Di fronte ad alcune situazioni particolarmente drammatiche sorge l’interrogativo, soprattutto per il credente, “perché Dio ci fa o ci lascia soffrire?”. Non si tratta di un problema teoretico. È piuttosto un problema che nasce in un contesto di fede, che implica una conoscenza di Dio: se Dio è Padre, ed è il Dio della vita, perché ci lascia soffrire? In tal senso la domanda non nasce in chi si dichiara ateo. Va messo in conto che l’ateismo può nascere o trovare conferma nella sofferenza innocente[1].
Per di più, se nel cristianesimo si afferma che Dio è Padre, il rapporto con quello che un padre terreno fa per i suoi figli diventa immediatamente cogente: un padre terreno, quando vede i suoi figli soffrire, fa di tutto per togliere loro la sofferenza.
Né si può rimandare all’éschaton l’intervento di Dio; perché non interviene ora?
E non possiamo rispondere “adesso Dio ci lascia soffrire, ma alla fine, dopo la morte, ci darà una condizione di pienezza di vita”, perché la domanda sorge adesso e ha bisogno di trovare una risposta nella condizione che stiamo vivendo.
Per poter tentare una risposta al nostro interrogativo, si può procedere per gradi, prendendo dalla Sacra Scrittura alcune ipotetiche risposte per vedere che tipo di valore possano rivestire per noi. Sono ricavate dalla Bibbia, dalla quale però non si può trarre una sola risposta che valga per tutti e in tutte le condizioni; sarebbe frettoloso dire che le nostre risposte sono ricavate dalla Bibbia e sarebbero pertanto le risposte definitive. La Bibbia ci permette di trovare molteplici risposte, ma bisogna dire che non possiamo prendere la Bibbia come una specie di manuale nel quale tutto è precisato. La Bibbia rispecchia diverse esperienze vitali.
Le risposte che possiamo ricavare sono almeno tre, e possono essere utilizzate in forma unilaterale; ma proprio per questo nessuna di esse appare soddisfacente alla nostra intelligenza.
a) per punirci delle colpe
La prima risposta, quella più ovvia, quella che in alcuni social in questi giorni si sta proponendo è: Dio ci lascia o ci fa soffrire per punirci delle nostre colpe. Sullo sfondo di questa risposta sta il dinamismo del rapporto tra colpa e pena. Ogni volta che si propone una pena deve esserci stata una colpa. Siccome si vive questa situazione come pena, necessariamente deve esserci stata una colpa. E la colpa qual è? È il peccato che noi avremmo compiuto, noi come umanità. Ora, questa risposta possiamo rintracciarla nel racconto della Genesi (3,14-19)[2] dove si presenta la conseguenza della colpa di Adamo ed Eva, i primogeniti dell’umanità. La possiamo trovare anche quando nella Bibbia si descrive l’esilio. Perché il popolo ebraico va in esilio? Secondo alcune direttrici dei testi profetici, perché è stato infedele a Dio (cfr. Geremia 5,19)[3]. Ma una risposta di questo genere ha le gambe corte, perché immediatamente appare un interrogativo ulteriore: chi non ha delle colpe? Gli innocenti, per esempio, perché dovrebbero soffrire?[4] Sappiamo che nel libro di Giobbe, per esempio, questa protesta è presente: sia Giobbe che i suoi amici venuti a consolarlo, che in verità vanno ad accusarlo, lavorano con un concetto di Dio che dovrebbe privilegiare i buoni e castigare i cattivi. Perché Giobbe, che rivendica di non aver fatto niente di male, è costretto a soffrire? Si potrebbe dire, cosa che gli amici di Giobbe sostengono, che in verità non c’è nessuno nell’umanità che sia totalmente innocente. Tutti siamo, chi più e chi più più, dei peccatori. Ma quand’anche fosse così, la misericordia di Dio dove la collocheremmo? Come potrebbe dire Dio a noi che dobbiamo perdonare quelli che hanno compiuto delle colpe nei nostri confronti e Lui non perdonarci se abbiamo commesso delle colpe e, anziché perdonarci, punirci? Un Dio che punisce come potrebbe insegnare il perdono?
