“I cristiani si credeva che fossero scomparsi in Cina, o che si fossero tutti convertiti, con le buone o con le cattive, alla nuova religione trionfante del comunismo. Invece non era vero. Me ne sono resa conto quando a Pechino, la settimana dopo i fatti di sangue di Tienanmen del 1989, sono andata in chiesa. Quei fedeli cinesi che cantavano inni sacri in latino erano gli unici esseri umani che in quella città devastata dalla violenza riuscivano ad esprimere una speranza”.
Così Renata Pisu, inviata speciale del quotidiano La Repubblica. Ebbene, ora abbiamo una testimonianza diretta, di prima mano, sul coraggio di essere cristiani in Cina: l’autobiografia di Wang Xiaoling, L’allodola e il drago, tradotta in italiano dall’editore Piemme.
Leggere questo libro è a mio avviso necessario perché l’Occidente, fatta eccezione per i giorni che seguirono immediatamente il massacro di piazza Tienanmen, tace ancora sull’universo concentrazionario cinese e la sinistra ama non parlarne; non vuol più saperne di che cosa sia stato il maoismo, così a lungo mitizzato, e di che cosa sia il comunismo dei suoi successori.
“Qui da noi in Occidente – continua la giornalista di La Repubblica – per anni si sono dette e raccontate bugie sulla Cina. Ma forse, e questo è peggio, molti sapevano che erano bugie e consideravano addirittura di doverle dire a fin di bene”.
Ancora oggi in Cina milioni di persone sono rinchiuse nei campi di lavoro e vivono in condizioni disperate, simili a quelle descritte da Xiaoling; l’umanità, però, non può più continuare a passar sotto silenzio tali sofferenze, né rassegnarsi a una loro presunta inevitabilità.
Se così facesse, sparirebbe la distinzione fra perseguitati e aguzzini, fra bene e male. In nome di una presunta “comprensione”, che tutto giustifica e tutto livella, si produrrebbe solo indifferenza e cinismo.
Sì, cinismo, come quello pubblicamente esibito dal capo di governo di un Paese europeo che, alla notizia della strage di settemila giovani a piazza Tienanmen, ebbe a dichiarare: “Settemila vittime è certo un numero che fa impressione, ma è molto, molto piccolo per un Paese di un miliardo di abitanti”. E quel capo di governo si professa cristiano.
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“Quando attraversai il ponte di Lowu, che divide la Cina da Hong Kong, e lascia alle spalle le guardie comuniste, ero così tesa che non riuscivo a pensare ad altro. Nel profondo del mio cuore non facevo che esclamare: Grazie, grazie, Signore!”. È l’inizio semplicissimo e intenso dell’autobiografia di Xiaoling.
L’autrice ora ha cinquantasette anni e vive fuori dalla Cina dal 1979. È nata a Shanghai nel 1936 da genitori non cattolici. La sua infanzia fu serena, malgrado la straordinaria durezza dei tempi. Erano quelli gli anni della guerra e dell’invasione nipponica, della lotta di resistenza e poi dell’avvento del comunismo. L’adolescente Xiaoling è anch’essa presente, dopo il 1949, a cortei, fiaccolate e danze della gioventù comunista e nello stesso tempo fa parte del gruppo dei catecumeni all’interno di una scuola gestita da missionari. Ma ben presto la realtà dei quotidiani soprusi e dei trattamenti crudeli che il nuovo regime infliggeva ora all’una ora all’altra categoria di cittadini suscitarono inquietudine nel suo cuore, benché la speranza di un domani pacifico e fraterno non volesse morire. Nel frattempo i missionari furono tutti allontanati e sostituiti da preti cinesi sotto il controllo del partito, le scuole cattoliche furono nazionalizzate e nei loro programmi di studio divenne obbligatoria la trattazione sistematica di tesi quali “dalla scimmia all’uomo” e “la religione oppio dei popoli”.
