La morte, scrive Paolo VI nel suo testamento, è “maestra della filosofia della vita.” Per ciò la meditazione sulla morte è un esercizio spesso frequentato nella storia del pensiero occidentale. Allo stoico questa meditazione appare essere la via necessaria per giungere a un’autentica libertà interiore. Essere liberi, infatti, significa sciogliersi da quelle paure che accompagnano inevitabilmente la vita effimera dell’uomo: la paura della povertà, della malattia, della violenza subita da parte di altri. Nella malattia, poi, scriveva Seneca, è presente “metus mortis, dolor corporis, intermissio voluptatum” (ep. 78,6), timore della morte, dolore del corpo, interruzione dei piaceri. Da tutto questo l’uomo saggio impara a liberarsi e lo fa esattamente con la meditazione della morte; guardarla in faccia, imparare a convivere con la sua presenza significa esorcizzarla, privarla di quel pungiglione, di quella paura che fa l’uomo schiavo.
Anche nella spiritualità cristiana al pensiero della morte viene riconosciuto un valore positivo. Insegnava un adagio spesso ripetuto dagli autori spirituali: “medita i novissimi e non peccherai mai.” I ‘novissimi’, come è noto, sono: morte, giudizio, inferno e paradiso. La meditazione assidua di queste realtà ultime permette di non lasciarsi affascinare e assorbire troppo dalle cose penultime (le realtà del mondo presente) e garantisce quindi una maggiore rettitudine e perseveranza nella virtù. Le domande che Paolo VI si pone, all’inizio della sua meditazione, sono proprio queste: io, chi sono? che cosa resta di me? dove vado? che cosa devo fare? quali sono le mie responsabilità? Sono le domande che esprimono l’umanità dell’uomo nel tentativo di comprenderla e di viverla consapevolmente.
Come si pone Paolo VI di fronte a queste domande? Scrive: “Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce.” Nel contesto il significato non è: desidero che la mia esistenza sfoci nella luce dell’eternità; ma piuttosto: desidero che il mio andare incontro alla morte sia consapevole, lucido, nella luce. Desidera insomma confrontarsi lealmente con la morte, senza infingimenti, senza soluzioni illusorie. L’autenticità di questo desiderio è manifestato nella righe precedenti, quando Paolo VI tenta un’interpretazione della sua morte. Verrà, come per ogni uomo – dice – anzi, viene; “Da qualche tempo ne ho il presentimento. Più ancora che la stanchezza fisica, pronta a cedere ad ogni momento, il dramma delle mie responsabilità sembra suggerire come soluzione provvidenziale il mio esodo da questo mondo.”
“L’uomo è l’unico essere vivente che sappia di dover morire” è stato detto. Vivere significa lottare ogni momento contro le minacce della morte; e questa lotta, energica all’inizio poi sempre più faticosa, logora poco alla volta l’organismo fino a che l’organismo cede. Ma Paolo VI non interpreta così la morte che sente vicina. La vuole comprendere piuttosto all’interno del piano della Provvidenza; la sua morte significherà che qualcun altro, più giovane, più libero, prenderà il suo posto e potrà “trarre la Chiesa a migliori fortune.” E spiega: “La Provvidenza ha sì tanti modi di intervenire nel gioco formidabile delle circostanze, che stringono la mia pochezza; ma quello della mia chiamata all’altra vita pare ovvio, perché altri subentri più valido e non vincolato dalle presenti difficoltà. Servus inutilis sum.” Mi vengono in mente le misteriose parole di Gesù ai discepoli il giorno prima di morire: “E’ bene per voi che io me ne vada. Perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore.” La morte di Gesù porterà a compimento il suo amore e trasmetterà il dono dello Spirito; la morte di Papa Montini darà alla vita della Chiesa un nuovo impulso, la spingerà su nuove vie e migliori. Insomma, Paolo VI ha detto il suo sì alla morte e lo ha detto nella logica dell’amore per la Chiesa.
Viene da pensare alla parabola del pontificato di questo straordinario Papa, chiamato a condurre la celebrazione del Concilio e la sua attuazione. I suoi primi anni sono stati gioiosi, addirittura trionfali come il pellegrinaggio in Terra Santa. Ma presto Paolo VI ha cominciato a conoscere la contestazione, l’opposizione, anche l’insulto becero. Che egli abbia interpretato la sua morte come dono di amore alla Chiesa fa di lui un segno prezioso che Gesù continua ad agire e a operare nella Chiesa che ha redento. Ha davvero fatto quello che ha espresso come desiderio [p. 36] Sono le parole di un innamorato; pudico, che a lungo ha tenuto gelosamente nascosti i suoi sentimenti; ma appassionato, che alla fine lascia cadere tutte le difese e canta senza censure la bellezza della sposa che ama.
