La finanza pubblica, il bilancio sono l’espressione dello stato della politica di un Paese. I meccanismi della politica sono essenziali, al di là della procedura di bilancio, per ottenere i risultati di una finanza sostenibile nel tempo, che non dia luogo a situazioni che richiedono continui aggiustamenti.
C’è la tendenza, che va sotto il nome di “economia della politica economica”, a cercare di capire quali sono gli elementi nei comportamenti dei soggetti del mercato politico che determinano situazioni di finanza pubblica difficile. Sachs, noto per le sue assistenze ai Paesi dell’Est Europa, ha fatto delle indagini ed ha trovato che governi deboli (cioè governi che hanno un sistema elettorale proporzionale, un sistema di coalizioni con più di due partiti e che durano meno di due o tre anni) hanno una propensione a risolvere i problemi del contenzioso politico, della difficile conquista del consenso attraverso situazioni temporanee di soddisfazione degli interessi dei gruppi, degli elettori non sostenute da entrate fiscali.
E’ stato fatto un tentativo di verifica econometrica e risulta che effettivamente il modello sostiene il test di significatività statistica; sono i governi deboli che hanno avuto delle difficoltà di finanza pubblica, dove i deficit sono saliti al di sopra di certi livelli.
Da questo punto di vista credo che il problema essenziale della riforma finanziaria sia la riforma delle istituzioni politiche e del sistema elettorale.
Naturalmente il sistema elettorale non può essere visto nel vuoto. Noi abbiamo avuto un sistema uninominale a doppio turno fino al ’19 e questo ha coinciso con periodi di gravi difficoltà della finanza pubblica, ma certamente negli anni recenti questo collegamento fra sistema proporzionale e situazioni di difficoltà della finanza pubblica, si è largamente verificato.
Quindi è necessario avere un sistema politico che abbia un orizzonte temporale: ogni politica di risanamento è impopolare, all’inizio crea una situazione di difficoltà, di disoccupazione e di fallimenti industriali. La domanda pubblica, sia pure come droga temporanea, sostiene allora una serie di attività. Nel momento in cui questa viene soppressa vi sono delle conseguenze.
Gli effetti positivi maturano nel tempo, e quindi perché un governo decida sul serio di intraprendere un’azione di risanamento ha bisogno di avere un ciclo politico che coincida con quello della stabilizzazione. Superati i primi due-tre anni negativi del programma, si verificano gli effetti positivi della riduzione dei rischi economici connessi ad una economia sostenuta da una spesa pubblica il cui finanziamento avviene in deficit, con un accumulo progressivo di debito pubblico.
Sembra quindi abbastanza ovvio che esista una correlazione tra il modo di funzionare del sistema politico e la sua controfaccia che viene letta nei bilanci dello Stato.
Va aggiunto, in una breve analisi di storia finanziaria, che l’Italia ha avuto come sua caratteristica la mancanza di grandi partiti storici, due grandi poli tipici dello sviluppo costituzionale inglese. Ha sempre avuto un sistema politico piuttosto complesso, confuso, privo di forti maggioranze. Il bilancio che Quintino Sella si trovò a dover risanare presentava un rapporto tra debito e Pil dell’ordine del 90-100%.
Egli lo portò al 70% nel periodo di quattro-cinque anni. Tuttavia si verificò proprio allora (nel 1876) l’unico momento in cui una maggioranza venne sconfitta in elezioni politiche, l’unico cambio di maggioranza avvenuto nel nostro Paese. Questo ha in qualche modo reso diffidenti i politici italiani di fronte al rischio di impegnarsi troppo in un programma di stabilizzazione finanziaria.
I successi ottenuti da Quintino Sella, coincidenti con la caduta della Destra Storica, hanno indotto i politici italiani ad essere cinici di fronte ai problemi del risanamento finanziario.
Un altro programma di risanamento si è avuto durante il fascismo. E’ stato relativamente facile perché ha comportato soprattutto sacrifici delle banche e dei governi inglese e americano per crediti di guerra.
Il terzo programma è scaturito dalla grande inflazione che ha eliminato il debito pubblico all’inizio della nostra esperienza repubblicana. Davanti ad una politica forte il sistema del centrismo, caratterizzato da un grande partito e da una costellazione di partiti intellettualmente e politicamente omogenei, ha avuto un periodo di stabilità durato fino agli anni Sessanta. Abbiamo visto il debito pubblico rimanere a bassi livelli (il 30% rispetto al Pil fino ai primi anni Settanta). In seguito è rapidamente cresciuto perché è intervenuta una concorrenza tra le forze politiche interne al sistema; inoltre è mutata la situazione dei tassi d’interesse rispetto ai tassi di crescita non solo in Italia ma in tutto il mondo. La liberalizzazione, l’eliminazione delle regolamentazioni e delle segmentazioni del mercato ha determinato in tutto il mondo tassi d’interesse che si collocano a livelli superiori di uno o due punti rispetto ai tassi di crescita.
