Il 6 ottobre del 1845 Renan lasciava il seminario di Saint-Sulpice. Abbandonava così la sua fede. Lo chiamava l’Università, che per lui era sinonimo della scienza e del suo trionfo. Non della verità, si badi, che egli non crederà più possibile conoscere, ma della scienza. Le lettere di quegli anni e le pagine dei suoi ricordi attestano che per lui quell’abbandono fu cosa grave e dolorosa. Renan abbandonava la sua fede, ma, sia pure solo per rinnegarla, non parlò e non scrisse d’altro. Si deve a lui, dirà un giorno Barrès, se l’intelligenza francese nel secondo Ottocento fece del cristianesimo il centro dei suoi dibattiti.
Esattamente un giorno dopo, il 7 ottobre 1845, John Henry Newman, leader del Movimento di Oxford e ispiratore del rinnovamento dottrinale, liturgico e ascetico della Chiesa anglicana, scriveva all’amico Henry Wilberforce: “Mio carissimo, padre Domenico, passionista, passa di qua per recarsi in Belgio. Verrà a Littlemore domani sera. Non sa nulla delle mie intenzioni. Gli domanderò di ricevermi nell’unico ovile del Redentore”. Il p. Domenico Barberi, passionista italiano, il 9 ottobre ricevette l’abiura di Newman e dei suoi discepoli, con la semplicità che un “caso serio” come quello richiedeva.
È singolare la coincidenza di queste due decisioni, prese per avviarsi lungo strade che avevano opposte direzioni, e non cessa ancora oggi di colpire chi si soffermi a riflettervi. Così, mentre Newman entrava nella Chiesa di Roma, Renan ne usciva. Al tramonto della loro giornata, con pari sincerità, ognuno dei due registrò l’esito della scelta operata. Renan termina con lo sconsolato: “A che pro?” i suoi ricordi e avverte l’insufficienza della sua risposta a quella domanda. Newman, sei anni prima di morire quasi novantenne – e ricordando quanto aveva detto in Sicilia, durante una malattia pericolosa: “Non ho mai peccato contro la 1uce” -, poteva scrivere di sé: “Sul declino di una lunga esistenza posso dire dal fondo del mio cuore che il Signore non mi ha mai abbandonato, né lasciato nell’illusione”.
Chi era Newman? Che cosa rappresenta per l’Europa questo figlio d’Inghilterra, così Inglese e per tanti versi così strettamente imparentato a quei grandi che si chiamano Pascal, Manzoni e, prima ancora, Agostino? In lui l’intelligenza sottile e sorprendente, il cuore generoso e la sensibilità acutissima, il rigore logico dell’argomentare e l’intuizione metafisica, l’implacabile humour con cui cancellava chi credeva di fare lo spiritoso su questioni serie e la delicata attenzione a ogni onesto interlocutore, la poesia e la ricerca storica, la teologia più esigente e il gusto della più ardita autenticazione del messaggio evangelico si fondevano in mirabile armonia. Tutto ciò costituiva un dono rarissimo, ma comportava pure alti prezzi da pagare. Uno spirito così ardito e delicato, così spiritualmente elevato e colto, è per forza di cose più contemporaneo dei migliori tra i posteri che non di coloro che con lui si confrontano in presa diretta. Il vero genio, infatti, è capace di far grandeggiare la tradizione – la verità che si è fatta strada nella storia – e di preparare come nessun altro una storia più alta.
A un secolo di distanza dalla morte di quel grande è giunto il tempo di lasciarci arricchire da lui, di appropriarci della straordinaria eredità che ci affida. Ed è proprio a noi, a me, a voi, a quanti vorranno scoprire in Newman uno dei più cari compagni di viaggio, che egli pensa quando scrive, in risposta ad una lettera, queste parole: “Occorre non perdere – nel procedere dei tempi – la simpatia verso coloro che sono stati i nostri primi padri, quali che siano il peso e le preoccupazioni del giorno che passa; noi a nostra volta volgiamo ora le nostre braccia con amore e riverenza verso coloro, nostri successori non ancora nati, che sulla terra non vedremo mai”.
