La parola, segno dell’umano
L’uomo, scrive Aristotele, è il vivente che ha la parola (zoon logon echon), è l’essere che parla. L’uomo è il solo animale parlante. La parola è la realtà umana e personale come si fa strada nell’espressione. La parola è anzitutto corporea: parliamo con le corde vocali, ma anche grazie a certe strutture cerebrali, con l’aiuto dei polmoni, della lingua, dell’intera bocca, della laringe e dell’apparato uditivo. Possiamo dire che la parola è il nostro corpo in quanto si esprime. È il nostro corpo che si spiritualizza, che diviene suono, voce, parola. La parola infatti non ha puramente una funzione organica, ma ha una valenza intellettuale e spirituale, affettiva ed emotiva. Possiamo dire che la parola è come il corpo del pensiero. La parola è in noi più intima e interiore di tutti i nostri organi interni. La nostra carne spirituale è la parola, è la materia del nostro spirito.
La parola è originaria nell’uomo. La parola è prima, la comunicazione è seconda. È troppo riduttivo dire che la parola è strumento per comunicare. La parola è fine, la comunicazione è mezzo, non il contrario. Anche gli animali comunicano, e spesso in maniere raffinate, ma solo l’uomo parla. La parola non è semplicemente una tecnica, né un puro contenitore: è la facoltà che l’uomo ha, in quanto persona, di avere un punto di vista proprio, che poi discute con gli altri e con sé stesso. La parola è l’insieme di ciò che abbiamo da dire al mondo e del mondo e a noi stessi e di noi stessi. Essa è poi universalmente umana e si trova a monte di tutti gli strumenti linguistici che concretamente usiamo per parlare. Certo, i mezzi incidono sulle finalità e un conto è parlare nella propria lingua madre e altro conto è parlare una lingua straniera. L’essere strappati alla propria lingua madre è una delle prime violenze che subisce chi oggi deve emigrare dai propri paesi fuggendo guerre e miseria. Essere costretto ad abbandonare la propria terra madre, la propria lingua madre: lì le radici dello sradicamento del migrante e del suo essere reso straniero ed estraneo là dove si troverà.
La parola è ciò che fa di noi degli esseri umani. Per l’uomo venire al mondo è accedere alla parola, prendere la parola. Con essa l’uomo si situa in rapporto al reale e ne esercita un dominio, ne prende possesso. Tra sé e il mondo l’uomo interpone la rete delle parole e così egli nomina il mondo, lo conosce, lo elabora, lo significa. E così lo abita. E come l’uomo abita il mondo? L’etica è la modalità con cui l’uomo abita il mondo, che, per l’appunto, egli abita insieme ad altri uomini. Come la casa delimita un territorio, segnala un dentro e un fuori, dà riparo e sicurezza, così l’etica traccia confini, detta norme, delimita ruoli e funzioni, segnala ciò che è da fare e ciò che è da evitare. L’etica è la casa degli umani, essenziale per il loro stare al mondo. Non a caso il vocabolo greco êthos (ἦθος), da cui proviene il termine “etica”, ha anche il senso di “dimora”, “abitazione”.
Dunque, se la parola è la realtà umana che si manifesta nell’espressione, essa è anche il prezioso strumento che ci lega a noi stessi (perché non smettiamo mai di parlare a noi stessi) e agli altri: essa è al cuore di tutte le relazioni sociali e politiche. Scrive Montaigne: “Noi siamo uomini e legati gli uni agli altri solo per mezzo della parola”. L’etica dev’essere anzitutto etica della parola. Prendere coscienza dello statuto della parola e della responsabilità che essa richiede, rientra nel cammino di umanizzazione che è il compito di ogni umano. Compito che comprende anche la lotta per uscire dalla volgarità e dalla superficialità, dalla banalità e dalla manipolazione della parola. Infatti, solo un uso appropriato della parola rende intelligibile il mondo e vivibili le relazioni umane, interpersonali, sociali e politiche.
