“Nebbia” di Giovanni Pascoli

Autori: Ebani Nadia
Tematiche: Letteratura

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’ io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ ha piene le crepe
di valeriane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

La lirica fu composta nel 1899, pubblicata in rivista nello stesso anno (“Flegrea”, 20 settembre) e successivamente inclusa nei Canti di Castelvecchio. E formata da cinque strofe: esastiche – tre novenari, un trisillabo, un novenario, un senario – con rima a b c b c a: l’ultimo verso perciò riprende il primo, e le due coppie di versi centrali sono leggibili come mutazioni di ballata.
Ma il fatto di maggior rilievo – unico nella produzione pascoliana – è che il novenario di apertura ritorna, invariato nella forma, all’inizio di ciascuna strofe seguente: “Nascondi le cose lontane”, un presente indicativo che senza giunte di ornamenti retorici, traduce in parola la constatazione di un dato reale. Ogni strofa successiva pertanto, ritornando puntualmente a quel dato, introduce, come ogni fatto iterativo, un cambiamento di relazione tra quell’espressione costante e il resto del corpo strofico, che in tale modificazione trova di volta in volta una sua primaria specificità.
Tuttavia, quella spoglia osservazione iniziale, che diventa réfrain, cadenza ritmica e meditativa interna alla lirica, è preceduta da un avantesto assai ricco, da cui scelgo una prosa descrittiva:
“La nebbia nascondeva tutto: le cose vicine, le chiese, col loro campanile apparivano sì, ma velate e begerognole. Torno torno mare (cascato) cielo e terra si fondevano in un tutto grigio, quasi lucente donde spuntava il sole. Spariti tutti i villaggi. E tutto quello spazio uniforme sonava di pigolii, di tintinni, di gridi, di stridi, pareva che gli uccellini protetti da quella oscurità lucida facessero festa: tratto tratto una fucilata, che echeggiava più forte, che per solito, faceva capire che avevano torto a far festa. Le cose piccine, come loro (poveri pittieri cincie, passeri, cutrettole) apparivano si scorgevano le cose da vicino: solo le grandi (case, alberi, uomini), e solo da lontano non si vedevano: Non (sic) si vedeva il cacciatore e molto meno l’uccellino. Pareva una caccia al buio. Faceva un certo senso pensare che lì dentro le caligine era chi uccideva e chi era ucciso. S’udivano anche le peste gravi d’un uomo in zoccoli. Poi il sole dopo aver fatto prova d’uscire, vince finalmente. La nebbia s’agglomerava qua e là, scoprendo ora un villaggio ora una selva che parevano campati in aria (Il campano d’una vacca; l’uomo invisibile)”.
Internamente a questo testo risulta già operato un passaggio che costituisce il preliminare imprescindibile della lirica. La nebbia infatti diventa oggetto di poesia non perché nasconda ogni cosa, com’è nell’inizio (“La nebbia nascondeva tutto”), ma perché recide le cose lontane (“Solo le cose lontane e solo di lontano non si vedevano”); ed è in forza di questa distinzione che il tema tocca le corde sentimentali del poeta con tale intensità di pathos che egli si rivolge all’immagine non solo con discorso diretto, ma con apostrofe, resa più enfatica dalla duplicazione e dal costrutto anaforico:

“tu nebbia impalpabile e scialba
tu fumo che ancora rampolli”

Ciascuna delle due apostrofi è piegata a una funzione ben precisa: la prima, limitata a un verso, definisce la nebbia con due qualificazioni: impalpabile, cioè così fina e sottilmente diffusa da rendere lo spazio uniforme (“E tutto quello spazio uniforme…”) immagine immaterica, senza corpo e senza forma che per altro annulla la percezione dei corpi e delle forme; scíalba, cioè exalbata, priva di colore e che nel contempo toglie il colore alle cose.
La seconda apostrofe presenta una metafora meno semplice. La nebbia qui è chiamata “fumo”; e per quanto la parola assuoni con il francese «brume», sicuramente presente al Pascoli (negli autografi l’inizio della poesia è tradotto in francese: “Caches les choses lointaines / toi brume”), tuttavia segnala un’elaborazione già soggettiva del dato iniziale: tu fumo, caligine, che ancora sul fare dell’alba continui a sollevarti dalle macerie di un disastro compiutosi nell’aria (fatto che non ordinariamente perterrebbe dunque alla categoria del contingente) durante la notte, tra bagliori di lampi. La complessità dell’immagine, la sua improbabilità (quando mai lampi notturni in un autunno nebbioso, che cosa sono le “aeree frane”) si dipana quando si tenga conto che in questo passo il poeta rammemora frammenti di versi e lacerti fantastici messi a punto in un altro suo lavoro, il dramma per musica dell’Anno Mille, il cui tema, ovviamente, è la rappresentazione dell’ultimo disastro cosmico.
Lo aveva iniziato nel’94 e nel’97, in occasione del centenario donizzettiano, ne aveva pubblicato il Prologo in un numero, unico uscito a Bergamo.
Con il testo, che qui riportiamo, la lirica intreccia legami non trascurabili.

