Don Bosco morì il 31 dicembre del 1888. La “Gazzetta del popolo”, il quotidiano più autorevole della sinistra democratica, che per anni aveva fatto della persona e dell’opera di Don Bosco uno dei bersagli preferiti, si limitò a riportare il nome, il cognome e l’età nell’elenco dei defunti. Il silenzio tradiva imbarazzo, rispetto di fronte alla morte, impossibilità di stendere il bilancio di una così alta personalità usando i soliti parametri dell’insinuazione e dell’insulto. «Bisognerebbe essere ciechi per non vedere ch’egli è stato un uomo superiore, una volontà di ferro, una energia di prim’ordine ed una mente vasta e potente», riconosceva il giornale milanese “L’Italia”. Il “Corriere della Sera” dedicò all’avvenimento un lungo articolo, ricco di notizie biografiche, intercalate da giudizi come questi: «Discordi, lontani anzi, da lui in fatto di opinioni politiche, non possiamo non ammirare l’opera sua […] la mente organizzatrice davvero superiore e sorretta da quella forza di volontà, di volontà, da quella perseveranza, che conduce a compiere le più meravigliose imprese. Don Bosco ebbe fautori anche tra i liberali, perché egli si asteneva dalle polemiche politiche, dalle lotte di partito».
La morte del prete di Valdocco non fu improvvisa, perché il suo fisico era da tempo logorato da un’attività intensissima, multiforme, e il decesso era atteso da un momento all’altro; la notizia suscitò, tuttavia, grande emozione e non solo a Torino e in Italia. Fu ancora un giornale milanese l’ “Osservatore Cattolico”, a dirne sinteticamente la ragione: «Don Bosco! In questo semplice cognome si compendia tutto un apostolato, forse il più grande e meraviglioso del secolo XIX. Tutti sanno quale gigante di carità sia designato da quelle due brevissime parole».
Qual è il nostro giudizio, cent’anni dopo, su quel «gigante di carità»? Qual è, insomma, l’eredità culturale di una vicenda umana cui la Chiesa ha riconosciuto il carisma della santità, ma che pur gravita intorno a un preciso nucleo di idee e di realizzazioni, di valori e di sensibilità capaci a loro volta di tradursi in forza ispiratrice di progetti e di produrre effetti e riscontri ben accertabili? Il «fenomeno Don Bosco» nasce dal suo essere stato – prima e più di ogni altra cosa – educatore dei ragazzi e dei giovani appartenenti ai ceti popolari. Egli fu un genio educativo, degno di stare accanto a Vittorino da Feltre, a Filippo Neri, a Giovanni Enrico Pestalozzi. Non deve ingannare l’essenzialità e il carattere apparentemente elementare dei suoi scritti sull’educazione. Lo hanno compreso molto bene Giovanni Modugno (“Il sistema preventivo di Don Bosco”, La Nuova Italia, Firenze) e Pietro Braido negli scritti che a Don Bosco ha via via dedicato. Don Bosco ha visto, infatti, con estrema lucidità nel Cristianesimo la più alta e integrale forma di educazione del genere umano e nel processo educativo una realtà che esige, a suo naturale fondamento, il senso cristiano di sacralità delle anime e l’esercizio di virtù cristiane. Le coordinate di quel progetto educativo, la sua estensione, l’intrecciarsi in esso di obiettivi polivalenti (quali sono, ad esempio, l’alfabetizzazione e la formazione professionale, l’evangelizzazione di quanti erano condannati ad essere emarginati e il loro pieno inserimento nella produzione industriale); i complessi rapporti di Don Bosco, da una parte con lo Stato, prima piemontese e poi italiano, e dall’altra con il clero e i vescovi di Torino o con il Papa; la straordinaria rapidità con cui la missione salesiana si diffuse in tutto il continente; le iniziative prese nel campo della «cultura popolare» cattolica: ecco alcuni dei temi su cui occorreva che l’indagine facesse luce per situare storicamente un uomo così saldamente ancorato alla realtà, come Giovanni Bosco, e la sua opera, Soltanto ora, a un secolo dalla morte del prete di Valdocco, abbiamo finalmente l’opera, necessariamente a più mani, che fa compiere alla storiografia su Don Bosco quel salto di qualità che si auspicava: “Don Bosco nella storia della cultura popolare”, a cura di Francesco Traniello (SEI, Torino, pp. 392). Il volume non ha assolutamente intenti celebrativi e riunisce contributi molto consistenti, che esplorano aspetti, spesso inediti o mal conosciuti, della società torinese, atteggiamenti mentali e modalità d’intervento dell’instancabile Don Bosco. Il lettore, alla fine del libro, è spontaneamente sollecitato a dare ordine e senso alle cose che già conosceva; soprattutto, può riflettere per proprio conto sui nuovi apporti che gli vengono dall’accertamento documentario.
