"Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo… che né la pioggia divoratrice, né i turbini sfrenati del vento, né la serie innumerabile degli anni potrà distruggere… Non tutto io morrò… sempre crescerò rinnovandomi nella gloria dei posteri finché il pontefice con la tacita vestale salirà sul Campidoglio". Con queste parole alla fine del terzo libro delle Odi Orazio intendeva suggellare la sua opera di poeta, esprimendo, con una visione di classica, composta, suggestiva bellezza, più che la speranza, la certezza che la sua opera e il suo nome avrebbero vinto il tempo e che i suoi versi, in cui mirabilmente si fondono la nitidezza greca e la solidità romana, avrebbero accompagnato le generazioni dei posteri con la loro ricchezza di serenità e di forte saggezza. E non si ingannò in questa speranza, poiché a duemila anni dalla sua morte la sua poesia è sempre oggetto di studio, di lettura amorosa da parte di chi sa trovare nelle sue pagine autentici valori umani e poetici, contraddizioni, incrinature, inquietudini di stampo assolutamente moderno.
Orazio era nato a Venosa nel 65 a.C., da padre liberto, che con molti sacrifici volle mandare il figlio a compiere i suoi studi a Roma e a completarli poi ad Atene. Proprio allora, ad Atene, erano giunti gli uccisori di Cesare, Bruto e Cassio, che raccoglievano in nome della libertà un esercito, nel quale anche Orazio si arruolò. Ma la guerra finì male per i sostenitori degli ideali repubblicani, che a Filippi furono gravemente sconfitti; anche Orazio ne subì le conseguenze, gli fu confiscato il podere paterno ed egli se ne tornò a Roma, dove fu costretto a trovarsi un modesto impiego presso il questore. Grazie però ai suoi versi, che piacquero anche a Virgilio, poté entrare nella corte di Mecenate, ministro e consigliere di Augusto. L’amicizia di Mecenate, sincera e profonda, gli consentì da quel momento di vivere serenamente e di scrivere come ogni scrittore sogna: in una discreta agiatezza, senza preoccupazioni e tutto dedito al suo lavoro. Alle sue prime poesie, gli Epodi, che risentono ancora dell’amarezza della sconfitta e della delusione, seguono le Satire, che brillano per pacatezza, serenità e saggezza, una saggezza che è anche faticosa conquista, raggiunta, più che sui libri (ed egli studiò la filosofia e in particolare la filosofia epicurea), attraverso le esperienze della vita di ogni giorno, nello sforzo continuo di vincere le passioni che possono turbare la pace dello spirito. La sua morale allora si identifica nell’ideale dell’aurea mediocritas, del sapersi accontentare; e le Satire sono la più viva testimonianza di questo atteggiamento di un uomo che vive tra gli uomini, che sa quanto è difficile essere saggi, che trae dal suo buon senso la principale ispirazione e compie, come è stato detto, il miracolo di trasformare il buon senso in poesia. Con bonarietà e lieve ironia descrive il cacciatore di eredità, ammonisce il laudator temporis acti, perché "se gli dei ti riportassero a quei giorni, tu rifiuteresti"; studia con stupore, come Lucrezio, le anime irrequiete che in città rimpiangono la campagna e in campagna la città; la follia del denaro, osserva, è la malattia principale di cui soffre Roma; l’insaziabile avidità e l’incontentabilità, fanno sì che ognuno guardi sempre a chi sta meglio e mai a chi sta peggio e nessuno è contento della sua sorte. A tutti costoro egli consiglia la misura, cioè la sua saggezza: "C’è un limite, una misura in tutte le cose, al di qua e al di là del quale non può esserci la giustizia". Col passar del tempo le sue soste a Roma si fecero sempre più brevi e i soggiorni nella villa di Sabina, dono di Mecenate, divennero sempre più lunghi, tanto che i suoi amici e persino Mecenate si lamentavano di essere da lui trascurati. In lui l’amore per la vita agreste trova una calda espressione: "Beato colui che vive lontano dalle preoccupazioni degli affari… Come è dolce giacere sotto un vecchio leccio e sulla fresca erba, mentre l’acqua del ruscello scorre fra le alte rive e gli uccelli cantano e le sorgenti scrosciano fiotti zampillanti, conciliando un dolce sonno".
Probabilmente fu in quelle pause di riposo che Orazio lavorò a quelle Odi, per le quali acquistò la certezza che il suo nome sarebbe stato destinato a sopravvivere. Non c’è nulla nella letteratura di tutto il mondo che possa essere paragonato a queste odi delicate e squisite, ma anche robuste e complesse, che nascondono l’artificio con arte perfetta e il lavoro di lima sotto un’apparente spontaneità. Raramente vi si trova la passione; Orazio non è Catullo e piace più a chi ha esperienza della vita che ai giovani, che cercano entusiasmo e bruciante ardore. Canta l’amore, ma l’amore sofferenza o l’amore che è furore egli non l’ha mai sentito; per lui l’amore è un gioco lieve e leggiadro, piacere fisico senza che l’anima si impegni. Tuttavia ci dà tutta una serie di figure femminili straordinariamente belle e vive, perché anche nel gioco apparentemente frivolo e galante dell’amore è possibile ritrovare l’umana saggezza che gli è propria; c’è sempre in lui quell’atteggiamento di distacco e di comprensione umana di chi con la saggezza ha saputo dominare le passioni e approdare ad un sereno gusto della vita, che non significa freddezza né aridità di cuore. Anche nell’ode a Pirra, in quell’affermazione della propria esperienza di fronte al giovane innamorato e ignaro dei pericoli dell’amore, più che soddisfazione per sapersi fuori dalla tempesta c’è una nota di malinconia autentica, che gli viene dalla consapevolezza del tempo che passa e della vanità di tutti i nostri ardori e progetti; da qui il carpe diem, l’invito a cogliere l’attimo che fugge, un invito che Orazio ripete in tante varianti e circonda di tanti divieti ("non chiedere… non tentare… non sperare… non fidarti"); al contrario, Catullo non ricorreva a divieti, ma riassumeva il suo carpe diem in una concretissima richiesta: "Da mihi basia mille". Si direbbe che Orazio tenda a inibire l’azione, perché la sua poesia è nutrita di saggezza, una saggezza di rinuncia, di rifiuto dell’angoscia del tempo e della morte.
L’invito a chiudersi nell’oggi è in fondo un invito a non pensare al domani. Accanto all’amore canta anche l’amicizia, il vino come mezzo per cacciare i tristi pensieri e poi anche l’impero di Roma e le virtù che l’hanno fatta grande, ma canta soprattutto la fugacità del tempo: "Gli anni scivolano via e la pietà non potrà tenere indietro le rughe, la vecchiaia fastidiosa e la morte invincibile".
Dopo le Odi Orazio, non più giovane, esprime in un’ultima raccolta, le Epistole, lo scetticismo caratteristico di chi ha vissuto, una filosofia disincantata, bonaria e sorridente, che ne fa un’opera unica. Nell’8 a.C. muore l’amico Mecenate e pochi mesi dopo Orazio lo segue.
Ma è rimasta immortale la sua poesia, che invita a rinunciare ad una vita e ad una parola eroica, che ci fa riflettere sulla caducità di ciò che è più desiderato, che ci esorta a cercare in noi la serenità e la pace e ci aiuta, come tutti i veri poeti, a fuggire da una visione superficiale delle cose, a sentire la povertà di quello che passa e la grandezza di quello che non passa.
Giornale di Brescia, 19.02.1992.