IL PROFETA
(sulla torre, seduto, in atto di osservare e meditare)

Dormenti! a me disse il mio Dio
Tu, veglia, tu leggi le note
ne l’alte pareti, che Dio
ti scriva con Syrio e Boote.
Attendi, sospeso ne l’ombra,
la traccia improvvisa del dito
nel cielo infinito,
tu, Ombra!

Mortali! a me disse il mio Dio:
Tu, odi le voci lontane
ne li alti silenzi, che Dio
ti mandi con urti di frane.
Attendi la voce cadente
qual fiume da l’orlo del mondo
nel gurge profondo,
tu, Niente!

Ne’ tuoi peristili accosciato
qui sto, su la soglia, a te fido;
premendo nel cuore il latrato,
fiutando un tuo cenno, un tuo grido.
E già nel vestibolo intorno
l’aurora mi venta del giorno
tuo, Dio.

La monodia, divisa in strofe, antistrofe, epodo, è costituita da novenari, un senario e un trisillabo (gli stessi elementi metrici di Nebbia), strofe ed antistrofe iniziano con verso pressoché uguale (e che nella bella copia autografa immediatamente precedente a questa stampa erano uguali), il v. 10 “tu, odi le voci lontane” è vicinissimo al verso di réfrain di Nebbia, non solo perché la parola-rima lontane è la medesima, ma perché i due novenari sono costruiti per intero con assonanza pressoché perfetta, vale a dire, tutti gli accenti principali del verso (2a 5a 8a) cadono sulle medesime vocali, e tra le sedi meno forti, soltanto la sesta presenta una minima differenza vocalica (voci, cose); il sintagma “urti di frane” rielabora un precedente “crolli di frane”, testimoniato dagli autografi, e passa dal dramma alla poesia estendendosi per un’arcatura maggiore: “crolli / d’aeree frane”. A questo punto, la partizione metrica prodotta dall’enjambement, crolli in fine di verso e in rima con rampolli, lascia intravvedere una presenza letteraria della massima importanza, Dante, Purgatorio, V, vv. 14 e 16, e ancora, Purg. XXVII, 42-3, dove i due verbi si trovano in stretta vicinanza se non metrica, sintattica: (“che nella mente sempre mi rampolla, / ond’ei crollò la fronte”).
La possibilità di una suggestione dantesca acquista una rilevanza di diverso tipo, quando si prenda atto che nella prima strofe anche l’altra coppia di parole – rima, alba: scialba, rinvia al Purgatorio, XIX, vv. 4 e 9.
Ci si chiede allora se la concomitanza testuale non sia «spia» di una relazione di pensiero e di poesia tanto meno casuale, quanto più il medesimo canto dantesco entra vitalmente nella riflessione pascoliana. Il canto si apre con il racconto di una visione: (vv. 7 segg.) “mi venne in sogno una femmina balba / ne li occhi guercia, e sovra i pié distorta, / con le man monche, e di colore scialba. / lo la mirava…” e la contemplazione di Dante produce l’effetto a sua volta mirabile di sciogliere alla donna la balbuzie (“così lo sguardo mio le facea scorta / la lingua”), di liberarle la parola, che infatti si fa canto:

Io son, “cantava”, io son dolce serena,
che’ marinar in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
lo volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!