E questo cosa significa?
Immaginiamo, per semplificare le cose, una situazione in cui il debito pubblico sia eguale al 100% del Pil; se il reddito cresce del 6% e il tasso d’interesse cresce dell’8-9%, allora anche senza una finanziaria in deficit la quota del debito sul prodotto interno lordo cresce di due punti, della differenza cioè, fra il tasso d’interesse e il tasso di crescita.
Negli anni Cinquanta e Sessanta il tasso di crescita reale era del 5-6%, mentre i tassi d’interesse reali erano del 2-3%. Tale situazione vedeva sì un Governo politico più forte, ma contemporaneamente anche un quadro delle variabili esterne alla finanza pubblica che favoriva la possibilità di contenere gli effetti dell’indebitamento.
Credo che non torneranno più i tempi in cui gli Stati potranno finanziarsi a tassi d’interesse inferiori al tasso di crescita.
Il tasso d’interesse oggi, a differenza del passato, tende ad operare su mercati non più segmentati; e per questo ritengo che non ci sia da sperare nei prossimi trenta-quaranta anni, tenuto conto della domanda di capitali per l’equipaggiamento del mondo proveniente dal Terzo Mondo e dai Paesi ex socialisti.
Ritengo che nella prossima generazione, almeno, continueremo ad avere tassi d’interesse superiori ai tassi di crescita dell’economia, ed è questa una ragione in più per preoccuparci della situazione dei nostri conti perché non si tratta di un periodo transitorio come avevamo forse pensato quindici o venti anni fa. Sono cambiate le condizioni strutturali dei mercati finanziari e si deve convivere con tassi d’interesse relativamente alti, anche se rispetto all’esperienza dell’Ottocento – non sono particolarmente elevati.
Prima di parlare dell’articolo 81, credo che convenga fare riferimento agli impegni internazionali del Paese. In fondo la legislazione europea, e quindi anche l’accordo di Maastricht, comportano degli impegni con una fonte del diritto superiore a quella interna.
Tali impegni vincolano soprattutto i governi, sono un accordo tra gli stessi, tra cui il nostro. E ciò mi suggerisce che è necessaria la ricostruzione dell’unità di comando della finanza pubblica.
Io tenderei a considerare opportuna una norma costituzionale sulla inemendabilità parlamentare del bilancio. Lo scarico di responsabilità tra la Presidenza della Repubblica, il Parlamento e il Governo dimostra che una responsabilità divisa, una mezzadria di responsabilità in materia di politica di bilancio costituisce un grave rischio.
Sono convinto che, nel complesso, le modifiche parlamentari siano state sempre piuttosto modeste e che sostanzialmente il Governo abbia sempre mantenuto negli ultimi quindici anni, che conosco per esperienza parlamentare, il controllo del bilancio. Allo stesso tempo però, lo spettro della discussione parlamentare rende il Consiglio dei ministri più fragile rispetto alle tendenze delle burocrazie, degli interessi, dei partiti.
E proprio questa esperienza mi suggerisce quanto sia opportuno stabilire il principio della inemendabilità del bilancio.
Se la capacità di esprimere interessi, di valutare le situazioni, quella sapienza che in un Parlamento c’è sempre, si manifestasse durante la discussione del bilancio, il Governo potrebbe far propri gli emendamenti suggeriti dalla maggioranza o dall’opposizione, ma senza la possibilità di scaricare sul Parlamento le responsabilità.
Un altro problema è costituito dalla necessità di stabilire all’interno del governo un centro di responsabilità unico.
Per ragioni di equilibrio tra le forze politiche in Italia vi sono tre ministri finanziari, a differenza degli Stati Uniti, della Francia, Germania e dell’Inghilterra (solo in Grecia abbiamo quattro ministri finanziari). Ma egualmente risulta impossibile scindere le entrate dalle spese. E’ quindi necessario tornare alla tradizione propria dello Stato unitario italiano, quando vi era l’unità dei ministeri delle Finanze e del Tesoro.
Posso raccontarvi alcuni episodi significativi. I miei funzionari mi riferiscono che le entrate non sono in linea con le previsioni, poi, sentendo i funzionari delle Finanze, mi accorgo che i funzionari del Tesoro non avevano versato al bilancio gli oneri dei dipendenti pubblici. Per un imprenditore questo significa penalità, per lo Stato invece non c’è un limite di tempo.
