Bergson nel penultimo capitolo delle “Due fonti della morale e della religione” riassume le conclusioni sul problema della sopravvivenza umana, e soprattutto il metodo mediante il quale vi perviene.
Sul problema del metodo si contrappone con vigore a Platone. «Con Platone si può stabilire a priori – scrive Bergson – una definizione dell’anima che la consideri non decomponibile perché semplice, incorruttibile in quanto non divisibile, immortale in virtù della sua essenza. Da questa per deduzione si passerà all’idea di una caduta delle anime nel Tempo e poi a quella di un loro ritorno nell’Eternità. Che cosa si può obiettare a chi contesta l’esistenza dell’anima, se l’anima è definita in questi termini? E come potrebbero essere risolti secondo la realtà, o almeno essere impostati in termini di realtà, i problemi relativi a un’anima reale, alla sua reale origine e al suo reale destino, allorquando si specula soltanto su una concezione di spirito che forse è vuota o, tutt’al più, ci si limita a precisare in modo convenzionale il significato della parola «anima» che la società ha inscritto su un ritaglio della realtà per gli usi richiesti dal linguaggio? Anche l’affermazione sulla natura e il destino dell’anima rimane sterile, giacché la definizione era arbitraria. La concezione platonica non ha fatto progredire di un passo la nostra conoscenza dell’anima, nonostante duemila anni di riflessione. Essa si presentava come definitiva, come la nozione di un triangolo e per le stesse ragioni. Come non vedere che ogni problema dell’anima, se ha un’effettiva giustificazione, dovrà sempre essere posto in termini di esperienza e che è in termini di esperienza che potrà essere risolto, sebbene in progresso di tempo e parzialmente?».
Il giudizio di Bergson attesta l’intransigenza severa che egli porta nel rifiuto metodologico di ogni procedimento aprioristico in filosofia. L’autore delle “Due fonti” colpisce nel segno certamente, ma solo per quegli aspetti del platonismo in cui c’è un effettivo ricorso a quel tipo di argomentazione, e dunque una caduta nel dogmatismo e nel gioco verbale. Sono queste le parti caduche del platonismo, ma esse non devono impedirci di vedere quanto vasta, profonda, geniale sia stata l’opera di esplorazione dell’anima umana condotta da Platone.
Si prenda il “Fedone”: ebbene, in esso si intrecciano deduttivismi che non riescono a dimostrare alcunché e riflessioni sorrette da esperienze, che muovono da fatti reali, vissuti in prima persona da Socrate; fatti di cui si coglie appieno il significato metafisico. Tra le argomentazioni puramente verbali, per cui vale la dura critica bergsoniana, è tipica quella (102, B-E) secondo cui l’anima non può accogliere in sé la morte perché ha la vita come suo carattere essenziale, per cui l’anima = Idea di vita = ciò che per sua natura è e dà la vita = immortale = eterna = incorruttibile.
Nello stesso libro, però, l’umanità ha potuto e potrà leggere pagine tra le più alte che siano state mai scritte sia sulla natura e sul destino dell’anima, sia sul rapporto tra spirito e corpo. Si leggano quei passi in cui Socrate cerca di spiegare ai suoi interlocutori la causa, il perché, la ragione per cui si trova in carcere, in attesa di morire, invece di svignarsela, come vorrebbero amici e nemici (97 C-99 D). Così, a partire dalla sua stessa situazione effettuale, egli mostra nel suo concreto manifestarsi la realtà spirituale del suo vero «io», quell’io che decide, appunto, di agire come agisce, costi quello che costi, perché con l’intelligenza ha compreso qual è il suo vero bene e fa di esso il solo criterio per cui vivere e morire.
Non si può spiegare un fatto spirituale come la conversazione che si va svolgendo in carcere tra Socrate e i suoi discepoli-amici, che interrogano il maestro sul destino che di lì a poco gli sarà riservato nell’aldilà, adducendo «cause di questo genere, come la voce, l’aria, l’udito e infinite altre dello stesso tipo», mentre il significato delle cose dette, e ancor più la loro verità, sono cose che appartengono a un altro ordine distinto dalle condizioni fisiche e organiche che rendono possibile il parlare e l’ascoltare.
Allo stesso modo, sarebbe assurdo affermare che Socrate fa tutto ciò che fa, invece di andarsene a Mégara o in Beozia, perché se ne sta seduto su una panca, perché il suo corpo è fatto di ossa e di nervi, perché le ossa sono solide e hanno giunture che le separano le una dalle altre e i nervi sono capaci di distendersi e di allentarsi, e via dicendo. «Chiamare causa cose come queste è troppo fuori luogo. Ora, se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che voglio, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di queste, e che facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta di ciò che è meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza. Questo vuol dire non essere capace di distinguere che una cosa è la vera causa e un’altra è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa. E mi sembra che i più, andando a tastoni come nelle tenebre, usando un nome che non gli conviene, chiamano in questo modo il mezzo, come se fosse la stessa causa».
Si aggiunga poi che, a partire dal “Fedro” e dalla “Repubblica”, Platone delinea una psicologia realistica delle attività dell’anima, irriducibili l’una all’altra e tuttavia chiamate ad armonizzarsi, perché la vita sia «una e bella», non incoerente e dissonante. L’analisi delle potenze dell’anima è condotta sempre in stretta connessione con la domanda: «Come possiamo regolare la nostra vita secondo il bene più grande?». Occorre, infine, ricordare ciò che le schematizzazioni scolastiche, pur così utili sul piano didattico, inducono a dimenticare: il soggetto del “Fedone”, «il discorso di Socrate intorno alla psiche» (Ep. XI – II, 363 E), non è trattato da Platone come se i singoli argomenti in favore dell’immortalità fossero «prove» indipendenti fra loro e aventi tutte lo stesso valore. «Uno studio accurato – osserva Alfred E. Taylor – mostra che essi vogliono essere soltanto una serie di "attacchi" in vista della soluzione del problema, ciascuno richiedente e conducente alla più completa risposta che lo segue» (“Platone l’uomo e l’opera”, La Nuova Italia). In particolare Platone ha cura, introducendo abilmente nella conversazione degli episodi collaterali e delle pause, di portarci verso quelli che sono i punti critici dell’argomentazione.
E le due più notevoli difficoltà che il difensore dell’immortalità dell’anima deve affrontare sono la teoria «epifenomenistica», secondo cui la coscienza è un prodotto derivato e secondario dell’attività dell’organismo corporeo, e la teoria meccanicistica della natura. Per Platone queste teorie stanno alla base di ogni filosofia irreligiosa; ma anche per Bergson esse costituiscono la base speculativa delle moderne negazioni dell’immortalità dell’anima.
Sì che non è affatto azzardato accostare proprio sul tema dell’uomo e del suo destino Platone e Bergson. Il primo combatté la pseudo-metafisica scientista del IV – V secolo a.C.; il secondo quella del XIX e del XX secolo d.C..
Platone e Bergson concordano, infine, nel dimostrare: che la vita mentale non è effetto di cause corporee; che la stessa realtà fisica, il continuo nascere e morire, non è spiegabile in termini puramente meccanicistici.
Giornale di Brescia, 31 maggio 1995.