Paolo VI desidera morire nella luce, dopo aver fatto chiarezza in se stesso: chiarezza sul passato e chiarezza sulla speranza del futuro; chiarezza sul suo rapporto col cosmo, con la storia, con la Chiesa, con Dio. “Vedo che rispetto alla vita presente è vano avere speranze; rispetto ad essa si hanno dei doveri e delle aspettative funzionali e momentanee; le speranze sono per l’al di là.” É interessante ascoltare queste parole da una persona che ha conosciuto i luoghi del potere, che ha incontrato i grandi della terra ed è collocato da tutti nella categoria di questi grandi. Mi viene in mente il Qohelet, re d’Israele in Gerusalemme, quando racconta il suo esperimento della vita: ricco e sapiente, ha usato la ricchezza per fare tutte le esperienze che potrebbero rendere interessante la vita. E alla fine conclude: “Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento: non c’è alcun vantaggio sotto il sole.” (Qo 2,11) Montini condivide questa valutazione dell’agitazione terrena (ripete infatti il ritornello di Qohelet “Vanitas vanitatum”), ma sa che essa è vera solo “sotto il sole”, come dice Qo, cioè “dai tetti in giù”, “da qui alla morte”. Ma la vita dell’uomo si apre all’al di là, alla vita di cui Dio è sorgente inesauribile: lì, e lì solo si può collocare la speranza autentica.
Il presente, invece, è il tempo della responsabilità. Questa consapevolezza Paolo VI l’aveva con una chiarezza impressionante. Lo dice in alcune frasi, per me stupende: “Non guardare più indietro, ma fare volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente, il dovere risultante dalle circostanze in cui mi trovo, come Tua volontà. Fare presto. Fare tutto. Fare bene. Fare lietamente: ciò che ora Tu vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la vita. Finalmente, a quest’ultima ora.” Insomma, il tempo che si abbrevia non esonera dall’impegno del lavoro: bisogna morire operando e operando come meglio si può, con gioia; anche se costa la vita. Sembra la mistica del lavoro bresciana; e può ben darsi che Paolo VI portasse con sè questa eredità. Ma si tratta evidentemente di più. È una vera mistica della volontà di Dio così come le circostanze della vita mettono davanti alle persone. “Il tramonto della vita presente, che sognerebbe d’essere riposato e sereno, deve essere invece uno sforzo crescente di vigilia, di dedizione, di attesa. È difficile; ma è così che la morte sigilla la meta del pellegrinaggio terreno, e fa ponte per il grande incontro con Cristo nella vita eterna. Raccolgo le ultime forze, e non recedo dal dono totale compiuto, pensando al Tuo: ‘Consummatum est’.”
La luce che Paolo VI desidera illumina anche, e forse soprattutto, il passato con le tante memorie “così belle, così attraenti, così incomplete, così nostalgiche, e così chiare ormai per denunciare il loro passato irrecuperabile e per irridere al loro disperato richiamo.” Il tempo ha ingoiato esperienze, realizzazioni, rapporti; la memoria cerca di farli rivivere, ma sa bene che si tratta di una vita effimera, che il passato non può tornare. Ma allora a che cosa serve la memoria? A rendere più pieno e umano il presente; a unificare, nella coscienza dell’uomo, tutte le dimensioni della vita nei suoi rapporti col cosmo, con gli altri, con Dio. E qui Montini si sofferma per rinnovare lo stupore di fronte alla grandezza e alla bellezza della vita e del mondo. [pag. 32s] Per quanto studio, ricerca, conoscenza, moltiplichino le spiegazioni non riescono, però, a spegnere lo stupore; al contrario, lo rendono ancora più vivo e profondo; moltiplicano gli interrogativi e le sorprese. Ma qui entra subito una visione propriamente di fede perchè il Papa parla del mondo come un dono: “tutto è dono; dietro la vita, dietro la natura, l’universo, sta la Sapienza… sta l’Amore.” Il concetto di dono rimanda a un donatore, quindi a un disegno consapevole, quindi a una relazione personale. Non mi trovo solo davanti alla bellezza muta delle cose; sono davanti al dono consapevole di un Padre. Per questo lo stupore si cambia in riconoscenza e gratitudine.