Vi è dunque un contenzioso ministeriale che credo sia una delle fonti di poca chiarezza, forse anche di poca volontà. Da ciò la necessità di una norma che stabilisca il principio secondo cui, senza il cosiddetto “bollino della ragioneria” nessuna decisione può essere votata al Consiglio dei ministri, come avviene in Germania.
In Italia, infatti, si verifica che, in mancanza del visto degli organi del ministero del Tesoro, qualche provvedimento venga portato avanti con la minaccia di una votazione a maggioranza. In tal caso chi ha l’autorità trova difficile metterla a rischio di fronte ad una decisione collegiale e quindi cede alle richieste volte a rompere le regole.
Pertanto, credo che nessuna questione in materia di finanza pubblica debba essere discussa senza l’autorizzazione preventiva del ministro del Tesoro.
Questo mi pare importante per determinare un centro di imputazione delle responsabilità, in modo da impedire quel “balletto” di irresponsabilità collettiva a cui oggi si assiste.
Introduciamo ora i problemi della riforma della Costituzione e della modifica dell’art. 81, per la quale sono impegnato da anni.
L’interesse della proposta di Martinazzoli sta nel fatto che essa non riguarda le decisioni a margine, cioè la nuova legislazione di spesa, ma impone un formato nella presentazione del bilancio. In altri termini oggi, il bilancio consolidato, pur mantenendo invariata la legislazione, può dare 200.000 miliardi di deficit, senza che ciò costituisca argomento giuridico di interesse del Parlamento.
La proposta di Martinazzoli impone, invece, che il bilancio possa essere presentato dal Governo solo a condizione che il totale delle spese correnti sia coperto dalle entrate.
E’ stato chiesto: perché usiamo questa categoria delle spese in conto capitale?
Sono perfettamente d’accordo che le spese essenziali della Repubblica sono quelle correnti. Un tale modo di procedere è un residuo del Centro Sinistra, di quel gusto deteriore di fare opere pubbliche che hanno complicato la vita della finanza pubblica. Ma c’è un fatto: le spese d’investimento possono essere sospese, mentre gran parte delle spese correnti no, essendo consolidate; per questo si giustifica un diverso statuto delle spese in conto capitale rispetto a quelle correnti.
Inoltre credo che con le burocrazie sia meglio attenersi ai concetti consolidati, anche se sbagliati. La legge Curti, che ha introdotto delle classificazioni tratte dalla contabilità nazionale, è un esempio di come un problema linguistico crei dei pericoli. L’effetto è stato che quella pudicizia contabile che caratterizzava la storia della contabilità pubblica in Italia è venuta meno, assecondando l’idea che il bilancio non sia un problema di equilibrio tra entrate e spese, ma sia un problema globale di reddito nazionale. E’ stata sufficiente quella prima rottura fatta da un vecchio deputato fanfaniano, che ha introdotto il modernismo delle classificazioni, perché con essa si insinuasse negli anni Sessanta l’idea che il problema non fosse quello di bilanciare i conti, ma la piena occupazione e perciò il livello di reddito nazionale.
Conviene perciò attenersi a ciò che costituisce un elemento consolidato, a ciò che è scritto nella legge di finanza regionale e nella legge di finanza comunale. Dato che la nostra classe politica è composta in gran parte da ex consiglieri comunali e regionali, è bene che anche il bilancio dello Stato rispetti questi criteri di copertura delle spese.
Se però vogliamo creare un sistema di vincolo costituzionale che abbia almeno un rapporto con i nostri impegni verso la comunità, probabilmente dobbiamo stabilire qualcosa di più.
E’ difficile stabilire questo principio nella Costituzione perché esiste un’eleganza filologica che non si deve mai tradire; mi limiterei a dire che, per quanto riguarda le spese di finanziamento, si provvederà ad indicare quali sono i mezzi per farvi fronte in una legge di contabilità, approvata a maggioranza qualificata del 50% dei membri di ciascuna Camera, e resa ancora più forte nella sua cogenza da un esplicito richiamo nei regolamenti parlamentari. E’ questo collegamento tra una legge ed il richiamo nel regolamento parlamentare a rendere le norme più rilevanti rispetto alla legislazione ordinaria.
