La morte ci fa normalmente più paura del peccato. Anche perché la morte è un fatto visibile, sotto gli occhi di tutti. Quante volte ci siamo incontrati con lei, mentre, inesorabile, ci strappava le persone più care! Quante volte ci siamo sentiti impietriti davanti allo spettacolosi come aveva ridotto i corpi, i volti, di coloro che nella vita avevamo sentito vicini a noi, pieni di vita!
Il peccato è qualche cosa che ci sfugge, è impalpabile, è nella nostra anima, e soltanto la fede può avvertire la sua micidiale presenza. Chi non ha fede lo avverte soltanto, qualche volta, sotto forma di un complesso di colpa fastidioso, che si può curare come ogni altra malattia psichica.
Per la rivelazione cristiana il peccato e la morte sono strettamente uniti. Hanno la stessa origine, la stessa storia e o stesso destino.
Il peccato genera la morte, ne è la causa più profonda. E questo sempre, in ogni caso. Anche la morte di Cristo, innocente e totalmente santo, è stata originata dal peccato, il nostro, che egli ha preso su di sé.
Con il peccato, vive continuamente in noi la morte, nella sua versione più brutale. Alla fine però il peccato e la morte verranno vinti. Il peccato verrà rimesso e la morte avrà finito di tormentarci. Questo avverrà unicamente per i meriti di Gesù Cristo «il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4, 25).
Il peccato infatti è sempre contro Dio («contro Te solo ho peccato», Sal 50), così come è contro Dio la morte, entrata nel mondo quasi clandestinamente, per invidia del diavolo, che non sopporta un «Dio amante della vita» ( Sap 11, 26).
Essendo contro Dio, il peccato è anche contemporaneamente contro l’uomo. Lo insidia dall’interno (è dal cuore dell’uomo che nasce ogni male: cfr. Mt. 15, 19), portandovi quel processo di decadimento che Pascal sintetizza nel concetto di «miseria», e quindi quel contrasto di fondo tra bene e male che San Paolo descrive nelle pagine della lettera ai Romani, forse le più drammatiche di tutto il Nuovo Testamento: il peccato mi ha sedotto e mi ha dato la morte così che ora io non faccio quello che voglio, ma quello che detesto. Infatti c’è, sì, in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo e pertanto io «non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 19).
Sembra di risentire Ovidio: «Video meliora proboque, deteriora sequor» (Metamorfosi). «Amo il bene – potrebbe dire ciascuno di noi – ma faccio il male; amo la vita, ma compio opere di morte».
Ma se le cose stanno così, chi potrà raggiungerci in questa situazione che sembra invitare alla disperazione. Se non ci fosse nessuno, se rimanessi solo con me stesso, come potrei spuntarla?
Saprei, io da solo, mettere la scure alla base di questa pianta avvelenata? Dove potrei io trovare le forze per uscire dal fiume vischioso che mi trascina? Non è un’impresa troppo alta per me?
Preso da queste domande, mi sembra di comprendere meglio il grido di San Paolo: «Me infelice, chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?». Grido seguito immediatamente da un altro grido, quello della speranza: «Siano rese grazie a Dio, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7, 25).
A questo Cristo che libera dal peccato e dalla morte si rivolgeva M. Lutero: «Tu, Signore, sei la mia giustizia e io sono il tuo peccato. Tu hai preso ciò che è mio e mi hai dato ciò che è tuo. Tu hai preso su di Te ciò che non eri e mi hai dato ciò che io non ho».
L’ispirazione di questa invocazione è chiaramente paolina, «Colui che non aveva peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5, 21).
Il combattimento decisivo, la definitiva vittoria sul peccato e sulla morte avverrà sulla Croce, dove il Figlio unigenito, amatissimo dal Padre, diventerà per noi, a nostro vantaggio «maledictum» (Gal 3, 13). Colui che sulla croce muore a causa del nostro peccato, l’innocente con noi solidale, diventa per noi sorgente di grazia e di vita.
«Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte […] Se il Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8, 1-13).
Le opere del «corpo» che devono morire già in questa vita non sono, ovviamente, le opere connesse alla nostra naturale corporeità. Sono le opere dell’uomo carnale, e cioè dell’uomo «vecchio» egoista e pieno di vanagloria. San Paolo ne fornisce degli elenchi molto concreti. Ad esempio nella lettera ai Galati: «Opere della carne sono: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge…» (cfr. Gal 5, 19-21).
Morire a tutto questo è indispensabile per comparire nella vita eterna, se vogliamo partecipare alla risurrezione della carne insieme al Cristo.
«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me la salverà» (Lc 9, 23-24).
Invitati a sperare, Morcelliana, Brescia 1996, pp.43-47.