Paolo VI e l’Europa

 Giovanni Battista Montini divenne Papa il 21 giugno 1963 e si spense 15 anni dopo, nell’agosto del 1978. Egli passerà alla storia per molte ragioni. Ha condotto in porto la straordinaria impresa del Concilio Vaticano II; ha guidato l’opera di rinnovamento della Chiesa; ha portato sulle sue spalle la croce della spaventosa crisi post-conciliare. Quali che siano le discussioni ancora oggi assai vive originate da certe sue scelte, il nome di Papa Montini è legato in campo dottrinale alla splendida trilogia Ecclesiam suam, Populorum progressio, Evangelii nuntiandi. Molte furono le grandi questioni che impegnarono il cuore e la mente di Papa Montini e, tra queste, egli portò un’attenzione intensamente partecipe alla costruzione di un’Europa unita e pacificata e alle riven-dicazioni della sua identità cristiana in campo morale, religioso e come sorgente principale, anche se non unica, della poesia, dell’arte, della cultura, della filosofia del nostro continente. La vocazione europea di Papa Montini è stata alimentata da molti fattori. Figlio di una città posta nel cuore dell’Italia settentrionale, conoscitore acuto, in quanto collaboratore di Pio XII, dei problemi e delle attese dei popoli europei negli anni della guerra e del dopoguerra; vescovo di Milano, la metropoli dove più forte un tempo si sentiva il respiro europeo, Papa Montini era anche fratello del senatore Lodovico, instancabile propugnatore dell’unione europea e per tanti anni rappresentante del nostro Paese al Parlamento europeo. Papa Montini, infine, era l’erede e il continuatore di Pio XII e Giovanni XXIII, due Papi “europei”, cioè contemporanei alla nascita dei grandi organismi dell’unione europea nei quindici anni che vanno dal 1949 al 1963, organismi sempre vivamente incoraggiati e accolti con profonda simpatia dalla Chiesa Cattolica.
Quando nel ’63 il card. Montini divenne papa Paolo VI, i Padri fondatori della Nuova Europa, i pionieri, erano usciti di scena. De Gasperi era morto nel ’54, Jean Monnet si era dimesso nel ’55; Robert Schuman morì nel ’63 e in quello stesso anno Adenauer si ritirò dalla vita politica. L’ideale storico dell’Europa unita e pacificata continuava il suo cammino, ma allo slancio dei geniali iniziatori veniva sostituendosi la prosa dei difficili accordi commerciali e, paradossalmente, a mano a mano che ci si allontanava dal dopoguerra gli Stati europei diventavano meno inclini al sacrificio dei rispettivi particolarismi. La politica di De Gaulle, da una parte, il miraggio comunista e la contestazio¬ne, dall’altra, sembravano bloccare e addirittura far arrestare il grande disegno. Paolo VI, nell’età dell’isolamento ostile di De Gaulle dall’Europa e della dura prassi della “sovanità limitata” di Breznev nei confronti dei Paesi europei dell’Est, interpretò alla perfezione i compiti che emergevano dal mutato clima politico e rivendicò con coraggio sia il dovere degli europei di lavora¬re alla edificazione dell’Europa unita, sia lo spirito cristiano che doveva caratterizzare la presenza della nuova Europa nel mondo. Proprio in virtù del potenziale di umanità della sua tradizione cristiana, l’Europa unita doveva istituzionalmente aprirsi nei modi giù efficaci e coerenti ai popoli in via di sviluppo (come di fatto avvenne, ad esempio, con la Convenzione di Lomé); così come all’Europa dell’Est che, pur essendo oppressa dal comunismo, rimaneva componente essenziale della comune civiltà europea.
Il pensiero di Paolo VI può essere così sintetizzato: l’Europa deve farsi sempre più unita per meglio servire il progresso dei popoli meno fortunati, lavorando altresì a preparare insieme ai Paesi dell’Est, – provvisoriamente separati, un futuro comune e fraterno, l’unità europea dall’Atlantico agli Urali. Negli anni difficili dal ’63 al ’72, culturalmente dominati dal violento antieuropeismo della contestazione e della sinistra marxista, Paolo VI esorta a non disperdere lo slancio originario di quella “rivoluzione pacifica” che ha dato vita al processo di unificazione europea. Gli ostacoli presenti – osserva il Papa – sono “très graves”, ma è necessario per il bene dell’Europa e del mondo che la causa dell’unificazione europea abbia ragione di tutte le difficoltà. Occorre dunque proseguire su quella strada senza inutili ritardi, respingendo ogni “attitude défaitiste” (29 giugno 1964 e 6 aprile 1965). Paolo VI, però, sa benissimo – e lo dice a chiare lettere – che non deve essere la Santa Sede né il Sommo Pontefice a trattare, a mediare tra le parti, a suggerire soluzioni politiche, economiche, tecniche e diplomatiche, compito questo che non rientra nella missione della Chiesa e nelle sue competenze.