Ci si accorge che questa risposta, che pure può trovare un aggancio nella Bibbia, non tiene a fronte di una riflessione critica.
b) per educarci
Allora può apparire una seconda risposta: Dio ci lascia o ci fa soffrire per educarci. Anche a questo riguardo possiamo riferirci all’esperienza della vita. Quando si vuol far maturare una persona la si mette alla prova, si chiedono delle rinunce, dei sacrifici. Anche questo nella Bibbia si può trovare: per esempio nel libro del Deuteronomio nel capitolo VIII (Dt 8, 2-5[5]) o nella Lettera agli Ebrei al capitolo XII (Eb 12,4-11[6]). Quello che noi stiamo vivendo non è una persecuzione. È, tuttavia, una prova notevole. Fatto salva questa ipotesi, c’è però da domandarsi se siamo sicuri che Dio abbia messo in conto che noi in questa prova non reggiamo. Se noi andassimo a cercare alcune responsabilità relativamente al diffondersi di questo coronavirus, dovremmo riconoscere che ci sono delle colpe che vengono da persone irresponsabili. E potremmo dire, allora, che Dio utilizza l’irresponsabilità di altre persone per provare persone che di per sé non avrebbero colpe? Perché chiede a qualcuno di sottoporsi alla malattia e ad altri no? E poi se questa è una prova, come facciamo ad essere sicuri che noi la prova la supereremo e, quindi, usciremo da questa prova educati? E chi garantisce l’esito? Anche questa seconda risposta non pare essere adeguata.
c) per farci partecipare alla salvezza del mondo
Se ne può trovare allora una terza: Dio ci lascia o ci fa soffrire per renderci partecipi della salvezza del mondo. Nella Lettera ai Colossesi, san Paolo utilizza un’espressione che molte volte, quando si è in situazioni di sofferenza, viene citata: “do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (cfr. Col 1, 24). Ma Paolo non sta parlando di una sofferenza in generale. Sta parlando della sofferenza che gli deriva dalla missione che gli è stata affidata: l’annuncio del Vangelo incontra contrasto. E allora Paolo si sente quasi identificato a Gesù Cristo che, in nome dell’annuncio del Regno di Dio, si è sentito rifiutare e rifiutare in una maniera radicale, fino alla morte. È esito di una missione vissuta con fedeltà e quindi lascia trasparire la fedeltà-amore di Dio. Ma la sofferenza di chi non riesce neppure a scoprire la sua missione?
Ci accorgiamo, così, che anche questa risposta non è adeguata.
Dalle risposte ipotizzate la ragione per la quale Dio ci lascia o ci fa soffrire risulta misteriosa: nessuna di esse sembra tenere di fronte a un’esigenza critica. E questo in alcuni momenti acuisce il problema: magari lo si potesse sapere! Permetterebbe di trovare un senso: il sapere comporta una forma di potere.
Dobbiamo riconoscere che, di fronte alla realtà, abbiamo tendenzialmente un desiderio di dominio. Conoscere le ragioni del processo della realtà ci rende capaci di controllarlo e, quindi, manifesta la nostra potenza.
Il non-sapere ci pone di fronte al limite che si apre sul mistero. E questo può essere la semplice notte o la notte che nasconde ai nostri occhi una realtà più grande.
Noi, in questo momento, siamo di fronte ad una forma di ignoranza, e l’ignoranza ci rimanda alla nostra impotenza. E l’impotenza ci fa percepire la nostra condizione limitata. Noi stiamo vivendo una specie di incognita e questa incognita può essere intesa come un enigma o come un mistero. Che differenza c’è tra enigma e mistero? L’enigma si apre a una possibilità di risoluzione. Il mistero, invece, è sempre una realtà che ci trascende, di fronte alla quale noi siamo posti in condizione di limite. Il nostro desiderio di dominio, che potremmo dire è l’espressione della coscienza umana uscita dalla modernità, qui trova tutto il suo limite. D’altra parte noi non possiamo rinunciare facilmente al nostro desiderio di dominio. Nei confronti dell’esistenza, nonostante la percezione continua del nostro limite, noi siamo tentati di volerla “dominare”: è nostra, ed è giusto che ce ne possiamo occupare!
Il mistero è insopportabile perché ci rimanda al nostro limite, dichiara la nostra povertà. Povertà intellettuale, povertà tecnica. L’accettazione del mistero è riconduzione alla nostra verità. In tal senso, il non-sapere è nello stesso tempo rivelazione della nostra condizione ed educazione a restare in essa.
In ultima analisi non sappiamo perché Dio ci lascia/fa soffrire. E lui non ce l’ha voluto dire: il mistero della sofferenza è una cifra del mistero di Dio.
A fronte della delusione che questa prospettiva può creare, si deve ricordare che la pretesa di dominare tutto è ybris. Ci si deve quindi rassegnare?
