Quest’anno la storia ha subito un’accelerazione eccezionale, e per il verso giusto. La crisi gravissima dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est e la difficile ma necessaria marcia di avvicinamento dell’Urss all’Europa, come modello di società civile e tipo di organizzazione produttiva, sono strettamente congiunte a tal punto che da quella crisi non si esce se non riscoprendo il proprio destino europeo. L’Europa dell’Est è sempre più europea e le dittature comuniste appaiono sempre meno capaci di sopravvivere a se stessi. Il fenomeno è di una dimensione vasta e di una profondità che supera anche le più ottimistiche speranze sulla tenuta di fondo, presso quei popoli, delle grandi idee che hanno caratterizzato, in misura diversa, la storia, la cultura, la vita morale e la fede religiosa – che è e non può non essere quella del Cristo dei Vangeli – di tutti i Paesi europei.
Le ideologie, dunque, passano, ma i valori basilari di una civiltà tornano con vigore ad aprirsi un varco nella coscienza dei popoli e sono essi a costituire la prospettiva in cui si situano le più ardenti attese di quella che fino a poco tempo fa chiamavano l’altra Europa: espressione del tutto impropria, che il sociologo cecoslovacco Vaclav Belohradsky, da anni in esilio, trova addirittura offensiva.
Per preparare un futuro nuovo, una «casa comune» per tutti gli europei, occorrono molte cose, dev’essere compiuto un cammino ancora lungo e certamente doloroso per quanti sperimentano l’inefficienza e l’insopportabilità delle dittature marxiste; e tuttavia l’unità non si costruisce solo sugli accordi economici e politici. Il nostro continente a Est e a Ovest ha urgente, assoluto bisogno di riappropriarsi in modo esplicito del comune fondamento culturale e della comune eredità spirituale, anche se l’uno e l’altra si esprimono in modalità e tradizioni molto diverse, fortemente caratterizzate dal «genio» dei popoli, da ciò che il grande Tacito chiamava la loro imago vitae.
Consapevole dell’importanza decisiva di un tale compito, il Centro studi e ricerca sull’identità culturale europea, ha per così dire convocato a Bergamo filosofi e storici di altissimo livello, scrittori, diplomatici, critici letterari per mettere all’ordine del giorno, attraverso analisi significative e diversificate, un problema che deve diventare centrale nella nostra riflessione: «La cultura russa e la tradizione europea occidentale». In tre giorni saranno affrontati ben diciotto argomenti, affidati a otto relatori russi (Nina Kaucisvili, Igor Vinogradov, gli storici Michail Heller e Alexander Nekric, Vadim Borisov, Irina Alberti, Nikita Struve, Andrej Sinjavskij), a sei italiani (Vittorio Strada, Alberto Krali, l’appasionato animatore del Centro studi e ricerca sull’identità culturale europea, Emanuele Severino, Sergio Romano, Elémire Zolla, Adriano Dell’Asta), a due francesi (Edgar Morin e Olivier Clément), a un tedesco (il notissimo Ernst Nolte) e a un polacco (Andrzej Drawicz, studioso della letteratura russa contemporanea).
I lavori sono stati aperti dal maggiore studioso italiano della cultura russa, Vittorio Strada, che dirige la rivista «Dossija/Russia» ed è ordinario di Lingua e letteratura russa all’Università di Venezia. Per l’autore di Urss-Russia (Rizzoli) e delle Veglie della ragione (Einaudi) la Russia è tra le nazioni moderne quella che ha subìto le più profonde trasformazioni, tali da metterne in questione l’identità. La frattura tra la Russia moscovita e la nuova Russia europea, dopo un dibattito di due secoli, sembrava ormai risolto all’inizio del secolo XX, quando un’altra ben più profonda veniva a stabilirsi nel 1917. La metamorfosi della Russia nell’Urss, la più complessa ed enigmatica di tutta la sua storia, fu vissuta dai suoi attori e accolta nel mondo da sostenitori e avversari come epicentro di un sovvertimento di proporzioni mondiali. L’Urss di Lenin volle fare della drastica cesura con il passato un punto di forza per accreditare un regime ideocratico che cancellava la società reale per riplasmarla secondo il disegno del Partito-Stato.