In realtà, prima del 1953 la diocesi di Shanghai sperava ancora che i cattolici potessero vivere in pace conciliando la fedeltà a Dio e l’amore per il proprio Paese. Invece il governo comunista faceva continuamente il doppio gioco: da una parte proclamava a gran voce la libertà di religione, dall’altra, col pretesto del patriottismo, qualificava come patriottica la stessa persecuzione antireligiosa.
Fu imposto a tutti i cattolici di recidere ogni legame con la Chiesa di Roma, sicché gli stessi cattolici si divisero profondamente. Si aprì allora il lungo glorioso capitolo del martirologio della Chiesa cattolica cinese. I maestri di vita spirituale ed i capi della Chiesa furono condannati a pene durissime. Ricordiamo, per tutti, P. Francesco Saverio Zgu Shude, arrestato nel ’53 e morto in carcere nell’83, dopo trent’anni di detenzione.
Poi giunse l’ora della prova per la massa dei semplici fedeli. L’8 settembre 1955 toccò alla catechista Wang Xiaoling. Aveva diciannove anni quando l’arrestarono; sarebbe rimasta vent’anni nelle carceri, nei famigerati campi di “rieducazione mediante il lavoro”, nelle massacranti “sessioni di studio” per il lavaggio del cervello istituite dalla Repubblica Popolare.
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La narrazione della lunga, tenacissima resistenza è intessuta di mille episodi, non meno significativi di quelli che hanno reso celebre Una giornata di Ivan Denisovic di Solzenicyn. Niente discorsi astratti, né recriminazioni o autodifese, ma solo ricordi, precisi fin nei minuti particolari.
Ecco qualche esempio.
“Per un anno ho condiviso con altre tre donne la cella. Era malsana e buia. Misurava un metro e mezzo per due”.
Oppure: “Dopo sei mesi di isolamento mi fu dato il permesso di ricevere la visita di mia sorella e di scriverle una lettera che tassativamente non doveva superare le cento parole. Io allora usai il cinese classico, una forma di linguaggio più breve, per dire il più possibile in cento ideogrammi”.
E ancora: “Non c’era praticamente possibilità di essere pulite; al massimo ci si poteva preoccupare che la persona che dormiva vicino a noi si fosse liberata dai pidocchi”.
Quando il 4 marzo 1960 Xiaoling fu trasferita con altre detenute su un autocarro in un’altra provincia, l’automezzo passò proprio dinanzi alla sua casa. Quali pensieri suscitò quella visione nel cuore di quella giovane? Ecco le sue parole, sobrie e decise: “Non potei fare a meno di ricordarmi come durante l’anno precedente mia sorella si era esposta ai più gravi pericoli per venirmi a trovare e come eravamo profondamente vicine a dispetto dell’immensa lontananza. Pensai pure con profonda gratitudine ai miei genitori, grandi lavoratori e sempre amanti del Signore, e allora ancora una volta rinnovai l’offerta di me stessa: per Cristo non tornerò mai indietro, non tornerò mai indietro!”.
Non è bene togliere al lettore la gioia di scoprire da solo le finezze con cui l’“allodola” Wang racconta la sua straordinaria avventura; mi sia permesso, però, chiudere ancora con un paio di citazioni. Al campo di lavoro Wang intravede una sua conoscente, Xiaolang, incarcerata anch’essa a motivo della sua appartenenza alla Chiesa cattolica. Ecco come è registrato l’evento: “Quando i nostri occhi si incontrarono, scambiammo in quell’istante i nostri pensieri e i nostri sentimenti e fummo “uniti nella nostra Lunga Marcia”. Ed è all’amica di prigionia che Wang Xiaoling confida il suo sogno: “In questa notte scura e apparentemente senza fine, penso sempre che verrà un giorno, non importa quanto lontano, in cui scriverò un resoconto della persecuzione subita dalla nostra Chiesa in questi anni”.
Quel voto è stato adempiuto con il libro L’allodola e il drago.
Giornale di Brescia, 20.10.1993. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Wang Xiaoling.