Ci sono temi angosciosi, ma pure essenziali, sui quali non giochiamo solamente il destino delle migliaia e migliaia di persone che hanno conosciuto o conosceranno le catene e il patimento della reclusione, ma giochiamo anche in gran parte il destino dell’intera società; ed anche inevitabilmente, il nostro stesso personale destino, in ogni caso la misura di umanità e giustizia che saremo capaci di dare e di far esistere nel nostro Paese. È giusto pensare che la civiltà di un Paese si misura in maniera decisiva dal livello dell’istruzione di base e dai servizi offerti ai malati, agli anziani, ai portatori di handicaps; Nicolò Amato, però aggiunge opportunamente: "La civiltà di un Paese si misura anche dai suoi tribunali e dalle sue prigioni”.
Nicolò Amato ha condensato in un libro di grande serietà scientifica e di profonda umanità (perché questi due alti valori dovrebbero andar disgiunti?) – Diritto, delitto, carcere (Giuffrè Editore) – le riflessioni giuridiche, morali e pedagogiche che è andato svolgendo in questi anni sia come giurista, sia come direttore generale degli istituti di pena in Italia. Il libro si articola in venti capitoli serrati ed insieme discorsivi, ma la sua pubblicazione è un avvenimento morale e culturale nel senso più alto del termine perché il suo autore getta in esso, tormentosamente, tutte le sue forze per tenere pascalianamente sul tema della giustizia i due contrari. Bisogna, infatti, far esistere la giustizia, non nullificarla con un funesto perdonismo; e nel contempo occorre veramente umanizzare la pena, dare un lavoro, una effettiva ragione di riscatto e di speranza, una prospettiva di reinserimento nella società a quanti sono detenuti per qualsiasi motivo, perché anche il detenuto è uomo.
Nicolò Amato non ha solo letto e pensato, con finezza e rigore; egli è entrato dentro la realtà del carcere, è stato e sta con i detenuti e tra loro, ha visto e sentito la tragicità della “loro” condizione. Per questo il suo libro non è un mero corso universitario, ben costruito fin che si voglia, ma deserto di umanità o intriso di astrazioni soporifere. In Amato la consapevolezza teorerica dei principi che umanizzano il diritto e la pena fa tutt’uno con la cognizione del dolore. Di qui il grido nelle pagine finali: "No, non posso tacere. Non posso rassegnarmi. Non posso rinunciare”.
Giornale di Brescia, 11.2.1989. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Nicolò Amato.