Ci sono persone la cui esistenza è silenziosa e quasi nascosta, ma che per capacità di comprensione e qualità di lavoro rendono alla società e alla Chiesa un servizio insostituibile. Una di queste persone nella nostra città è Giulio Colombi, uomo di scrupolosissima informazione e di intensa spiritualità, da oltre quattro decenni redattore all’Editrice Morcelliana, diacono permanente nella Diocesi di Brescia dal 1982.
Tra le molteplici esplorazioni culturali, egli ha acquisito una conoscenza di prima mano della teologia tedesca e si è impossessato di quella lingua al punto di tradurre magistralmente pensatori religiosi del livello di Karl Rahner, Urs von Balthasar, Joseph Ratzinger, Wolfhart Pannenberg e, soprattutto, Romano Guardini. Chi potrà mai fare un bilancio dei “doni” che il nostro Colombi fa fatto, con la sua acribia filologica e il suo equilibrio critico, alla cultura cattolica e, per essa, alla cultura italiana? Sono state centinaia le opere da lui tradotte, annotate con dottrina e amore. Egli ha sempre avuto la preoccupazione di valorizzare al massimo l’apporto specifico di ogni autore e, nei limiti del possibile, salvaguardare anche lo stile; e tuttavia le sue magnanime correzioni e la fatica posta a districare matasse molto ingarbugliate sono facilmente riscontrabili e gli hanno meritato il caloroso ringraziamento di molti autori senza dubbio grandi, ma non per questo sempre chiari e perspicui.
Colombi, che ha tenuto a battesimo, per così dire, un numero straordinario di opere e di autori, ha deliberatamente sacrificato l’espressione scritta dei suoi pensieri personali. Gli amici della Morcelliana, però, questa volta gli hanno forzato la mano e, raccogliendo in volume i testi di tre suoi interventi, tutti del 1998, hanno potuto mettere dinanzi all’illustre collaboratore la sua “opera prima”: Paolo VI tra spiritualità e teologia, con una premessa “in forma di lettera” di Stefano Minelli e una postfazione di Giacomo Canobbio. Nel libro di Colombi si prendono in considerazione tre argomenti che aiutano a capire la personalità del Papa bresciano: l’identikit montiniano della spiritualità del prete, tema su cui tornano a più riprese con accenti commossi che mettono a nudo la sua anima l’arcivescovo di Milano e il successore di Pietro; le caratteristiche del linguaggio teologico di Paolo VI, e si sa che “lo stile è l’uomo”, colte soprattutto attraverso una lettura approfondita dell’Ecclesian Suam, l’enciclica programmatica del pontificato; infine l’analisi dei punti nodali dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, che costituisce il frutto più cospicuo del magistero montiniano, documento pubblicato alla fine del 1975, nel decimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II.
Colombi si accosta alla figura di Montini delineandone i tratti essenziali mediante tre “schizzi” essenziali e umanissimi. Occorre innanzi tutto ricordare che Paolo VI ha condotto a una felice conclusione il Concilio, opera questa immensa e ardita, e ha avviato più di chiunque altro in questo secolo l’effettiva riforma della Chiesa cattolica, vincendo resistenze fortissime. Ma egli è altresì il Papa che in maniera nettissima ha compreso nel suo giusto valore e teorizzato la pluralità feconda dei modi in cui il depositum fidei può essere esplorato e proposto agli uomini nel nostro tempo. E in tal modo si è fatto maestro di dialogo: “Nel dialogo si scopre – scrive nell’Ecclesiam Suam (par. 24) – come diverse sono le vie che conducono alla luce della fede […]. Anche se divergenti, esse possono diventare complementari, spingendo il nostro ragionamento fuori dai sentieri comuni e obbligando ad approfondire le sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo esercizio di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle opinioni altrui e ci obbligherà ad esprimere con grande lealtà il nostro insegnamento”.
Il linguaggio di Paolo VI, osserva con grande acume Colombi, è “inconfondibile nella sua pacata ribellione” (p. 14). Ribellione a che cosa? All’uniformità omologante degli spiriti, a cadenze e tournures chiesastiche consuete; ma anche alle pretese sempre ritornanti di ingabbiare il mistero divino della salvezza e il prorompente dinamismo del Vangelo in formulari concettualmente attrezzati e tuttavia sterili, deformanti, di una lontananza stellare dalla sublime semplicità e bellezza del messaggio di Cristo. Padre Congar ebbe a dire che i documenti di Paolo VI avevano una caratteristica inconfondibile: nascevano da una lenta, profonda, densa e limpida riflessione interiore. Non possono essere catalogati fra i testi ufficiali della tradizione romana, appartenendo al genere sapienziale. Il compianto Giudo Stella aggiungeva, chiosando il giudizio di Congar: “Anche questo è un tratto di modernità: un soggettivismo acuto coniugato all’oggettività delle certezze evangeliche”.