Verso la fine di quello stesso memorabile 1845, un paio di mesi dopo la conversione, Newman pubblicò il suo capolavoro, Lo sviluppo della dottrina cristiana. A quel libro aveva lavorato per tutto il 1845, sì che la sua stesura fu per lui preludio e involontaria preparazione alla conversione al cattolicesimo. Newman stesso ha tracciato, con delicatezza e fermezza, l’itinerario del suo spirito nell’Apologia pro vita sua, ristampata da Jaca Book e Morcelliana unitamente a opere quali i Sermoni anglicani, i Sermoni cattolici e la Grammatica dell’assenso.
Newman era inglese fino al midollo e si gloriava di esserlo. Interrogato di qual Paese volesse essere se non fosse stato inglese, rispose: “Ecco, se non fossi inglese, vorrei esserlo”. E tuttavia l’esito delle sue ricerche storiche e argomentazioni teologiche lo spingeva a un porto, a un approdo che gli imponeva di superare grandi resistenze interiori: “Non posso dire – scrive ad un amico – se mi senta forzato da una cosa che mi sembra chiara, oppure da un sentimento di dovere di coscienza”. Dopo la sua conversione venne a Roma a prepararsi al… sacerdozio cattolico e lo fece con umiltà commovente. Si riconobbe nella spiritualità di san Filippo Neri e del suo Oratorio. Volle pertanto essere oratoriano e fondò a Maryvale, vicino a Birmingam, la prima comunità inglese dell’Oratorio, il 1° febbraio del 1848.
Ma la tradizione cattolica messa in valore da Newman e la sua ecclesiologia erano troppo radicate nella cultura biblica e nello studio della Patristica per essere accolte veramente dai cattolici del suo tempo. Le amarezze e le incomprensioni furono, pertanto, triste pane quotidiano per il Nostro. Leone XIII, però, volle onorarne l’intelligenza e la santità di vita elevandolo nel 1879 alla porpora cardinalizia. Né Leone XIII fu l’unico Papa ad avere la più grande stima di Newman. A Jean Guitton, illustre studioso di questo Padre della Chiesa universale, Pio XII ebbe a confidare un suo intimo voto: “Non tema, Newman sarà un giorno dottore della Chiesa” (Dialoghi con Paolo VI, Mondadori, p. 171).
Noi sentiamo che Newman è il genio religioso di cui abbiamo bisogno, soprattutto ora, dopo gli sviluppi del Concilio Vaticano II. Egli è colui che raggiunge l’equilibrio interiore conquistandolo giorno dopo giorno confessando le sue ore di angoscia e di esitazione: ed era troppo sincero per dare di sé un’immagine che non fosse autentica. Il vero dramma della sua vita, come quello di tutti gli esseri eccezionali, fu di soffrire le ferite che la ruggine delle istituzioni e la mediocrità degli uomini non mancano di infliggere. Newman fu filosofo, storico, teologo, poeta e incomparabile oratore perché fu anzitutto uomo spirituale, uomo di Dio, per il quale contava solo il dialogo con il suo Creatore. Il suo messaggio è e rimarrà attuale perché, alla maniera di sant’ Agostino, esprime la verità eterna sull’uomo e l’universalità del messaggio si radica in una profonda e personalissima esperienza interiore. “Newman – diceva Paolo VI a Guitton – è una personalità attraente, seducente, indimenticabile. È, come dire, autore autobiografico. Quando parla di sé, parla di noi. Egli giunge all’uomo totale, all’incontro della mente e del cuore». (Dialoghi…, cit. p. 170).
John Henry Newman morì il 1° agosto 1890, un secolo fa. Ma la sua memoria e le sue opere non l’hanno seguito nella tomba: l’attualità del suo messaggio e della sua testimonianza non è venuta meno. Nell’immenso sforzo di rinnovamento che il cristianesimo persegue da tre o quattro decenni, non c’è un solo campo che non trovi in Newman un precursore e una guida.
Giornale di Brescia, 30.3.1990. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Giacomo Bonifacio Baroffio su “Verità e storia in J.H. Newman”.