Inoltre immaginerei di suggerire che le spese in conto capitale debbano essere ammortizzate non in termini degli attuali ammortamenti calcolati dall’ ISTAT, ma in riferimento ad un periodo tra i venti e i trent’anni. Facendo delle simulazioni, mantenendo all’incirca i dati del bilancio attuali e immaginando di avere un deficit attorno al 3 – 3,5% del Pil, abbiamo che il rapporto debito/Pil attorno al 2010 o al 2020, a seconda dei giochi di simulazione che si fanno, scende al 50%.
E’ chiaro che noi, di fronte alle regole di Maastricht, possiamo rispettare quella sui flussi (dell’indebitamento rispetto al Pil), ma non possiamo immaginare di ridurre in quattro o cinque anni lo stock del debito al 60% del valore. Di fronte ad un periodo più lungo, dopo avere trasformato le nostre regole interne di formazione del bilancio, ci potremo adeguare in mezza generazione, ai livelli del debito rispetto al Pil prevalenti oggi nella media dei Paesi europei.
In definitiva se immaginiamo di avere l’ammortamento in venti anni di tutte le spese in conto capitale, otteniamo che il saldo corrente diventa positivo.
Per quanto concerne Maastricht, non so se abbia fatto bene questo Governo a firmare. E’ una trappola, anche se ha ricevuto benefici di immagine. Nei prossimi quindici o diciotto mesi, se il Governo italiano non prenderà le iniziative eroiche necessarie per stare dentro queste condizioni, si troverà di fronte a seri problemi.
Se il Governo non riuscisse a stringere i tempi ci troveremmo a dover svalutare la nostra moneta e potremmo trovarci nelle condizioni del governo svedese, portando al 20% i tassi delle operazioni della Banca d’Italia, e quindi al 22% o 24% i tassi per le imprese. Mi sono trovato ad aumentare del 5% nel giro di due o tre mesi il tasso di sconto. Adesso toccherebbe al governatore della Banca d’Italia che penso avrebbe ancora minori esitazioni di qualunque ministro del Tesoro eletto.
Da questo punto di vista, Maastricht è una scommessa pericolosa, è una scommessa sulle operazioni eroiche che ci siamo impegnati a fare.
E’ vero che, rispetto alla neghittosità della politica di bilancio del periodo Craxi-Visentini, l’ultima legislatura ha portato ad azzerare il deficit primario, ma vorrei ricordare solo che una delle operazioni non trascurabili per ottenere questo risultato è consistita nell’introduzione di un’imposta sostitutiva sugli interessi che, aumentando il gettito, riduce il deficit primario. In questo modo, però, paghiamo tassi d’interesse maggiori che non sono computati nel deficit primario. Dei tre punti e mezzo di eroismo di questa legislatura, almeno un punto è dovuto a questa operazione.
Inoltre abbiamo accumulato dei crediti d’imposta come non avevamo sei anni fa. Vi sono in definitiva due o tre meccanismi che di fatto hanno facilitato l’operazione.
Cosa ci rimane da fare con Maastricht: abbiamo da ridurre il rapporto disavanzo/Pil da dieci punti e mezzo a tre e mezzo.
Sono cioè sette punti. Ma nella migliore delle ipotesi, se faremo una feroce politica dei redditi, potremo guadagnare due punti e mezzo dai tassi d’interesse. Dobbiamo allora riuscire, nei prossimi quattro anni, a trasformare 1/10 del debito pubblico in alienazioni della proprietà bancaria, assicurativa, industriale, immobiliare dello Stato, risparmiando un altro punto di interessi, arrivando a tre e mezzo.
Rimangono tre punti e mezzo di Pil. Ma noi abbiamo fatto molti anticipi di imposte, le cosiddette imposte “una tantum”, per almeno un altro punto e mezzo. Quindi le operazioni che restano da fare sono di cinque punti di Pil, a parte quelle sui tassi d’interesse e sulle privatizzazioni.
Tutto ciò comporta delle atroci operazioni dal punto di vista della popolarità, perché occorre entrare nel vivo della spesa, di tutti i tipi di spesa, nessuno escluso, per ottenere questo risultato.
Sarebbe allora opportuno che anche il Presidente della Repubblica si dotasse di uno staff, in modo da allargare il gioco dei controlli tecnici e interloquire sulla decisione di bilancio.