Il racconto biblico della creazione mediante la parola (Genesi 1) dice che la parola mette ordine nel mondo: essa stabilisce confini, pone limiti, assegna un posto, conferisce compiti, dà forma. La parola creatrice del libro della Genesi è luogo di apparizione dello spazio. Il mondo viene all’essere ed esiste perché è parlato. Lacan ha formulato il neologismo parlêtre, parlessere, per indicare l’essere umano, a significare che non è anzitutto la comunicazione, ma la parola, che caratterizza l’uomo. La parola è il luogo della nostra umanità singolare, ancorata com’è nella nostra carne, nella nostra condizione sociale, nella nostra sessualità, nella nostra storia personale e nella nostra biografia. La parola esprime la nostra coscienza e ci dà coscienza. Essa ci situa davanti agli altri. Insomma, la parola è l’esperienza umana come apertura, è una sorta di trascendenza nell’immanenza: ciò che manca al comportamento animale è proprio questa breccia che apre un’infinità di prospettive possibili sull’Essere. Non a caso in tante culture e mitologie la parola ha un’origine sacra. “In principio era la parola” recita l’incipit del IV vangelo (Giovanni 1,1). Nella tradizione biblica la parola fa parte dell’immagine di Dio che l’uomo deve realizzare mediante il lavoro della somiglianza: “Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza … E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (cf. Genesi 1,26-27). La dialettica fra immagine (tzelem) e somiglianza (demut) è quella del dono e della responsabilità. E poiché si può affermare che è l’umano l’immagine divina deposta come dono nell’uomo e che questi ha la responsabilità di nutrire, coltivare, perseguire e realizzare, ecco che l’uomo ha come proprio compito di umanizzazione la parola: imparare a parlare, fare del parlare un’arte, e un’arte che possa incontrare quel giudizio positivo etico-estetico (buono-bello) che il Dio creatore rivolge alle sue creature al termine di ogni giornata creazionale: “Dio vide, ed ecco era cosa buona-bella” (tov).
Un’etica della parola
Chiediamoci: che significa il parlare etico? Che cosa comporta? Cos’è un’etica della parola? Ogni parola ha una dimensione espressiva (il locutore esprime se stesso, le sue idee, chi lui sia) e comunicativa o appellativa (il locutore si rivolge ad altri, al destinatario del suo parlare). Questo significa che ogni atto di parola ha valenza etica e richiede una responsabilità. Elementare responsabilità della parola è questa, così espressa da Gadamer: “La parola pronunciata non è più mia, ma è abbandonata all’udire. Appartiene alla più grande responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a chi la ode”. L’etica della parola è direttamente rispetto e riconoscimento della persona umana e rende colui che parla l’essere che risponde delle sue parole. Essa non demonizza l’avversario, non soffoca le sue parole gridando più forte di lui, non nega di aver detto ciò che si è appena detto, né getta sugli altri la colpa del fraintendimento, ma esige che l’interlocutore sia considerato con rispetto, che la parola pronunciata non possa essere smentita, negata, ritrattata, banalizzata, e infine che la parola stessa sia custodita nella sua valenza di espressione umana per eccellenza, dunque espressiva di colui che parla. L’etica del dialogo e del confronto dice che l’opinione dell’altro, l’opinione diversa dalla mia è per me importante tanto quanto la mia. Quale verità, dunque? Quella costruita con il faticoso lavoro del dialogo e dello scambio, del confronto e della discussione. Ovvero la verità lontana dall’assolutezza e vicina alla mitezza. E la mitezza, come il dialogo, è un metodo, più che un contenuto o una virtù. È il metodo di cercare insieme la verità e di edificare insieme un senso. Metodo che accorda importanza essenziale all’interlocutore come soggetto e non lo considera mero terminale della propria opera di convinzione o di propaganda. È un cammino costruito insieme con le parole, è sýn-odos, e non tende alla sopraffazione dell’altro, ma all’edificazione comune della verità.
L’etica della parola implica tre livelli:
rispetto per l’altro (a cui si parla),
rispetto per la parola (che viene pronunciata),
rispetto per se stessi (cioè, per il parlante: dire è sempre dirsi).
Questo rispetto manca al menzognero. Scrive Kant: “La comunicazione dei propri pensieri a un altro con parole che indicano (intenzionalmente) il contrario di ciò che pensa chi sta parlando, rappresenta uno scopo esattamente opposto alla finalità naturale della sua facoltà di comunicare i propri pensieri e, perciò, una rinunzia alla propria personalità, così che il mentitore risulta essere solo un’apparenza d’uomo, non un vero uomo”.
Custodire lo statuto umano della parola esige il rigore nella comunicazione e la critica dei meccanismi di manipolazione della parola che sono alla base di tanta parte della comunicazione oggi. Mai come oggi, infatti, il potere politico necessita della comunicazione per influenzare la volontà dei cittadini, per “plasmare la mente umana”. La comunicazione cerca e crea il consenso e oggi il politico vincente è colui che meglio domina la scena, il teatro dello show politico. Il politico vincente è il seduttore. Euripide ha descritto il demagogo come un grande seduttore: “Il demagogo è capace di adattarsi alle circostanze più diverse e sconcertanti, di assumere i volti delle diverse categorie sociali e dei tipi umani presenti nella polis, di inventare le mille forme che renderanno efficace la sua azione nelle situazioni più svariate”. Ed è il giocoliere delle parole, l’illusionista (parola che rinvia a ludus, gioco) della parola. Colui che fa della parola uno strumento di potere. Colui che si serve delle parole per usare le persone.
