfezione di Dio. Si parla dell’inferno: e no, francamente non si può credere che la misericordia di Dio possa addirittura determinare una pena eterna e così via. Quando uno finisce di leggere il libro di Parazzoli, si accorge che quel Credo? non ha bisogno soltanto di un punto interrogativo, ma di almeno tre o quattro punti interrogativi.
In realtà tutte le generazioni cristiane che sono venute prima di noi hanno creduto letteralmente nelle formule del ‘credo’. Mia madre mi ha insegnato a credere che i morti resuscitano, nel senso che ritroverò le persone care che ho perdute, non nel senso che metaforicamente non va perduto niente perché nel mistero di Dio tutto si ricompone, tutto acquista un senso unico e definitivo, ma proprio nel senso concreto e tangibile della resurrezione dei morti.
Nello sforzo di avvicinarsi e rendersi accettabili alla cultura del proprio tempo, molti cristiani, soprattutto teologi ed esegeti, hanno di fatto scavato un abisso tra sé e tutte le generazioni cristiane che li hanno preceduti. Ma non per questo sono entrati veramente in contatto con i non credenti contemporanei, piuttosto si sono arresi alla loro visione del mondo. Una profonda cesura separa il mondo moderno da ciò che l’ha preceduto. La medesima discontinuità, la medesima cesura si è verificata nella storia della Chiesa. Ormai ci resta solo un filo sempre più sottile nel quale riconoscere un legame di continuità col passato, nella vicenda che va dalle origini cristiane ad oggi.
Nel 1984 scrissi un racconto Vocabor Petrus il cui protagonista è un ipotetico ultimo papa, Pietro II, eletto alla fine di questo millennio sulla base di una discutibilissima profezia del monaco medievale Malachia, alla quale obbligatoriamente le gazzette si riferiscono ogni volta che viene eletto un nuovo papa. L’ultimo papa è il primo ad assumere il nome di Pietro. Infatti di papa ci sono stati i Gregori, Pii, Benedetti, Innocenzi, ecc, ma si sono guardati molto bene da usare il nome di Pietro. Solo gli ultimi papi sono tornati a scegliere nomi molto impegnativi. Ad esempio, dopo la morte di Pio X ecco Giovanni XXIII, e Giovanni è uno di quei nomi che nella Chiesa rappresenta qualcosa di più che un Innocenzo, un Gregorio. Dopo Giovanni, non si poteva più tornare di nuovo a Innocenzo, Benedetto e il successore è stato “costretto” a dire Paolo. Gli ultimi pontefici hanno per nome Giovanni Paolo; sembra quasi che ci sia dietro una specie di forzatura storica che induce l’eventuale papa di domani ad avere il coraggio di assumere il nome di Pietro. Quo modo vocaberis? Come vuoi essere chiamato? Vocabor Petrus, voglio essere chiamato Pietro.
Nella finzione letteraria metto in scena questo ultimo papa il quale assume il nome di Pietro, creando un po’ di sconcerto. Il papa vive al chiuso del Laterano, la sede episcopale romana dove ha trasferito la propria residenza. In qualche maniera restringe la sua azione: non lo si vede più in televisione, non fa più grandi viaggi. Alla sua messa quotidiana i fedeli si contano prima a migliaia, poi a centinaia, e infine a decine. Nessuno ode da lui altre parole che non siano, all’omelia, il commento delle Scritture, sempre più viene guardato come una specie di uomo superato, di passatista, legato ad una concezione non più attuale della religione.
Quando il suo isolamento è completo anche all’interno delle mura ecclesiastiche, Pietro II si chiede se esiste ancora una possibilità di riconoscersi cristiani in un nucleo essenziale di cose in cui credere e sperare, non in senso allegorico o metaforico o per modo di dire o in un certo senso, ma nella letteralità. Esiste ancora la verità cristiana nel mondo, o è giunto il momento profetizzato in cui, ritornando, il Signore non avrebbe più trovato la fede sulla terra? Il papa scrive un’enciclica Resurrectio mortuorum che va a impattare direttamente con il tema più radicale dell’annuncio cristiano, cioè il tema della promessa, della speranza della resurrezione dei morti, nella quale rivendica l’idea che i morti resusciteranno realmente, per vivere realmente, per ritrovarsi tra coloro che sono morti, secondo l’antica speranza cristiana. Viene così guardato sempre più con sospetto e commiserazione, sicché si ritrae sempre più in se stesso e scrive in mesi di angoscia una seconda enciclica che si chiama Mysterium iniquitatis..