Bisognerebbe trovare una formula che imponesse che tutte le nuove spese d’investimento fossero coperte al 100%, lasciando variare la formula dell’ammortamento a seconda della necessità. Se quindi vi è un periodo di bassa congiuntura, invece di fare un ammortamento al 100% , lo potrei fare del 10% o 5%. Ma manterrei il vincolo di copertura al 100% delle spese d’investimento. Se si deve quindi costruire il ponte che attraversa lo Stretto di Messina, bisogna che non solo gli interessi del ponte sullo stretto debbano essere coperti, ma anche il capitale. E questo mi pare un criterio irrinunciabile di fronte a ministri che diventano sempre più bravi ed efficienti nella loro capacità di realizzare grandi progetti, per l’esigenza di lasciare dei segni; in genere questi ultimi sono rilevanti e si misurano tra i 5.000 e i 10.000 miliardi per volta.
Abbiamo fatto bene nel passato a stabilire di rovesciare la sequenza, che va dalle funzioni alla spesa al finanziamento. Si decide la funzione di un ente locale, poi si misura qual è la spesa corrispondente a questa funzione e infine si calcola il finanziamento.
Il finanziamento dei Comuni limitato sul lato dei mezzi trasferiti dallo Stato è stata un’operazione corretta: mentre esisteva una tradizione burocratica che cercava di limitare le funzioni dei Comuni, oggi tutto è basato sulla quantità di mezzi che si mettono a disposizione.
In questo momento è difficile ritardare una riforma di regionalizzazione dell’amministrazione pubblica, anche se vi è il rischio molto elevato che ciò comporti delle gravi pressioni di maggiore spesa.
Penso che si dovrebbe immaginare una riforma regionale rovesciando quella sequenza e iniziando dai finanziamenti. Del resto l’insostenibilità di consumi sciatti pubblici è sentita soprattutto dove sono elevati i consumi privati, per cui c’è una domanda a struttura variabile di regionalizzazione in questo Paese.
Si potrebbe allora considerare l’ipotesi che le Regioni tengano una percentuale delle imposte raccolte sul territorio in termini di finanziamenti. Anzi, visto che le Regioni sono più efficienti, si dovrebbe assegnare loro il 90% delle risorse che lo Stato impiegherebbe per svolgere la stessa funzione.
La conseguenza di questo tipo di regionalismo è che, soprattutto là dove la domanda di decentramento è elevata, cioè nelle Regioni del nord dove vi è un forte squilibrio fra consumi pubblici e privati, ci sarebbe un maggiore trasferimento di funzioni, mentre vi sarebbero meno trasferimenti in altre Regioni in cui l’amministrazione centrale è ancora in grado di soddisfare meglio certi bisogni pubblici rispetto alle amministrazioni regionali.
Al contrario, una riforma regionale realizzata attraverso il mero trasferimento di funzioni rischia di comportare un enorme costo e quindi dev’essere dilazionata fino a quando, attorno alla prima decade del prossimo secolo, la situazione della finanza pubblica si troverà ad essere restaurata.
Se vogliamo realizzarla in tempi brevi l’unica soluzione è quella di una riforma che permetta di fare coincidere il controllo della finanza pubblica con un decentramento a livelli vicini alla domanda, conformando la produzione dei servizi pubblici allo stile amministrativo di ciascuna Regione d’Italia.
Naturalmente tutto ciò richiede rispetto della filosofia dell’uguaglianza. A riguardo, ricordo che sia la “Pantera” sia il Presidente Saia della Corte Costituzionale fecero nello stesso giorno due conferenze stampa: la “Pantera” a Palermo, Saia in un bell’albergo di Roma, dichiarando la stessa cosa, che il principio d’uguaglianza era la cosa fondamentale, gli uni per sacrificare l’autonomia universitaria, l’altro per giustificare le scorrerie della Corte Costituzionale nella finanza pubblica.
A questo proposito ritengo che bisognerebbe affermare costituzionalmente il principio secondo cui la Corte Costituzionale non può, con una sua sentenza, impegnare direttamente il bilancio dello Stato. Ad essa deve rimanere il compito di dichiarare una situazione di ineguaglianza, lasciando al legislatore la decisione di sanarla o meno, rispettando ovvero sacrificando i diritti quesiti.
Abbiamo detto molte cose sull’art. 81. Abbiamo detto che una buona politica è essenziale e che per una buona politica è necessario che sia chi comanda, sia in Parlamento sia nel Governo. O meglio: vi sia un Governo in Parlamento che comandi nel Paese. Questo è l’elemento essenziale, ma non toglie che il contesto sia importante per dare continuità ad uno sforzo, perché anche i nostri nipoti si ricordino quanto abbiamo maltrattato la finanza pubblica in questa generazione ed evitino di ripetere i nostri errori. Una modifica dell’art. 81 non è uno strumento forse per il risanamento, ma ha un significato: rimanga una pietra sulle nostre vergogne degli ultimi venti anni.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.2.1992 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.