Per miracolo di contemplazione, la femmina balba si trasforma in sirena che dismaga i marinai, li fa rinunciare al viaggio desiderato, come già Ulisse.
Che nel testo di Nebbia affiori questa reminiscenza dantesca risulta piuttosto sconcertante per due motivi: il primo, che la femmina balba secondo il Pascoli rappresenta l’accidia (Sotto il velame, § IV: “Ora anche le altre particolarità della femmina sono consonanti a questa. E’ balba, cioè non ha integra la vista, perché è guercia; né integro il moto, ché è distorta sopra i piedi, né il gesto, ché ha le man monche; né il colore e il calore, ché è scialba e intirizzita. Non può né parlare né vedere né camminare né far nulla; e non vive. Ognun vede che è proprio l’accidia»); il secondo, che le particolarità della donna da Pascoli sono generalmente riferite anche a se stesso: il balbettamento (che sia desiderio o destino di regressione o scelta innovativa di linguaggio, “suo latino”), il pié distorto, di cui il poeta era effettivamente afflitto fin dalla nascita, il non vedere, condizione in cui Pascoli ricorrentemente si rappresenta; e infine, soprattutto, il significato conferito all’immagine, il suo rappresentare l’accidia che coincide con una dichiarazione di vita e di poetica enunciata fin dagli esordi, cioè fin dalla prima edizione di Myricae e dal suo componimento di apertura, Gloria, che non a caso presentava la figura dantesca di Belacqua (“Al santo monte non verrai, Belacqua?”). Io non verrò: l’andar in su che porta? / lungi è la Gloria e piedi e mani vuole…”).
Nebbia si apre dunque con una prima strofe di struttura piuttosto complessa, in cui i procedimenti logico-immaginativi sono organizzati con calcolata e sottile gradualità: la nebbia, come dice il primo verso, nasconde le cose lontane nello spazio; la nebbia tuttavia è anche fumo che allude a una lontananza temporale, è esito e segno di una rovina notturna che perdura nel mattino.
L’immissione di elementi temporali nella rappresentazione di un fenomeno visivo è assolutamente importante nella poesia, ne determina l’intera dinamica interna. Di modo che la ripresa invariata del v. 1 all’inizio della seconda strofe porta dentro la consapevolezza di ciò che nel tempo precipita. E il sentimento allora segue i propri imperativi accorati: “Nascondi le cose lontane”, “nascondimi quello ch’è morto”.
La percezione del tempo e del franare dello spazio, si traduce in sentimento del tempo proprio: “quello ch’è morto”, il poeta lo intende morto relativamente a sé, e l'”io” – che si libera esplicitamente nell’uso del pronome di prima persona, (nella particella -mi e poi nel sintagma io veda che si ripete in ciascuna strofe) -, l’io reclama il bisogno di coprire quella morte.
La nebbia, impedimento alla visione del reale come la siepe dell’Infinito, a differenza di quella non produce né finzione né dolcezza di naufragio. Qui il percorso è inverso. Non c’è scatto contrappositivo, anzi, al non vedere si aggiunge il desiderio di una cancellazione più precisa; il mare che sommerge tutto è dato non alla fine, ma già all’inizio, tutto è naufragato aprioristicamente.
Quella determinatezza iniziale del testo leopardiano, che nasceva da cara consuetudine (questa siepe, questo colle) e che era condizione necessaria all’idillio, si risolve se mai nell’individuazione, scelta e isolamento di alcune superstiti immagini che sono relitti e reliquie insieme. Non a caso “soltanto” la siepe. E non per ciò che escludendo lascia immaginare, ma per ciò che circoscrive, l’orto (ma in rima con morto), e poi, dopo la siepe, la mura, cioè un’altra siepe, ma tradotta in termini personali, privata di ogni riferimento letterario, anzi detta con parola vernacolare, la mura che è difesa e testimone. Presenta infatti le “crepe”, ossia lacerazioni medicate dal precario lenimento delle valeriane, fragile e faticosa volontà di dimenticanza.
Quello che è morto è troppo personale e acerbo per essere ricontemplato nella memoria. E quindi non sovviene, a differenza delle morte stagioni leopardiane, per forza dinamica intrinseca, insieme all’eterno e alla stagione “presente e viva”: qui il gioco è rovesciato, cosicché anche il presente è determinato per la forza statica di alcune ferme immagini simboliche, insomma non è propriamente vivo.
E’ forse opportuno dare uno sguardo alla storia di tali immagini nell’insieme della produzione pascoliana, per valutarne le possibilità di significazione. E mi soffermo sulla prima e più importante, cioè sulla siepe.
La siepe, che entra frequentemente come elemento figurativo nella lirica pascoliana, ricorre per due volte come titolo di componimento: sia di un sonetto myriceo (nella sezione Tristezze) e qui la siepe, che con le bacche pasce la “gente piccola e vocale» dei passeri, rappresenta il nutrimento goduto in un tempo di felicità famigliare che per il poeta è inequivocabilmente perduto, (v. 9 “Anch’io, ricordo, ma passò stagione”), sia di un poemetto, pubblicato sulla “Tribuna” il 31 agosto 1897, subito dopo il discorso elettorale di D’Annunzio detto “della siepe”. Tuttavia questa occasione di stampa in rivista ha dato adito a una lettura piuttosto riduttiva del poemetto, assunto (Sanguineti) come manifesto della forma-mentis piccolo borghese del Pascoli, per il quale forse, d’altro canto, non si è tenuto nel debito conto del contesto in cui il poemetto si trova inserito e al quale era a priori destinato, né della forma del testo – sarebbero state sufficienti analogie con un poemetto chiaramente simbolico come il Vischio, composto nello stesso anno, per porre sul tappeto ipotesi più complesse – né del contenuto del testo: qui la siepe è presentata attraverso funzioni e definizioni non trascurabili: “dissesta” il pellegrino, “La siepe è la madre che mi bada”, la siepe “immobile al confine” delimita e parla: “tu parli; breve parli tu, che fuori, dici un divieto acuto come spine, dentro un assenso bello come fiori, / siepe forte ad altrui, siepe a me pia / come la fede che donai con gli ori / che dice mia la donna che fu mia”.
L’immagine della siepe ricorre inoltre in apertura di un altro poemetto, di non ordinaria importanza, dal momento che occupa sempre una posizione di privilegio nella silloge dei Primi Poemetti, sia nell’edizione ridotta del 1900, sia in quella definitiva del 1904, Il Bordone:

Si tagliò da una siepe – era un mattino
triste ma dolce – il suo bordone, e, volta
la fronte, mosse per il suo cammino.

Sì, mosse. E quella era la siepe folta
d’un camposanto, ed era il camposanto,
quello, dove sua madre era sepolta.

La siepe qui non solo assolve le funzioni materne del nutrire, dissetare, difendere e non si definisce soltanto come luogo d’amore esclusivo, “l’anello al dito che dice mia la donna che fu mia”, ma è anche delimitazione, contorno e figura del sepolcro materno, che dice sacralità e sanzione. E se da quel limite immobile, il pellegrino, cioè il poeta, stacca il bordone per intraprendere al mattino il suo viaggio, in realtà da quel limite non si allontana mai, nonostante l’errore lungo che gli ha franto il corpo, tant’è che il bordone, cioè la poesia, in quel punto ha messo pian piano radici e ha dato qualche fiore e qualche foglia.

Ed ecco, vede
che da quel giorno radicò pian piano

il suo bordone, e che visse, e che diede
già fiori e foglie: sotto le sue dita
germinò, radicò sotto il suo piede.

Come dicevo altrove, la siepe, cioè la madre, è allora anche principio di contraddizione: fornisce il bordone per camminare, ma è anche irrinunciabile luogo di radici, confine immobile, punto di stasi sul quale ci si incurva e deforma (“E il pellegrino / curvo sopra la immobile sua vita”, vv. 38-9). E’ insomma immagine di incantamento, lusinga che dismaga dal viaggio, possibilità di poesia e dolce sirena. E accidia, come la femmina balba, come la nebbia che non a caso, allora, è apostrofata al v. 3 con la parola “fumo”: “gli accidiosi – chiosa Pascoli, Sotto il velame, IV – fitti nel fango portarono dentro accidioso fumo, sono tristi e hanno le parole tronche. Ora anche le particolarità della femmina sono consonanti a queste”.
D’altro canto i termini della contraddizione e il dramma che ne viene sono rappresentati con lucidissima consapevolezza dallo stesso Pascoli in una prosa già ritmica che segue immediatamente la descrizione che ho citata all’inizio:

poesia.

Nascondimi le cose lontane,
velamele almeno.
Io voglio godere in pace
la visione vicina:
i miei (su il mio) due alberi, il mio campicello.