Proprio questo fatto che non si sia compiuta nella storia la promessa di redenzione totale, anche della corporeità umana, che se si è costretti sempre per secoli, millenni a morire, a invecchiare, ad essere malati, proprio questo nasconde un mistero di iniquità, cioè qualcosa di oscuro nella storia cristiana che non si manifesta pienamente rispetto alle attese, alle aspettative delle prime generazione cristiane. Peggio che andare di notte, dopo questa seconda enciclica, che viene da tutti rigettata, il vecchio papa è totalmente angosciato. Non è più possibile proporre ai cristiani la verità cristiana nei suoi aspetti essenziali, perché il mondo è stato redento ma dopo duemila anni continua ad andare avanti come andava. Alla fine Pietro II sale nell’interno della cupola di San Pietro, con la lampada in mano e illumina le lettere che sono scritte tutt’intorno alla sua base: “Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et tibi dabo claves regni coelorum”, e precipita, in corrispondenza dell’incrocio dei bracci della chiesa di San Pietro, proprio là dove c’è la tomba del primo Pietro, dell’apostolo Pietro.
Questa fine non è solo catastrofica, apocalittica. Nelle mie intenzioni non voleva essere questo, perché nel momento in cui cade, avviene quello che la Bibbia aveva profetato nel libro dell’Apocalisse: ci fu un grande terremoto di cui non si era mai visto l’uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra, la grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città delle nazioni. Dio si ricordò di Babilonia la grande – biblicamente, nel Nuovo Testamento, Babilonia e Roma si corrispondono- per darle da bere la coppa del vino del furore della sua ira.
Quindi non è una fine totalmente in negativo, cioè non voglio dire che nell’ultimo papa si consuma il senso della vita della Chiesa, che la storia del cristianesimo è finita. No, proprio con la vicenda dell’ultimo papa che segue il Cristo stesso nella passione, la fine storica della Chiesa viene assimilata a quella di Cristo. Perché da questa idea, che mi permetto di definire indegnamente come dogma, visto che si tratta una finzione letteraria, che Cristo è il capo della Chiesa e la Chiesa è il corpo di Cristo, ne consegue che il corpo non può non seguire il destino del capo. Come Cristo è morto storicamente sulla croce per poi resuscitare, così la Chiesa stessa dovrà paradossalmente finire, fallire nella storia per poi assurgere a nuova vita. Come in Gesù si consuma sul piano storico la sua presenza reale, storicamente è un uomo che muore sulla croce, in quanto uomo la sua vicenda sembra compiuta, così la storia della Chiesa che è il corpo di Cristo, è qualche cosa che sul piano della storia vediamo perdere, vediamo insensibilmente allontanarsi da quelli che erano i grandi temi delle origini cristiane. E invece il coraggio di riaffermare questa verità porta la Chiesa ad essere sempre più isolata, sempre più emarginata nella storia fino al limite della sua conclusione più drammatica. Come quando sarà morto sulla croce Gesù risusciterà, così quando la Chiesa sarà fallita nella storia a imitazione del suo Signore, tornerà a vivere la vita eterna e ci sarà la risurrezione per tutti.
Questo è lo schema del libro Mysterium iniquitatis, dove riprendo il breve racconto Vocabor Petrus e scrivo le due encicliche, visto che in questi anni ho aspettato che la Chiesa parlasse di queste cose – come della resurrezione dei morti e del mistero d’iniquità – di cui non parla da secoli, sebbene non abbia negato nulla.
Il libro è stato variamente letto e interpretato: per alcuni è un po’ unilaterale ed esagerato, ma nel complesso accettabile; per altri sono andato fuori dal seminato. Cosa posso dire? Io sono un povero cattolicone da tanti decenni, ascolto il critico che dice che il mio testo non è accettabile perché contiene delle affermazioni pericolose, ascolto quello che afferma il contrario e penso che se in qualcosa ho sbagliato, la Chiesa gerarchica ci sta apposta per tirarmi le orecchie. Siccome sono arrivato fino a settanta anni e non me le ha ancora tirate, continuo ad aspettare che me le tiri. Sono invecchiato nella fede cattolica sempre con la speranza di sentire affermare con grande forza da parte della Chiesa le verità più radicali della fede cristiana, ma francamente le ho sentite annunciare solo per mezze parole, per accenni e siccome non ho molto più tempo per aspettare me le sono scritte io. Così mi sono deciso a questo atto non precisamente umile di prestare all’ultimo papa i miei pensieri e le mie parole. Non sarà un gesto precisamente di umiltà ma neanche vuole essere un gesto eccessivamente presuntuoso. Questa dunque è la storia del libro.