La parola come impegno è una delle forme più esigenti e più antiche della parola: il giuramento, il patto, la promessa. Mantenere la parola data è il segno della fedeltà alla promessa, è segno di responsabilità etica. Il ritratto abbozzato da Max Weber del politico come “eroe”, come colui che riesce a raggiungere il possibile perché tenta e ritenta sempre l’impossibile, deve comprendere l’aspetto della responsabilità della parola e del coraggio della parresía. Quella dote che l’antica democrazia ateniese ci ha lasciato in eredità ma che oggi si fatica a trovare nelle personalità politiche. Quella dote che Michel Foucault ha magistralmente descritto in questi termini:
“La parresía è una specie di attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere. Più precisamente, la parresía è un ‘attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresía il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale”.
In particolare, poiché la parola instaura relazioni ed è apertura verso l’alterità, essa deve sempre accompagnarsi all’attitudine fondamentale dell’ascolto. Del resto, ricorda Lévinas: “Parlare e ascoltare sono una sola cosa, non si alternano”. L’ascolto è atto intenzionale, mosso da una decisione e da una volontà, esige tempo, pazienza, profonda interiorità, si configura come ospitalità e accoglienza, accetta di rimuovere i pregiudizi sull’altro e di vederlo con occhi nuovi, accoglie l’altro così come questi si definisce e si comprende ed esce dalla pigrizia delle etichette e dalla violenza delle precomprensioni. Questa parola, che è al contempo anche ascolto, e dunque silenzio per lasciare spazio all’altro, è la parola comunicativa, che edifica relazioni, che accetta di inserirsi nella dinamica dialogica propria della democrazia.
Parola e silenzio
Stiamo ascoltando parole e stiamo ascoltando musica. Che rapporto tra musica e parola? Anche la parola è un evento sonoro. Potremmo dire che in principio è il suono. Ciò che unisce parola e musica è il suono che è costitutivo della musica e che si condensa nella voce che sempre accompagna la parola. Il carattere originario del suono, verificabile nella vita del feto che sviluppa il senso del ritmo ascoltando il battito del cuore della madre e facendosi raggiungere dalla sua voce, dice come l’udito sia il senso fondamentale dell’essere umano, che lo unisce e al contempo lo distingue dal mondo. Se è vero che la percezione del mondo da parte del bambino si struttura intorno ai fenomeni del ritmo, del battito e della durata, allora possiamo dire che l’inizio dell’esperienza umana è un fenomeno musicale: il tempo percepito come musicalità. La prima comunicazione, preverbale, che avviene tra il bambino e la madre è una sorta di musicale “sintonizzazione”. Certo, il linguaggio verbale è preciso e analitico, indica e descrive gli oggetti, la musica invece, che secondo il poeta Rilke è “lingua ove le lingue cessano”, gioca sulle relazioni interne delle note e non ha riferimenti a oggetti specifici. Ma anch’essa parla. Potremmo dire che la musica dice tutto non proferendo parola. Se la parola designa, la musica evoca. In questo, la parola poetica è la più musicale, la più evocatrice. La più vicina al silenzio.
Infatti, ciò che si oppone alla parola non è il silenzio, ma il rumore, la confusione, il chiacchiericcio. Anzi, ogni parola profonda, la parola che diventa un’arte, che tocca in profondità l’altro, che ne raggiunge le corde più profonde, che ne tocca il tragico, è una parola ritmata dal silenzio. Radicata nel silenzio. Una parola che nasce dell’interiorità vissuta.
A differenza di quella che il vangelo chiama parola vana o oziosa. Il vangelo riporta una parola di Gesù che mi ha sempre fatta molta impressione. “Di ogni parola vana che gli uomini diranno dovranno rendere conto nel giorno del giudizio” (Mt 12,36). Nel contesto del brano di Matteo è evidentemente la parola cattiva, gratuitamente cattiva contro qualcuno, la calunnia (Mt 12,22-32). Tuttavia, nella tradizione cristiana la parola oziosa di cui si dovrà rendere conto nel giudizio è di volta in volta la parola inutile o la parola che non giova alla fede in Cristo o che non giova al perfezionamento spirituale di chi ascolta né di chi parla … Io propongo questa comprensione: le parole oziose, vuote, sono quelle che non edificano l’umanità delle persone, né di hi parla né di chi ascolta. Il senso di ogni parola è di esprimere l’umano e di farci arrivare all’umano. La parola violenta, autoritaria o stupida, banale, che non dice niente, è una parola oziosa, ovvero, che ha tradito se stessa. È una non-parola. E sia chiaro ogni uomo per vivere ha bisogno di leggerezza, non solo di serietà. Non si sta dicendo che parole scherzose o leggere o chiacchiere non siano pienamente parte della vita umana. Sono insopportabili coloro che vorrebbero che sempre si parlasse di cose profonde, teologiche o politiche o ecclesiali o intellettuali o culturali e che non lasciano spazio alla leggerezza. Ma appunto, il criterio è una leggerezza che non scade, che non tradisce o rende volgare o banalizza l’umano.
