Giornale di Brescia, 25 febbraio 2010
«Ho intinto (il mio pennello) nel rosso del suolo della mia terra, nel suo mare di sangue». Chissà perché solo i poeti come Daniel Varujan e le scrittrici come Antonia Arslan riescono a raccontare le atrocità, trasformando un coagulo emotivo potente in musica struggente come sono le melodie armene intonate dai duduk e dai loro lievi echi flautati. L’altra sera nella Sala Bevilacqua della Pace, in città, su iniziativa della Cooperativa Cattolico democratica di Cultura, è stata la voce dolce della scrittrice Antonia Arslan, impastata al miele dei paklavà, a raccontare una delle pagine più vergognose della storia, il primo genocidio del ventesimo secolo. Per ordine del partito dei Giovani Turchi un milione e mezzo di armeni furono sterminati negli anni 1915-’16. «Possiamo fare quel che vogliamo; chi ricorda più il genocidio degli armeni?» affermò Hitler nel 1939 rivolto ai suoi collaboratori.
Quelle morti non sono state invano
L’autrice è stata presentata ad un pubblico numeroso e partecipe dall’amico Pietro Gibellini, ordinario di Letteratura italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia che, citando Dante, ha rimarcato quanto sia compito precipuo dell’autore arricchire la nostra conoscenza. Ed è esattamente ciò che Antonia Arslan con «La masseria delle allodole» e «La strada di Smirne», è riuscita a fare offrendoci una riflessione, seppur dolorosa, su di un passato che debba essere di costante monito per il futuro. Dal primo romanzo che ha raggiunto un successo straordinario, 26 edizioni tradotte in 15 lingue, è stato tratto un film per la regia dei fratelli Taviani. Il plot narrativo è drammatico ma la scrittrice riesce a far filtrare una luce di speranza, una sorta di iridescenza come dopo quel diluvio universale che, come indica la tradizione, vuole proprio Noè sulla cima del monte Ararat, tanto caro agli armeni. La speranza va preservata sempre, non solo per i sopravvissuti, ma anche per la famiglia Arslanian che finì falcidiata dalle scimitarre delle guardie del Talaat Pascià.
Quelle morti non sono state invano. È come vedere un ramo secco germinare, anche la morte dà i suoi frutti. E dalla tragedia della sua gente, la Arslan è riuscita a riemergere attingendo all’infanzia. Nei prologhi dei suoi romanzi i ricordi rievocano il nonno patriarca Yerwant che la porta nella basilica di Sant’Antonio a Padova o, nel più recente, la piccola Antonia che ricorda l’incidente del press papier, una boule di cristallo che sbadatamente aveva fatto cadere. Con coraggio di fronte al nonno furente, assume la responsabilità del misfatto, assolvendo la tutrice. «Ho sentito il dovere di dire la verità», una sorta di imperativo etico che, nella coscienza di una bambina, ha gettato un seme; il tempo ha fatto fiorire i frutti e, in età adulta, è diventata denuncia.
Si definisce una cantastorie la Arslan: «Ho raccolto le memorie di un popolo in diaspora, un popolo solo di sopravvissuti, condannati all’esilio. Dentro di loro c’è un deserto interiore assimilabile alle distese dell’Anatolia». Lei ne ha ascoltato le voci restituendole alla narrazione.
Con gli armeni anche assiri, greci e ucraini
La sua volontà di denuncia dei crimini contro l’umanità ricorda le parole di Raphael Lemkin: «La nostra intera eredità culturale è il prodotto di tutti i popoli…». Fu l’esule polacco ad interessarsi per primo dello stermino armeno, coniando nel 1944 la parola genocidio. Antonia Arslan elenca le stragi organizzate non solo contro gli armeni, gli assiri, i greci del Ponto che subirono dure persecuzioni ad opera degli ottomani e poi dei nazionalisti turchi. Nel 1923 i sopravvissuti massacrati furono espulsi e rimandati in Grecia. Lo sterminio degli ucraini, 5 milioni di contadini fatti morire di fame… Sono molte le verità storiografiche taciute, anche quelle più attuali che riguardano Cipro e la progressiva cancellazione dell’identità bizantina. Il genocidio degli armeni ora si trova di fronte a storici turchi che si battono coraggiosamente con le loro «anime d’acciaio», contro il negazionismo di Stato.
L’entrata in Europa della Turchia non può prescindere da un atto doveroso di scusa verso quello sterminio compiuto 95 anni or sono, ha precisato la scrittrice. La Germania lo ha fatto nei confronti d’Israele, ora il 98 per cento degli studiosi sanno, grazie a documenti, testimonianze e fotografie, che negli anni 1915-’16, uomini inermi vennero uccisi in campi di concentramento, mentre le donne nel deserto siriano con marce estenuanti vedevano i loro bambini morire, come nella ninna nanna delle deportate. Non avevano più latte nei loro seni, solo rosso sangue sgorgava dai loro occhi.