Il fatto davvero nuovo è che di fronte alla Russia sovietizzata l’auto-coscienza dell’Europa è entrata in uno stato di profonda crisi. Per la prima volta, una parte di tale autocoscienza, quella legata alle masse popolari e al socialismo marxista, si è dimostrata incapace di una differenziazione critica e, anziché dimostrare verso la rivoluzione russa una solidarietà che non costasse l’autonomia, si è identificata totalmente con la Russia-Urss, stabilendo con essa un rapporto che, naturalmente, fu un vergognoso atto di subalternità e un tradimento verso quei popoli su cui si abbatteva la nuova autocrazia totalitaria.
Ora, grazie anche al risveglio della società russa e alla crisi del comunismo, sia pure con molto ritardo l’Europa comincia a riscoprire la Russia, la vera Russia. Quella Russia da cui noi occidentali abbiamo da imparare e non poco: la Russia che non ha mai sacrificato quello spirito di libertà che è proprio della cultura di Puskin e di Dostoevskij, di Tolstoi e di Cechov, di Pasternak e di Sinjavskij.
Sulla crisi del marxismo e su ciò che accomuna quella ideologia, che nell’Urss ha avuto di fronte a sé il compito decisivo di sperimentare la sua autorealizzazione, al capitalismo ha incentrato le sue riflessioni Emanuele Severino. Pur dichiarandosi non marxista, l’elogio di quella dottrina è stato solenne («una delle cose più grandi e più serie che siano apparse nella storia»). E per quale ragione? Perché la rivoluzione comunista teorizzata da Marx era un progetto di azione totale. Ma poi anch’essa ha mescolato al proclamato «sapere della totalità» l’accettazione dei metodi scientifici e tecnologici del suo avversario, il capitalismo, e questo fin da Lenin. Quante lacrime e sangue, quanta disumanizzazione comportava la pretesa totalizzante – a mio avviso «gnostica» e non filosofica, perché la filosofia è «vocabol d’umiltate» come diceva il nostro Dante – e di progetto globale dello Stato-Partito lo hanno richiamato con accenti appassionati due ospiti russi, giunti all’ultimo momento: Alexander Zipko, studioso del marxismo e candidato alla carica di presidente dell’Istituto per il marxismo-leninismo di Mosca, Alexandr Men, docente di teologia ortodossa e parroco a Mosca nella Chiesa di Puskin.
Il primo, di una durezza senza attenuanti nei confronti della dittatura comunista, ha mostrato come la pretesa holistica di una scienza della storia si traduce nella prassi in distruzione di tutte le riserve naturali di umanità che una società ha in serbo. Rivendicare a se stessi il controllo globale significa distruggere tutte le strutture naturali della vita. Il popolo russo è come un uomo che si accorge di essere di nuovo sveglio dopo una sbornia e dice a se stesso: come è potuto accadere? L’utopia globale si è rivelata, nell’atto di realizzarsi, il sistema dell’oppressione totale. La perestroika è la fine di un incubo.
Ma il passaggio dal totalitarismo comunista a un minimo di democrazia è assai difficile nelle cosiddette dittature di sinistra, mancando la zattera di salvataggio dell’economia di mercato. E di Marx cosa salvare? La risposta è netta: gli scritti giovanili, purché liberati dall’ateismo aggressivo che grava ancora su di essi. Il pope Zipko formula così la sua speranza: la Russia ritroverà se stessa, integrando il suo mirabile patrimonio di spiritualità e di cultura con l’umanesimo cristiano di Erasmo e di Tommaso Moro. L’Europa come comunità culturale c’è già, occorre solo riscoprirla.
Giornale di Brescia, 3 novembre 1989.