Ora, questa parola, la parola, ha bisogno di ritrovare il suo rapporto vitale con l’interiorità e, dunque, con il silenzio. Il legame parola silenzio si trova nella considerazione del fondo da cui nasce, da cui essa sgorga, dunque dal fondo di silenzio che non cessa di avvolgerla e senza il quale essa non direbbe nulla. La parola, per essere significante e significativa dev’esser preceduta e seguita dal silenzio: essa è costantemente intrecciata al silenzio alle pause che sono essenziali alla parola come lo sono per la musica. Sì, anche il silenzio, come la parola, appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo. La parola perisce se perde il suo radicamento nel silenzio, il suo legame con il silenzio. Scissa dal silenzio la parola si corrompe, si deturpa, si svilisce. Nell’attuale ipertrofia della comunicazione, potremmo forse parlare di idolatria della comunicazione, si crea il paradigma dell’homo communicans che è l’uomo senza spazio interiore, ridotto alla sua sola immagine, eterodiretto da informazioni e da stimoli a lui esterni, un uomo che non sa abitare e reggere il silenzio. Ora, l’utopia della comunicazione trova proprio nel silenzio l’insopportabile, la rovina del proprio sistema. Il silenzio manda in tilt il troppo pieno della comunicazione, l’ideale saturante di una comunicazione continua, completa, immediata, che non lascia intervalli di tempo per cui si è contemporanei e ubiqui a ciò che avviene alle più diverse latitudini e longitudini. L’imperativo della comunicazione è una messa sotto accusa del silenzio, così come è uno sradicamento di ogni interiorità ma perviene alla fine alla saturazione, all’insignificanza. Forse diventeremo muti a furia di comunicare.
Ma proprio qui possiamo cogliere un aspetto antropologico e politico fondamentale del silenzio. Dove il silenzio non ha a che fare con lo smettere di parlare, ma con un’azione interiore (fare silenzio, non tacere), con un abitare l’interiorità. Il silenzio ridà interiorità e profondità alla parola fino a rendere possibile la parresía, l’esercizio della libertà di parola, come nell’antica democrazia greca. Il silenzio, come interiorità della parola, fa sì che parlare non sia tanto un flatus vocis, ma sentire ciò che si dice, aderirvi: il silenzio dà origine alla parola e la nutre di convinzione, passione, di sofferenza, di coerenza, di uscire dal gap tra parola detta ma non creduta, non sentita, non vissuta. Parlare a partire dal silenzio significa testimoniare. Sempre, ma più che mai oggi, nella babele comunicativa e disponendo di potenti e invadenti strumenti tecnologici comunicativi, c’è bisogno tanto a livello politico, sociale ed ecclesiale di coerenza, della coerenza del testimone, di colui che è martyr. Che cioè osa andare fino alla perdita della vita per la parola che osa pronunciare, per la verità che intende onorare. Parola che nel silenzio finale trova la sua massima espressione, come Gesù che muore quale agnello afono lasciando risuonare per i secoli futuri la potenza delle sue parole, del suo messaggio, dei suoi gesti. Amleto nell’opera di Shakespeare muore con le parole: “Il resto è silenzio” (Atto V, scena II).
Il silenzio dà limiti alla parola. Il silenzio ricorda che la parola per essere vera, cioè capace di comunicare, di esprimere il parlante e di raggiungere colui a cui parla, deve avere limiti. Il silenzio è origine e fine della parola, ed essendo limite dà senso e forma a ciò che limita, alla parola: innestare la parola sul silenzio significa renderla cosciente dei propri limiti, della propria non-onnipotenza, del proprio aver bisogno della parola di altri per cercare insieme la verità e costruire insieme un senso. La parola che recupera il rapporto con il silenzio diviene mite e accetta, anzi riconosce di aver bisogno dell’alterità. Il silenzio è spazio per l’altro, è spazio per l’ascolto. E così contribuisce alla riuscita della parola come incontro. La parola è infatti ponte e passaggio. Parlare è costruire ponti perché gli umani possano incontrarsi. Non facciamone dei muri invalicabili.
Innestare la parola nel silenzio significa dare veridicità alla parola stessa. Noi possiamo parlare il silenzio, ovvero lasciare che il silenzio scoppi in parola, e questo parlando con semplicità e verità. La parola vera è silenzio parlato. Questa sintesi la realizza mirabilmente la musica che anche ora ci apprestiamo ad ascoltare per concludere in modo contemplativo questo nostro incontro.