Si racconta che nei primi tempi di Roma l’educazione politica dei giovani delle classi alte si realizzava attraverso la piena immersione nella realtà operativa. I senatori conducevano i figli, anche piccoli, alle sedute del loro consesso. Il senato costituiva il centro politico di Roma: lì si decidevano le linee strategiche dello stato; lì i consoli e gli altri dirigenti, pur dotati di ampi poteri, riferivano delle loro azioni. Gli uditori potevano dunque conoscere la politica dal di dentro. Il sistema funzionò fino a quando i senatori non s’accorsero che le relazioni più o meno fedeli che i ragazzi facevano in privato creavano a volte turbolenze nella popolazione femminile. Infatti le madri, com’è naturale, sollecitavano dai loro figli notizie su ciò che avevano visto e sentito. Il senato prese allora la decisione di riservare ai suoi membri l’accesso alle sedute. Valerio Massimo invece, riferendosi probabilmente a un’epoca successiva, racconta che i giovani aspiranti alla vita politica accompagnavano i senatori amici o parenti fino alle porte del luogo di riunione del senato e lì rimanevano in attesa di riaccompagnarli a casa: questo, secondo lui, costituiva un allenamento al servizio pubblico. Anche i tribuni della plebe aspettavano sulla soglia e lì, subito, esaminavano le decisioni del senato. È verosimile che le attese non fossero vuote di scambi di idee. Il riaccompagnamento a casa dei senatori da parte dei giovani serviva a commentare le decisioni e confrontarle con le proposte illustrate all’andata, perché è certo che questo avveniva in occasione delle discussioni e dei processi giudiziari. Queste notizie, più o meno leggendarie, sono però significative di alcune tendenze dell’educazione politica durate a lungo presso i romani, anzitutto la rigorosa esclusione delle donne e delle masse popolari. Alle prime rimanevano due vie, che non fossero il puro e semplice contributo finanziario. Anzitutto la politica parallela, che si svolgeva nei salotti e nelle pressioni sui mariti. Poi le dimostrazioni di piazza. L’episodio più famoso si ebbe all’indomani della seconda guerra punica. Durante la guerra la legge Oppia aveva proibito alle matrone ogni ostentazione dei gioielli, sia per coerenza con l’atmosfera di austerità indotta dai gravi pericoli corsi allora da Roma, sia, forse, per costituire una riserva aurea da impiegare in caso di bisogno. All’abrogazione della legge, che sembrava naturale dopo la fine delle ostilità, si opponevano i conservatori, in testa il solito Catone. Questi, come riferisce Livio, tenne un discorso scandalizzato in senato contro l’inaudita iniziativa delle donne di scendere in piazza e bloccare le vie per far trionfare le loro pretese. Della stessa risorsa si valevano le masse popolari. Ma questa non era educazione politica in senso proprio. Si faceva piuttosto appello al senso civico, che avrebbe dovuto far sentire ogni cittadino corresponsabile della comunità di appartenenza. Era naturale però che con l’allargamento dei confini dello stato questa sensibilità, non sostenuta da adeguata formazione, tendesse a sfumare sempre più nel vago fino a diventare pura retorica nel senso peggiore del termine. Erano sempre le personalità attive politicamente a serbare, se mai, qualche traccia di questa convinzione. Ancora nel I sec. d.C. Plinio il Giovane avvertiva il dovere di assumere cariche pubbliche, anche onerose, pur sentendosi portato a un genere di vita privato. Egli era un settentrionale: il rispetto per i costumi tradizionali era più vivo nei cittadini delle province che nei romani di antica tradizione. Una via di formazione più sistematica e più aperta si ebbe con le scuole di retorica, le quali, impartendo un insegnamento collettivo, consentivano l’educazione di una più vasta platea di giovani. Il difetto di queste scuole era la mancanza di esperienza pratica (spesso non solo nella carriera politica, ma anche nei tribunali e nel foro) da parte degli insegnanti. Tuttavia il successo di alcune scuole era grande. Si pensi a quella di Epitteto, ex schiavo, confinato in Epiro: a lui accorrevano anche giovani destinati a far carriera, anche se non sempre rispettosi degli insegnamenti morali ricevuti. L’orientamento o scadimento generale verso forme troppo teoriche o di retorica fine a se stessa era forse inevitabile. Per altre vie si affermavano intanto uomini politici, che fondavano il loro potere sulla demagogia o sulla ricchezza o sui successi militari. Anche questa non era educazione politica, anche se non sempre dava frutti negativi: Cicerone celebra le doti di Pompeo, che aveva percorso sotto le armi tutto il suo iter formativo. Continuava però anche la prassi della guida di un personaggio illustre. Siccome lo strumento principe della partecipazione politica era la parola, la presenza nei processi e nel foro non era solo avviamento all’esercizio avvocatesco: la preparazione politica era indistinta tra eloquenza, diritto e altre cognizioni. Il padre di Cicerone aveva affidato il figlio a Muzio Scevola Augure, al quale il discepolo rimase legato fino alla morte del maestro; a sua volta Cicerone ricevette in affidamento Celio,Pansa e Irzio, Dolabella, nomi destinati a tornare nelle cronache del tempo. Ancora alla fine del I sec. d.C. Plinio il Giovane riconosce come suo maestro e guida Virginio Rufo, tre volte console, celebre per aver due volte rifiutato l’impero, che le sue truppe vittoriose gli offrivano. Al tempo i grandi comandi militari erano ancora affidati a politici illustri. Il servizio militare rappresentava del resto una fase obbligata dell’educazione politica: anche lì i giovani delle classi alte avevano un patrono di riferimento, lo stesso comandante. A sua volta Plinio si compiace di riuscire guida e modello a due giovani, che, come lui, coltivavano insieme la politica e la cultura disinteressata. Questo particolare è indicativo dei tempi nuovi, nei quali lo stato non è più il massimo valore e quindi l’educazione politica non è più centrale, anzi sarà presto accantonata. Entra in crisi anche il modello del referente unico o almeno dominante. Quintiliano si pone il problema della scelta, non tra scuola pubblica o privata (quasi tutte le scuole erano private), ma tra l’insegnamento collettivo o a singoli. Plinio stesso riconosce che anche sotto Traiano, il principe ottimo, gli spazi della partecipazione politica si sono ridotti e bisogna cercare altri valori. L’avvento di un principato illiberale metterà sotto tutela tutte le forme di educazione. Già Augusto aveva fondato i «collegi dei giovani», che riuscivano in fondo una scuola di educazione politica. Di essi facevano parte anche gli aspiranti al trono, designati come «principi della gioventù». Le città, che imitavano la capitale, avevano anch’esse collegi di questo genere, nei quali pare si esercitasse una sorta di autogoverno, forma tipica di educazione politica, e di partecipazione alle contese elettorali locali, ancora vive. Ma nel IV sec. queste organizzazioni erano diventate la scuola della burocrazia, destinate a formare solo funzionari.
Giornale di Brescia, 9.8.2005.