4. Di fronte alla sofferenza
Ma, allora, come possiamo porci in questa situazione? Dobbiamo dire che non potremo pensare un atteggiamento che vada bene per tutti. Il cammino per arrivare all’atteggiamento credente è faticoso e oscuro e va sopportato. Si possono ipotizzare alcuni punti di partenza, da tenere in considerazione per giungere all’assunzione di un atteggiamento conforme a quello di Gesù.
Il primo atteggiamento, potremmo dire quello forse più ovvio, che è la tentazione vera, è quello di negare Dio o di perdere la fede. È l’atteggiamento che svela la “priorità” della propria concezione della realtà e/o di Dio rispetto al mistero. Sorge in genere quando non si riesce a capire e si vorrebbe a tutti i costi farlo.
Ricordiamo tutti come Dostoevskij ne I fratelli Karamazov descrive la protesta di Ivan nel suo dialogo con il fratello Alëša: Ivan vuole geometricamente o matematicamente avere una risposta al problema della sofferenza dell’innocente (il bambino che è stato dilaniato dai cani all’età di otto anni). Alla fine della descrizione Dostoevskij dà quale esito della vita di Ivan la pazzia, che coincide con l’accecamento. E cioè la pretesa di rinchiudere tutto dentro schemi geometrici, alla fine non permette di vedere alcunché.
La seconda possibilità è la protesta. La protesta è quella di Giobbe, che nasce dalla necessità di trovare una ragione ma a differenza dell’atteggiamento precedente, mantiene un riferimento all’interlocutore, chiede conto a Dio. I Salmi sono testimonianza di questo atteggiamento: cfr. Sal 74 e 88.
Ma, alla fine, l’atteggiamento che Giobbe assume è quello della resa. Ed è l’atteggiamento ultimo, quello del credente, di chi accetta di non capire e si consegna. Impedisce sia la disperazione, sia la rivolta contro il dolore. È l’atteggiamento di chi accetta la purificazione. L’itinerario di Giobbe è questo: attraverso la sofferenza “ingiusta” è giunto ad aprirsi al mistero. E questo ha voluto dire “purificare” anche la sua concezione di Dio. In tal senso la sua sofferenza è divenuta educazione e luogo di salvezza (della persona che la vive). Questa infatti non consiste nell’assenza di sofferenza, ma nell’incontro con Dio come il fondamento della vita.
Che questo sia possibile lo si coglie dalla vicenda di Gesù: in lui, nella sofferenza fino all’estremo (non si tratta di morte ‘naturale’, ma frutto di violenza nata da un rifiuto radicale), si manifesta la dedizione per la salvezza dell’umanità. E la dedizione è per obbedienza fino alla fine (cfr. Fil 2,6ss). Si deve sottolineare che non è la sofferenza a salvare, bensì la dedizione. Oserei dire: è la dedizione di tutti quegli operatori sanitari che in questi giorni stanno cercando in qualche modo di salvare più vite umane possibili. Questo va tenuto presente, se non si vuole cadere nell’assurdo: se fonte della salvezza fosse la sofferenza, non bisognerebbe eliminarla, ma moltiplicarla.
La resa sarebbe rinuncia all’esigenza della nostra intelligenza? Non sarebbe piuttosto riconduzione alla nostra verità ultima?
La meta alla quale in questa situazione possiamo essere condotti è quella di metterci in silenzio adorante di fronte al mistero. Che è quanto dire metterci di fronte alla nostra eventuale vera scoperta della condizione umana.
[1] Cfr. il dott. Rieux ne La peste di A. Camus (Milano 2013, pp.98-99): “Se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”.
[2] Vedi Genesi 3, 4-19: “Allora Dio disse al serpente: Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.
[3] Geremia 5, 19: “Allora, se diranno: – Perché il Signore nostro Dio ci fa tutte queste cose?, tu risponderai: – Come voi avete abbandonato il Signore e avete servito divinità straniere nel vostro paese, così servirete gli stranieri in un paese non vostro”
[4] Cfr. il dott. Rieux ne La peste di A. Camus (Milano 2013, pp.169): “Io mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati”.
[5] Deuteronomio 8, 2-5: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te”.
[6] Lettera agli Ebrei 8, 4-11: “Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato e avete già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli: Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio. È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Se invece non subite correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete illegittimi, non figli! Del resto noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri terreni e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre celeste, per avere la vita? Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità. Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati”.