Io non voglio vedere le cose
lontane
han tutte un invito a
camminare e a ritornare
e io voglio posare,
posare nella mia casa
tra i miei due alberi etc.

L’invito delle cose lontane
è troppo triste
al mio cuore: bisogna camminare
e io sono stanca stanca,
bisogna ritornare, e ritonare
non si può, non si deve.

Cammina<re> verso le cose lontane
potrei anche se non fossi
così stanca e non voglio,
ritornare alle cose lontane
vorrei ma non posso.

—————

Nascondimi le cose lontane,
sì quelle del desiderio
sì quelle del rammarico.
Alle une non voglio andare,
alle altre non posso tornare
lascia che io stia tra i
miei due alberi.
Ma soprattutto nascondimi
quelle del rammarico:
non sono che croci, non
sono che cipressi,
non sono che una casetta,
dove mia madre sfaccenda,
dove i miei fratellini ruzzano.
Nascondimi, nascondimi tutto.

Là mi chiamano: vieni
qui, è la gioia,
la gloria, l’amore.
E ci credo: non potrò (su vengo) io.
Perché di qua mi chiamano
e dicono: vieni qui
è la pace, l’affetto, il bacio
di tua madre, e ci credo
disperatamente ancora
e dico non posso.

Dunque, il possibile è unicamente nella stasi, cioè nella rinuncia allo spazio e nella cancellazione del tempo – passato e futuro – dalla quale si isolano alcune numerate immagini – i due peri e i due meli – che garantiscono il minimo di dolcezza necessario alla sopravvivenza, definita, comunque, come pane nero. Il miele, cioè la poesia, unico remedium, è, distillato dalla malattia stessa, come il “glutine di morte” del Vischio. E le immagini, da cui essa fluisce, sono tutte comprese entro delimitazioni perentorie che si ridisegnano nella testura della poesia: le cose lontane nel passato, quelle del rammarico, sono chiuse tra i due avverbi “soltanto” collocati ai vv. 10 e 16, a legare insieme le strofe seconda e terza; le cose lontane nel futuro, quelle del desiderio, con perfetta analogia di costrutto sono raccolte tra i due sintagmi “là, solo” collocati ai vv. 21 e 28 a comprendere esclusivamente figure di morte: “quel bianco di strada che un giorno ho da fare” (paradossalmente è solo nella morte che si scioglie la contraddizione e si compie, se pur passivamente, un cammino) e poi “il cipresso”, dove quel cammino finisce, altro emblema di morte che nella sua staticità verticale e irrelata non concede altre immagini. “Là”, non si intravvede nessuna siepe, è spazio di assenza. Pertanto, il ritorno dello sguardo alla considerazione dell’hic et nunc del penultimo verso “qui, solo quest’orto”, mentre, riprendendo il v. 11, chiude e perfeziona la simmetria tra le due coppie di strofe, seconda-terza, quarta-quinta, tra le cose del rammarico e quelle del desiderio, mette in relazione quel medesimo elemento del presente, l’orto, con figure di rappresentazione ormai puramente simbolica della morte. La parola non allude più tanto a un proprio spazio chiuso, quanto a una più universale condizione di vita: è luogo di indugio, cioè soglia, limitare presso cui, infatti, sonnecchia, in accidiosa veglia, un simbolico cane. E non a caso, riemerge con quest’immagine, il canto dell’Anno Mille: “qui sto su la soglia, a te fido; / premendo nel cuore il latrato / fiutando un tuo cenno, un tuo grido». Ma la ripresa è, come si vede, antifrastica: il biblico “cane della coscienza” con cui Pascoli rappresenta se stesso è in atteggiamento opposto a quello del profeta (“in atto di osservare e meditare”, addirittura pronto a “fiutare” ogni minimo segno divino) e gli imperativi che caratterizzano entrambi i testi sono di segno contrario: a “tu veglia”, “tu leggi”, “tu odi le voci lontane”, “attendi”, corrisponde l’unica invariata richiesta nascente dall’interno: “nascondimi”, “nascondimi”. Come a dire che la nebbia, la non visione, cioè la poesia, non può prestare attenzione e voce ad alcun dettame d’autorità esteriore.

NOTA: testo rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 19.2.1992 su invito della CCDC.