In realtà il Papa bresciano fin dalla sua prima enciclica mostrava come si possa, e si debba, “rinunciare magnanimamente, e umilmente, a una tradizione definitoria, quale quella codificata esemplarmente nella bellarminiana societas perfecta” (pag. 37). Non ci si deve, dunque, meravigliare se Montini nella lettera al clero milanese per la Messa crismale del 1963 esortava a “cercare Cristo oltre e dentro l’involucro umano della Chiesa” e nel più alto documento del suo magistero ribadiva che la verità di Cristo, di cui la Chiesa è custode, è depositata nella Parola di Dio, “di cui noi non siano né i padroni né gli arbitri, ma i depositari, gli araldi, i servitori.” (Evangelii nuntiandi parr. 7-8).
Doveva, però, toccare proprio a un Papa così proteso al rinnovamento interiore e istituzionale della Chiesa, al ritorno alla Scrittura e alle fonti patristiche, e tanto sensibile ad ogni conquista e aspirazione umana, sperimentare una delle più dure forme nella sequela del Cristo: egli portò infatti, sulle sue spalle la croce pesantissima della crisi postconciliare, forse la più devastante attraversata dalla Chiesa nel corso bimillenario della sua storia. Quella crisi, si badi bene, era alimentata da una contestazione violenta che veniva contemporaneamente da destra e da sinistra. Sembrò allora che la tempesta dovesse travolgere la barca di Pietro. Il radicalismo e l’astrattezza rivoluzionaria delle pretese erano impressionanti; si misconosceva brutalmente l’enorme lavoro di aggiornamento e di purificazione compiuto dalla Chiesa attraverso il Concilio e l’impulso dato personalmente da Paolo VI al rinnovamento; l’assenza di senso storico sia à la droite lefebvriana e curiale, sia à la gauche progressista era demoralizzante; le comunità religiose e i seminari si svuotavano e tanti erano i fedeli che cessavano di essere tali; intellettuali e teologi si arrendevano al mito della dittatura liberatrice e al metodo della lotta armata. Come dimenticare che, dopo il ’68, la contestazione dialogò dalle comunità di base dell’America Latina al Vecchio Continente, che coinvolse persino il card. Suenens, già amico personale di Paolo VI, passando per i mille teologi che firmarono la dichiarazione critica della rivista Concilium?
Non spettava certo a Colombi tracciare il quadro storico del periodo che intercorre tra la prima enciclica di Paolo VI e l’Evangelii nuntiandi; ma io ho voluto ricordarne alcuni aspetti perché i lettori possano intuire qualcosa dell’immensa angoscia che attraversò il cuore di Paolo VI. Siamo in molti a pensare che il momento più doloroso del pontificato fu anche il più alto. Ricordo, però, con intima gioia che accanto al Papa rimasero in quell’ora buia proprio coloro che erano stati i pionieri del rinnovamento conciliare e i cosiddetti “teologi pastorali”: Maritain che scrisse allora Il contadino della Garonna, De Lubac, Danielou, Congar, Philips, Rahner, Colombo e pochi altri. Paolo VI prese a quel punto la decisione giusta e formò una commissione internazionale di eminenti teologi, scelti dalle diverse parti del modo, per affiancare più direttamente la Santa Sede nell’approfondimento di quei temi divenuti centrali nel dibattito religioso. I temi erano essenzialmente tre: come conciliare l’unità della fede e la pluralità delle culture, l’unità del Vangelo e il pluralismo delle teologie; il legame molto profondo e insieme la non coincidenza tra la promozione umana economico-socio-culturale, che è aperta all’animazione cristiana ma è compito dei laici, e l’evangelizzazione specificamente religiosa; il carattere apostolico e missionario della Chiesa, chiamata a coniugare anche oggi la testimonianza silenziosa e l’annuncio aperto della parola di Dio. Sui risultati a cui pervenne la commissione internazionale, Paolo VI portò la sua intensa riflessione e impresse il sigillo della sua forte personalità. Fu così che l’8 dicembre 1975 oté essere pubblicata l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi. Ma per quanto concerne la lettura di quel mirabile testo bisogna cedere la parola al nostro Giulio Colombi.
Giornale di Brescia, 31.3.1999.