L’insistenza di Paolo VI a far uscire l’Europa dall’empasse, che sembra paralizzare il compimento del grande disegno, è commovente. “Il lento travaglio di maturazione dell’Europa può ben rappresentare la felice conclusione di una disgraziata storia” dice il Papa (25 febbraio 1964): quella dei due conflitti mondiali che ebbero appunto come epicentro il nostro continente. La Chiesa, per parte sua, non può che facilitarne il cammino e per molte, valide ragioni. In primo luogo, perché in un’Europa unita è inconcepibile un terzo “suicidio dell’Europa” dopo il 1914-18 e il 1939-45. In secondo luogo, perché “l’Europa fonda nel patrimonio tradizionale della religione di Cristo la superiorità del suo sistema giuridico, la nobiltà delle grandi idee del suo umanesimo, così come la ricchezza e i principi che distinguono e vivificano la sua civiltà” (2 settembre 1963). L’Europa unita, infine, è chiamata a fare da tramite – un tramite storicamente urgente e necessario – tra le singole nazioni e il mondo, vincendo le tentazioni mai sopite del nazionalismo esclusivistico, tanto funesto ai popoli del nostro continente, e del neo-colonialismo eurocentrico. Di qui le accorate parole di Paolo VI: “La missione dell’Europa non è ancora terminata e il mondo ha ancora bisogno del suo aiuto” (8 settembre 1965).
Dei primi nove anni del pontificato di Paolo VI bisognerebbe ricordare almeno due momenti solenni di alto valore simbolico, quello del 26 agosto e del 24 ottobre 1964 con la consacrazione della rinata Abbazia di Montecassino, barbaramente distrutta durante la seconda guerra mondiale, e con la proclamazione di San Benedetto Patrono d’Europa; ma non è questo il luogo per esaminare gli elevati discorsi che in quelle occasioni Paolo VI pronunciò.
Sul tema Paolo VI e l’Europa un capitolo a sé riguarda la cosiddetta Ost-politik della Santa Sede. I toni troppo scopertamente apologetici con cui se ne parla oggi, dopo i meravigliosi avvenimenti del 1989, dovrebbero cedere il posto a una valutazione più pacata e problematica. Sappiamo bene che per trattare tale argomento occorrerebbero documenti e informazioni di prima mano, di cui in questo momento gli studiosi non possono disporre; è comunque innegabile che una così difficile, delicata operazione era per sua natura un’operazione a doppio binario, tendente cioè a stabilire un modus vivendi tra gli Stati comunisti e la Chiesa cattolica, tale da garantire il diritto dei credenti a sopravvivere all’interno di un mondo totalitario e ateizzato che sembrava aver già avuto partita vinta, mentre permaneva da parte della Chiesa il rifiuto della ideologia marxista-leninista. L’Ost-poIitik era dolorosamente necessaria e non poteva che affidarsi alle vie della diplomazia. Rimane comunque da chiedersi quali sono stati prima del 1978 i reali rapporti tra la Chiesa di Roma e le singole Chiese nazionali nell’Europa dell’Est in seguito alla Ost-politik. La Chiesa di Roma poté continuare à sor¬reggere la resistenza dei credenti ai regimi comunisti, o per trovare una ragionevole intesa con essi dovette far leva proprio su quella parte della gerarchia e della cultura cattolica che era più incline al compromesso con il potere e che è stata posta chiaramente fuorigioco solo dalla svolta del 1989? Né si deve tacere un’altra domanda: i perseguitati a causa della fede come giudicarono e vissero la Ost-politik? E su quest’ultimo punto, in, verità, le testimonianze dell’editoria clandestina, del Samizdat religioso, sono assai numerose. E ancora: se questi interrogativi lacerano il nostro cuore ancora oggi, a vittoria ottenuta, quale crocifiggente tormento hanno costituito per un’anima grande come quella di Paolo VI?
Papa Montini, padre universale e insieme – com’è giusto – bresciano, lombardo, italiano, europeo. In lui, nell’unità della sua persona e del suo magistero, tutto si concilia senza separazioni innaturali e senza false antitesi. Sono quasi settanta gli interventi di Paolo VI sulla questione europea, com’è documentato dall’indice ragionato dei volumi Insegnamenti di Paolo VI. L’importanza dei discorsi pronunciati tra il ’63 e il ’72 mi pare risulti con evidenza: e tuttavia è l’ultimo Montini, il Montini della fase mistica e profetica degli anni ’73-’78, il Montini che affianca a sé una scelta équipe di collaboratori (Benelli, Casaroli, Etchegaray, Villot) a conferire una nuova e più alta essenzialità ad ogni suo intervento, anche a quelli sull’Europa. Il Papa vecchio, malato, tormentato dall’artrosi, raggiunge il punto più alto del suo pontificato.
I testi europei di grande respiro che egli ci ha dato tra il ’73 e il ’78 sono almeno quattro e tutti in lingua francese: il discorso del 5 maggio ’75 ai membri del Consiglio d’Europa; la lettera del 25 luglio ’75 a Mons. Casaroli per la Conferenza di Helsinki; il discorso dell’8 ottobre ’75 al simposio dei vescovi europei; ed infine il messaggio inviato al Consiglio d’Europa il 26 gennaio ‘77. Quest’ultimo documento costituisce il “testamento europeo” di Paolo VI. “La tradizione europea, è un fatto innegabile, è parte integrante dell’Europa – scrive Paolo VI – e pertanto non è per nulla fuori luogo dire che all’Europa tocca una responsabilità particolare per testimoniare nell’interesse di tutti valori essenziali come la libertà; la giustizia, la dignità personale, la solidarietà, l’amore universale”.
 

Giornale di Brescia, 4.11.1991.