Tra coloro che hanno reso testimonianza della immane sofferenza generata dal totalitarismo sovietico emergono nettamente, per la validità universale e la levatura culturale del loro messaggio, oltre a Solženicyn e a Siniavskij, la poetessa Anna Achmatóva, lo scrittore Vaclam Šalamov e quel genio multiforme che si chiama Pavel Florenskij.
Dei russi citati il solo che abbia ancora bisogno di essere conosciuto in Occidente, almeno dal largo pubblico, è Pavel Florenskij, scienziato eminente, filosofo e teologo originalissimo, prete ortodosso e maestro di vita spirituale. Egli è veramente, come di lui fu detto già nei primi decenni del Novecento, il «Pascal russo», perché come il francese anche Florenskij dispiegò le sue forze in diversi ordini di realtà e con audacia sbalorditiva.
Di Florenskij abbiamo ormai in italiano molti scritti, ma, a mio avviso tre sono quelli più rivelatori della sua spiritualità e della sua tragedia di padre allontanato con la violenza dai figli. Il primo di essi è La colonna e il fondamento della verità, un saggio di filosofia e teologia ortodossa in dodici lettere, in cui la ricerca del significato della vita mette capo alla giustificazione della verità religiosa che irradia la luce del Vangelo. L’edizione italiana più recente è quella edita da Rusconi nel 1998. Gli altri due libri-chiave per entrare nell’universo di Florenskij sono Non dimenticatemi e Ai miei figli – Memorie dei giorni passati, ambedue tradotti da Natalino Valentini e pubblicati da Mondadori nel 2001 e nel 2003. Nel primo libro sono raccolte le mirabili lettere che Florenskij spedì, una al mese, alla moglie e ai cinque figli, senza poter mai neppure nominare Dio, anche se esse nascono tutte dalla sua ansia per la formazione umana e il destino delle sue creature. Il secondo libro costituisce l’autobiografia, affascinante e del tutto anticonvenzionale, del grande russo che anche qui si rapporta idealmente ai figli nell’affidare, alle loro intelligenze e alle loro sensibilità, ciò che ai suoi occhi più conta. Di Natalino Valentini, il maggiore tra gli studiosi dello scienziato – filosofo-santo russo, sta per uscire il profilo Pavel Florenskij nella collana «Novecento teologico» della Morcelliana.
Pavel Alesandrovic Florenskij nasce nel 1882. Dopo la laurea in matematica, rinuncia alla carriera universitaria per frequentare i corsi di filosofia e iscriversi all’Accademia Teologica moscovita. Si sposa con Anna M. Giacintova ed è padre di cinque figli. All’Accademia Teologica svolge corsi di Storia della filosofia e Storia delle Idee; insegna Teoria della Prospettiva e della Spazialità al Vchutemas di Mosca, ma si occupa anche di epistemologia, teoria della relatività e teoria dei quanti, di arte sacra, filosofia della religione e del linguaggio, teologia e spiritualità ortodossa. Lavora come ingegnere per il Glavelektro contribuendo al piano di elettrificazione della Russia e portando a termine importanti ricerche e scoperte scientifiche. Accusato, senza alcun fondamento, di attività controrivoluzionaria è condannato prima all’esilio e poi al lager, dove continuerà in condizioni difficilissime le sue ricerche. Dopo cinque anni di lager, è fucilato l’8 dicembre 1937, in un bosco nei pressi di Leningrado.
Con lucida, tragica consapevolezza, qualche mese prima della sua fucilazione Florenskij scriveva in una lettera alla famiglia dal gulag delle Solovki: «Il destino della grandezza è la sofferenza, quella causata dal mondo esterno e la sofferenza interiore. Così è stato, così è e così sarà. E’ chiaro che il mondo è fatto in modo che non gli si possa donare nulla se non pagandolo con sofferenza e persecuzione. E tanto più disinteressato è il dono, tanto più crudeli saranno le persecuzioni e atroci le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma fondamentale». Inghiottito dal sistema del totalitarismo stalinista, Florenskij ci svela in questo passo il senso profondo che conferisce al termine “grandezza” come esperienza di santità e piena accettazione del paradosso della Croce, che implica il dono dell’amore fino alla fine. Alla notizia della sua morte il teologo Sergej Bulgakow, commemorando l’amico, affermava: «Se n’è andato cinto dall’aureola di martire e confessore del nome di Cristo». E aggiungeva: «Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande. Tanto più grande è perciò il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche una persona che aveva fatto della sua stessa vita un’opera d’arte».
Oltre al talento e alla genialità della sua opera, colpiscono profondamente, infatti, l’integrità umana e spirituale della sua persona. In Florenskij la vita e l’opera, malgrado siano rimaste tragicamente incompiute, costituiscono una unità indissolubile, un unico tessuto d’incomparabile finezza, che come egli stesso ebbe a dire, fa pensare piuttosto a una trama dove i fili si annodano in motivi complessi e diversi. Questa metafora della tessitura esprime adeguatamente il senso dell’interazione e della connessione vitale che sussiste tra l’intensità teoretica del pensiero, il rigore speculativo e la profondità mistica della sua fede. Nella filosofia di padre Florenskij, martire della Chiesa ortodossa, vita e pensiero, fede e ragione, cristianesimo e cultura, parola e azione, analisi e intuizione, invenzione scientifica e creazione artistica costituiscono un’unica indissolubile realtà, un’unica totalità organica animata da un ininterrotto palpitare di nessi. In lui, di fatto si sono incontrate, e a loro modo unite, la cultura e la Chiesa, Atene e Gerusalemme, e una tale unione costituisce in sé un fatto di assoluta rilevanza storica.
Giornale di Brescia, 27.3.2003. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc su “Il totalitarismo sovietico attraverso le voci di Pavel Florennskij, Anna Achmatova, Varlam Salamov”.