Siamo così in una logica propria di fede che impregna la meditazione di Paolo VI. Meditare significa riflettere con la mente e col cuore a qualcosa che tocca da vicino la nostra esistenza di uomini. E meditare è attività comune dell’uomo saggio, del filosofo. Coi sensi percepiamo, con l’intelligenza comprendiamo, con la ragione giudichiamo la realtà. La meditazione assume tutto questo processo, ma lo approfondisce col silenzio e lo stupore che permettono di assimilare in modo personale ciò che è oggetto di conoscenza. Ma la meditazione cristiana ha, rispetto alla riflessione del filosofo, qualcosa di specifico che il Papa esprime così: “Questa suprema considerazione [e cioè la riflessione sulla morte] non può svolgersi in un monologo soggettivo, nel solito dramma umano che al crescere della luce fa crescere l’oscurità del destino umano; deve svolgersi a dialogo con la Realtà divina, donde vengo e dove certamente vado; secondo la lucerna che Cristo ci pone in mano per il grande passaggio.” Dunque, la meditazione assume la forma del dialogo; e il dialogo si arricchisce della rivelazione. Non parlo con me stesso della morte cui vado incontro; ne parlo a Dio, con Dio, attraverso quella parola di Dio che è Gesù Cristo. E non medito sulla morte solo alla luce dell’esperienza empirica. Questa è condannata a offrire sì qualche lume ma nello stesso tempo a dispiegare oscurità sempre nuove. È in Cristo, dice il Papa, che si determina il destino di ogni uomo. “Qui la fede, qui la speranza, qui l’amore cantano la nascita e celebrano le esequie dell’uomo.”
“Nasce l’uomo a fatica – era la stupenda meditazione di Leopardi – ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato.” Questa la riflessione del filosofo; ma la fede, dice Paolo VI, canta la nascita. Lo può fare perchè sa che questa condizione di debolezza dell’uomo è stata riscattata dall’incarnazione e dalla redenzione del Figlio di Dio. All’altro estremo della vita “infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando il tutto oblia.” É naturalmente ancora Leopardi; eppure la fede ‘celebra le esequie’; celebrare significa riconoscere un mistero divino, qualcosa di grande, che supera il puro processo biologico di disfacimento che la morte comporta e mantiene aperta una salda via di speranza.
In questa cornice di fede che illumina la nascita e la morte si colloca anche tutto il dramma della vita con le sue esperienze varie: la vocazione di Montini a prete, la sua elezione a vescovo e infine a papa. Ascoltiamo: “Eccomi in uno stato di sublimazione, che non mi consente più di ricadere nella mia psicologia istintiva di pover’uomo, se non per ricordarmi la realtà del mio essere, e per reagire nella più sconfinata fiducia con la risposta, che da me è dovuta: Amen, fiat; Tu scis quia amo Te.” La sublime vocazione del papa lo strappa dunque alla piccola psicologia di pover’uomo. Non sono più possibili lamenti lagnosi, risentimenti meschini, desideri avidi: tutto questo materiale psicologico, che pur si radica sulla debolezza dell’uomo, è bruciato dall’amore con cui Cristo lo ha chiamato al suo servizio. Rimane la consapevolezza della propria miseria, ma prevale la dedizione dell’amore. Citando a mente sant’Agostino: “miseria et misericordia. Miseria mia, misericordia di Dio.”
Come dicevamo, anche nella morte. Montini ha amato e seguito Gesù servendolo nel ministero; ma sceglie consapevolmente di seguirlo anche nella debolezza della vecchiaia e della morte. Desidererebbe uscire di scena di nascosto, in punta di piedi, senza che nessuno se ne accorga, ma sa che questo privilegio è negato a un papa e sa che anche il modo di morire di un papa fa parte della sua responsabilità. Per questo desidera ricordare Gesù e guardare a Lui come modello supremo di una vita e di una morte trasfigurate dall’amore. Si prepara per Montini una ‘misteriosa metamorfosi’; a livello biologico questa metamorfosi sarà la dissoluzione di un organismo; ma a livello personale sarà la trasformazione di tutto l’essere umano in amore. Così è stato per Gesù e così Montini desidera possa essere anche per lui. Per questo proclama ancora una volta il suo amore fedele alla Chiesa e affida al Signore la sua speranza. “Amen. Il Signore viene. Amen.”
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 13.11.2008 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.