Il 16 ottobre del 1985, Simon Wiesenthal venne a Brescia per la seconda edizione del “Colloquio Internazionale su pace, diritti dell’uomo, sviluppo dei popoli”. Il clima in cui l’invito gli era stato rivolto era il meno propizio. Erano i giorni in cui si era verificato il sequestro della nave "Achille Lauro" da parte del terrorismo arabo e l’’assassinio di un passeggero handicappato perché ebreo. Il comportamento del nostro governo era stato ambiguo. Wiesenthal ne era sdegnato e disdisse l’impegno. Dovetti ricorrere a un suo amico, lo storico Ricciotti Lazzèro, per indurlo a recedere dal proposito di non mettere piede in Italia. Lazzèro scovò Wiesenthal in Olanda, presso amici carissimi, dove si rifugia nei momenti più dolorosi. E solo durante la notte del 16 ottobre cedette alle nostre insistenze. Alle ore diciotto di quello stesso giorno parlò in Palazzo Loggia, a braccio, lasciandosi condurre dall’onda dei ricordi personali, e la sua fu una splendida indimenticabile testimonianza sul tema che gli avevamo assegnato: “La giustizia internazionale, condizione di pace”.
I progetti di Simon Wiesenthal, architetto polacco sopravvissuto ai quattro anni e mezzo di lager trascorsi in dodici diversi campi, non potevano essere più quelli di un normale ritorno alla vita e alle attività del periodo anteriore all’immane tragedia di Auschwitz. Quell’uomo malato di tubercolosi, alto 1,80 e che pesava 44 chili, non poteva tornare nel suo Paese martirizzato e dedicarsi alla sua affascinante professione come se l’olocausto non ci fosse stato. “Mi guardai attorno – ha scritto Wiesenthal – e, vedendo tanti altri scheletri viventi, mi venne spontanea una domanda: ‘Si può dopo Auschwitz continuare la vita dal punto in cui è stato interrotta violentemente?’ Naturalmente no. Nel campo in cui mi trovavo era al lavoro la commissione che si occupava dei crimini di guerra. Contattai gli americani, sperando di poter realizzare il sogno nutrito quando ero nei lager. Forse allora ero un po’ naif. Ero infatti convinto che sarebbero bastati tre o quattro anni per punire i colpevoli e pensavo poi di tornare a svolgere il mio lavoro di architetto Non avrei mai immaginato che la mia sete di giustizia e l’attività che essa comportava mi avrebbero preso totalmente la vita”.
In quarant’anni di attività il “Centro di documentazione” sui crimini del nazismo contro l’umanità, di cui Wiesenthal è l’anima, ha consegnato alla giustizia circa millecento criminali; è stato quindi svolto un lavoro difficile e vasto, in ogni direzione. Ma il numero dei criminali arrestati è incomparabilmente piccolo rispetto a quanti si macchiarono di gravissimi delitti. Wiesenthal giustamente tiene a precisare che nei sistemi dittatoriali più rigorosamente organizzati – quale che sia l’ideologia – il crimine è d’obbligo. Di Stalin ormai sono gli stessi sovietici che ci rivelano, giorno dopo giorno, gli orrendi crimini: per il nazismo si trattò semplicemente di estendere agli altri popoli europei, ed in primo luogo agli ebrei, i metodi sperimentati, nei sei anni che precedettero lo scoppio della guerra, nei lager in cui erano internati coloro che rifiutavano la dittatura nazista o erano discriminati per ragioni razziali. Di più: le nuove forme di assassinio programmate dai nazisti avevano qualcosa di totalmente inedito rispetto ai tempi passati. Si trattava di stermini in massa, ma così erano ordinati agli esecutori per telefono o con un dispaccio, con un telegramma.
Wiesenthal ha confidato ai bresciani le due esperienze che cambiarono la sua vita e mi è caro ricordarle con le sue stesse parole. La prima è la seguente. Alcuni mesi dopo la guerra, quando ritrovai mia moglie, la prima sera che fummo insieme, ci mettemmo a fare un elenco delle persone care ancora in vita e ci accorgemmo che solo nelle nostre due famiglie ben ottantanove persone erano morte. Il giorno più brutto fu quando mia figlia, che allora aveva dieci anni, tornò da scuola (era l’unica bambina ebrea in quella scuola) e mi chiese: – Noi che gente siamo? Tutti i miei compagni hanno nonni, zii e cugini da andare a trovare a Natale. E noi non abbiamo nessuno? – Quella fu l’unica volta che piansi. Non avevo infatti il coraggio di spiegare a una bambina di dieci anni perché non aveva più nessuno. Volevo evitare che vedesse il mondo popolato da assassini. Telefonai allora a un amico di Vienna pregandolo di chiamare il giorno dopo, spacciandosi per suo cugino. E con questo imbroglio andammo avanti per quattro anni, inventando parenti tra gli amici sparsi in tutto il mondo.”
L’altra ‘confidenza’ di Wiesenthal è non meno toccante. “Nel 1947 – racconta Wiesenthal – mi dissero che in Carinzia c’era un castello trasformato in biblioteca di soli libri ebraici. Sapevo che in quei castelli i nazisti avevano nascosto quei testi perché avevano l’intenzione, una volta estirpata la razza ebraica, di farne un museo. Oltre ai libri avevano conservato moltissime fotografie e scheletri. Io e tre rabbini, in una fredda giornata di marzo del 1947, ci siamo recati al castello e ci siamo accorti che era effettivamente stracolmo di libri ebraici, dalla cantina al solaio. Ad un certo punto ho sentito un tonfo. Uno dei tre rabbini era svenuto. Appena si riprende, mi mostra un libro. Era il libro sacro della sua famiglia su cui la sorella aveva scritto: ‘Chi trova questo libro deve consegnarlo a mio fratello. Gli assassini sono già qui e circondano la nostra casa. È importante non dimenticare noi e i nostri assassini.’Quel giorno decisi che, finché avrò la forza fisica per farlo, andrò avanti per eseguire il testamento che ci è stato affidato da milioni di vittime innocenti.”
Giornale di Brescia, 22.11.1988. Articolo scritto per ricordare l’incontro di Simon Wiesenthal con i bresciani.