La cosa che mi sta a cuore, in fondo, è che vedo nella Chiesa di oggi un pericolo grandissimo. Pensiamo a che cosa era la Chiesa durante l’epoca della separazione, della questione romana, quando il papa non usciva dal Vaticano e poteva accadere che un papa morisse e che la gente neanche lo sapesse a Roma. La figura del papa e in genere la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo ha acquistato un’importanza enorme che parecchi decenni fa non aveva. Ancora quando ero giovane, la religione era una cosa relegata alla sacrestia; i preti vanno in sacrestia, dopo si vestono, dicono la messa, poi ritornano in sacrestia. Ora la Chiesa da quel punto ha fatto una strada immensa negli ultimi decenni. Basti pensare alla caduta del muro di Berlino con tutto quello che ha comportato e al ruolo di prima importanza che l’attuale pontefice, la Polonia, i cattolici dell’Europa dell’ est hanno svolto in questa vicenda. Quindi la Chiesa è diventata di nuovo quello che per la mentalità laica dominante sembrava che non dovesse mai più ritornare ad essere, cioè qualcosa che sta al centro della storia. Voi ricordate quando Argentina e Cile, dovendo discutere della questione dell’appartenenza di certe isolette, hanno chiesto la consulenza della Santa Sede. C’è evidentemente un riconoscimento da parte di tutto il mondo del ruolo di straordinaria importanza della Santa Sede. Spesso si ripete: la Chiesa è maestra di morale, è maestra di umanità. Da questa situazione nasce una specie di orgoglio che noi cattolici in questi anni abbiamo avuto in qualche misura: cioè l’idea che in fondo adesso siamo cattolici veramente, non siamo più gente da sacrestia, ma gente che si impegna, che porta avanti un discorso coerente. Se il papa si muove tutti gli stadi del mondo, tutti gli aeroporti del mondo sono pronti ad accoglierlo, con centinaia di migliaia, con milioni di fedeli.
Quest’idea che abbiamo, mi permetto di dire, è in gran parte sbagliata, perché confondiamo quello che è il successo storico, politico, anche mondano dell’istituzione ecclesiastica, con quello che è il problema veramente ultimo che dovrebbe stare a cuore sopra ad ogni cosa al credente, se è diventata più credibile oggi di quanto fosse ieri la verità cristiana nelle sue affermazioni più radicali.
Se noi facessimo, come si usa fare adesso, i sondaggi all’uscita della messa domenicale e si domandasse ai fedeli: “Quando tu reciti il credo, per esempio, e dici che aspetti la risurrezione dei morti, che cosa intendi?”, sono sicuro che molti non saprebbero dare una risposta, e pochi direbbero: “Intendo che i morti saranno di nuovo visibili, che le persone care che ho perdute le ritroverò, che il Signore me le restituirà”. Molti invece direbbero: “Ma… aspetto la resurrezione dei morti nel senso che sono convinto che tutti coloro che muoiono in Domine moriuntur, per cui tutti sono riassunti in Dio e in qualche modo sono compresenti insieme a me in Dio”. La fede nel senso letterale della risurrezione dei morti è in gran parte tramontata, tanto che non si usa più parlarne.
Se continuassi l’inchiesta e domandassi: “Hai appena recitato il Padre nostro, che cosa vuol dire venga il tuo regno?”, sono certo che anche lì le risposte sarebbero le più varie, perché solo per pochi, penso, significa che verranno nuovi cieli e nuova terra in cui finalmente abiterà la giustizia, come dice la seconda lettera di Pietro, per cui chi ha fame e sete di giustizia sarà soddisfatto, chi ha pianto delle lacrime le avrà asciugate dalla mano di Dio. Per la maggior parte dei fedeli probabilmente significa qualcosa di molto più modesto: che la gente sia un po’ migliore, che non si commettano troppe infamie, troppe crudeltà, che la gente voti bene, che poi non si sa bene cosa significhi, e così via.
Ecco allora che a me pare che il pericolo maggiore della fede del nostro tempo sia quello di uno slittamento. Piano, piano ci allontaniamo dalle affermazioni fondamentali della fede, nelle quali credevano le generazioni che ci hanno preceduto, perché il nuovo testamento testimonia chiaramente, addirittura, che le prime generazioni cristiane, o per meglio dire i cristiani delle prime generazioni, aspettavano di non dover più morire. Questo è detto chiaramente. Se voi prendete la fine del vangelo di Matteo, è scritto che quando Gesù morì, in quel momento molte tombe si aprirono, e molti dei santi, cioè dei fedeli, uscirono dalle tombe e furono visti a Gerusalemme. Crediamo ancora a questo? Quando per esempio la lettera agli Ebrei dice che non c’è realtà né in cielo né sulla terra che non debba essere purificata per mezzo del sangue, questa idea tipica delle antiche società sacrificali è ancora l’idea di un cristiano?
La mia impressione è che si rischi di fare confusione, cioè che si mettano insieme un po’ delle grandi verità antiche tradizionali, forti, che hanno attraversato i secoli, i millenni, che però vengono reinterpretate addolcendole un po’, interpretandole in senso metaforico. Per questa via quelle che erano affermazioni perentorie della fede cambiano natura e diventano affermazioni di carattere etico. Ecco perché io storco abbastanza il naso di fronte all’ecumenismo. Perché sembra quasi che se tutte le religioni si mettono d’accordo, gli uomini non fanno più la guerra fra di loro e rispettano la natura, si raggiunge lo scopo della vita umana: vivere pacificamente.
Già, però c’è qualcosa che la sua importanza ce l’ha: Dio ha mandato suo figlio, suo figlio è diventato uomo, è morto sulla croce per salvarci dai peccati, è risuscitato dai morti, ha promesso la risurrezione dei morti. Piano piano, insensibilmente, mi pare che ci si sia allontanati da quelli che sono i contenuti ardui, difficili, folli della fede, perché S. Paolo nella prima lettera ai Corinti dice: “A Dio è piaciuto salvare gli uomini per mezzo della follia del messaggio”, un massaggio non rispondente a una logica mondana. Abbiamo trasformato la religione in un fatto etico, in un fatto morale. Ne consegue che uno può essere cristiano, può essere buddista, può essere ebreo, può essere musulmano, può essere ateo, ma non è questo che conta, l’essenziale è che siamo tutti d’accordo nell’aiutarci, nella solidarietà, nel volerci bene. Questa è una cosa nobilissima, che io rispetto profondamente, che però ha l’inconveniente di non essere il cristianesimo. Uno può essere un buon cristiano che crede, ma poi si comporta in modo inadeguato alla sua fede, può essere d’altra parte un bravo uomo che non crede assolutamente in niente, anche se dà una mano al prossimo. Questi due piani vengono confusi uno con l’altro e mi pare che vengano confusi in modo tale che insensibilmente si passa da quello che è il contenuto delle verità religiose, definite, sacrosante, che la Chiesa ha fatto proprie attraverso i secoli, a dei contenuti genericamente morali, a proposito dei quali l’essere credenti o l’essere non credenti non ha più una vera rilevanza. Perché se a contare veramente è l’aiuto dato al prossimo, la solidarietà, il senso di impegno per il prossimo, allora che Cristo sia morto sulla croce oppure no, che ci sia o non ci sia Buddha, praticamente è tutto lo stesso. Ciascuno avrà i suoi gusti, ciascuno avrà le sue tradizioni ma in questo modo si ha una dispersione dei contenuti autentici della fede cristiana.
Spesso ci lamentiamo di vivere in un mondo poco morale, che quelli che si professano cristiani non danno un grande esempio di coerenza morale, il che credo sia purtroppo vero e non soltanto da oggi, però ci dimentichiamo di dire che l’incoerenza morale di molti che si dichiarano cristiani deriva dall’incoerenza della loro fede. Perché in effetti ai miei tempi mi si diceva: guarda che se commetti questo gesto tu commetti un peccato, offendi Dio, Dio è pieno di gloria e tu offendi la gloria di Dio, per cui tu sei degno di castigo. Si può discutere se fosse la forma migliore, però aveva una forza enorme. In nome di che cosa noi vincoliamo la gente ad un comportamento etico? In fondo cerchiamo di darci una mano l’uno con l’altro, ma è poco; infatti se ci guardiamo intorno, vediamo che la mano ce la diamo poche volte, finché i nostri interessi vanno d’accordo.
Il cristianesimo rischia di diventare una specie di correttivo morale della società nella quale viviamo, dove qualche cosa di bello ci sarà, ma certo c’è anche moltissimo di brutto. Una morale in qualche modo si è sostenuta nei secoli passati, in quanto era attaccata ad una verità religiosa, era attaccata all’idea di un Dio che ci ha creati, di un Dio che è giudice della nostra vita. Tolto quello, ci rimane soltanto un’etica che non si sa più su quale base si sostiene, e infatti, se ci guardiamo attorno a noi con un minimo di onestà, dobbiamo dire che, nel pubblico come nel privato, non vediamo grandi prove di moralità. Proprio perché effettivamente non c’è più una forza sufficiente che lega.
Quando ero bambino mia madre diceva: non devi mangiare le ciliegie, devi fare un fioretto perché è il mese della Madonna. E’ un esempio, giusto o sbagliato, fate come volete, però, io ero un bambino e pensavo: ma allora Dio vuole o non vuole, è lecito o non è lecito. Mi facevo una serie di problemi di cui oggi non gliene importa niente a nessuno. Ma in un mondo in cui non gliene importa niente a nessuno, è difficile fondare un comportamento etico.
Perciò lo sdegno che è venuto fuori, e posso dirlo perché sono vecchio, nello scrivere questo forse ultimo libretto, nasce dal senso che se non andiamo a scavare in profondità le radici della nostra fede, possiamo ripetere fino a che vogliamo quanto siano buoni, parlare di cultura della vita e di amore, però sostanzialmente non usciamo dalla contraddizione della nostra vita. Non abbiamo il coraggio di guardare in faccia le contraddizioni che si sono accumulate sopra 20 secoli di storia cristiana. Insieme a tante ricchezze, ci sono anche tante miserie nella Chiesa. Quando il papa qualche volta lo afferma, trova sempre qualcuno che lo zittisce perchè dice la verità.
Però se noi non torniamo alla radice delle verità cristiane così come sono state accolte da chi ha ascoltato la parola di Gesù e la parola degli apostoli, noi possiamo sperare di ritrovare un fondamento per le nostre azioni, per il nostro comportamento; se invece pensiamo che quelle siano cose antiche con un’origine più o meno mitica, più o meno superstiziosa, allora effettivamente ci allontaniamo troppo decisamente dal cristianesimo.
Voglio concludere brevemente con un ricordo di quando ero bambino. Mio padre era un vecchio maresciallo dei carabinieri in Liguria dove sono nato, e gli dicevo: “Papà, ma perché non vieni anche tu a messa con la mamma e con Patrizio”, che era mio fratello. E lui mi rispondeva: “Perché la gente che va in chiesa è peggio di quella che non ci va”. E io a mia volta: “Questo potrebbe essere anche vero però non è neanche obbligatorio, tu potresti anche andare in chiesa e dopo comportarti bene”. Mio padre era un brav’uomo, di quella bontà naturale nel senso che lui predicava sempre che non si deve prestare i soldi, perché chi presta i soldi perde i soldi e l’amico, e poi ci cascava sempre. E allora lui diceva: “Ma in fondo che cosa conta?”.
In pratica ha preceduto i teologi, perché adesso quasi tutti i teologi sono arrivati alla stessa conclusione del maresciallo dei carabinieri, mio padre, negli anni venti, trenta. Cioè che l’essenziale, quello che conta, è rispettare il prossimo, non fare del male al prossimo, essere solidali con il prossimo, cercare di dare una mano a chi ne ha bisogno, aiutarci l’uno con l’altro: questo è il cristianesimo, diceva mio padre, e si sentiva abbastanza a posto. Continuava inoltre: “Ma per fondare questa verità così ovvia, che dobbiamo darci la mano uno con l’altro con un po’ di buona volontà e di benevolenza, che bisogno c’è di tirar fuori Dio? Che bisogno c’è di credere in Cristo, morto sulla croce, poi risuscitato e salito al cielo, che alla fine del mondo farà resuscitare tutti i morti?”. “Queste sono favole – diceva mio padre – restiamo al dato solido. Quello che conta è aiutare il prossimo. Programma sul quale anche il non credente può essere perfettamente d’accordo”.
Ma mio padre si dimenticava, come si dimenticano molto spesso i teologi di oggi, che se noi siamo arrivati ad elaborare questa idea dell’importanza di essere solidali con il prossimo, è proprio perché abbiamo alle spalle venti secoli di un Dio che è stato adorato e venerato come padre, come creatore, nel nome del quale siamo tutti fratelli. Se no, non ci saremmo arrivati mai. Se siamo arrivati a questo, è proprio in virtù di quelle favole antiche, come le considerava mio padre e come molti teologi, oggi, tendono ancora di nuovo a considerare. Invece, proprio attraverso quelle così dette favole, che erano poi le grandi verità della fede cristiana, noi siamo arrivati adesso, riducendo, riducendo, riducendo a capire per lo meno che dovremmo avere un occhio di attenzione, di rispetto e possibilmente di amore per il nostro prossimo.
Testo, non rivisto dell’Autore, dell’incontro tenuto il 7.4.1995 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.