È facile, persino ovvio, cogliere i limiti di un’opera di divulgazione popolare come la domboschiana “Storia d’Italia raccontata alla gioventù” (che però ebbe tra il 1856 e l’88 una considerevole fortuna editoriale); e, a mio avviso, si può ben rifiutare la maggior parte dei giudizi estetici espressi da Don Bosco senza scalfire per questo la sua grandezza. La santità, infatti, non sempre s’accompagna a competenze elevatissime in altri campi: chi è grande, non lo è certamente in tutto. Don Bosco è un personaggio difficilmente classificabile con il solito cliché della storiografia politica. Egli può ben allinearsi alle direttive di Pio IX nel contestare lo Stato liberale; il fatto è che la frequentazione dei suoi massimi esponenti – da Cavour, a Lanza, a Rattazzi – non è affatto occasionale. Secondo una tarda testimonianza del vescovo Geremia Bonomelli, Don Bosco gli avrebbe detto: «Nel 1848 io mi accorsi che se volevo fare un po’ di bene, dovevo mettere da banda ogni politica. Me ne sono sempre guardato e così ho potuto fare qualche cosa, non ho trovato ostacoli e anzi ho avuto aiuti anche là dove meno me l’aspettavo». Ed è noto che il personaggio politico più largo di aiuti sostanziali a Don Bosco fu Urbano Rattazzi. Quando la capitale fu trasferita a Firenze, Giovanni Lanza e altri coinvolsero Don Bosco nella nomina dei vescovi per le sedi vacanti. Giunta al potere la sinistra liberale, Don Bosco ebbe modo di continuare a tessere forme d’intesa, nonostante critiche e perplessità negli ambienti politici vaticani e nonostante l’opposto orientamento del movimento cattolico intransigente. Il vero punto di vista di Don Bosco sulla presenza del cristiano nella realtà sociale e politica non è, dunque, né temporalista, né guelfo, né cattolico-liberale. Con lui le categorie di giudizio esclusivamente politiche non fanno presa. In un discorso tenuto nel 1879, riportato da Antonio Belasio con il significativo titolo “Non abbiamo paura!”, il santo prete chiariva fino in fondo la sua strategia e la lucida scelta dei mezzi idonei a tradurla in atto. È un passo troppo importante per capire la condotta del prete di Valdocco verso lo Stato e quel programma di compenetrazione tra società civile e Vangelo che caratterizza l’attività dei salesiani. «Già Tertulliano diceva ai pagani: Voi non ci volete perché cristiani e noi vi abbiamo già empito il vostro esercito. Sì, vi abbiamo già empito le vostre curie, traffichiamo con voi nei mercati, ci affratelliamo in tutte le cose. Anche i salesiani diranno: Voi non volete più frati, né religiosi e noi verremo a farci laureare nelle vostre università per difendere il più caro cammino del genere umano, le verità che salvano, e saremo artigiani nelle nostre botteghe, coscritti nei vostri reggimenti». Il brano, altamente rivelatore, si conclude con un appello al dinamismo e a una visione serenamente ottimistica: «I salesiani si sono gettati nel mezzo ad una società in movimento, in progresso; ed essi devono dire con vivace parola: Fratelli, anche noi corriamo con voi! Occorre con amabile affabilità star con loro, quasi a far posata, a divertirli con una cert’aria di novità». Parole mirabili che ci rivelano qual era la «politica» di Don Bosco e qual era il suo cuore.
Non è agevole, dunque, collocare un Don Bosco nelle coordinate, consuete e quasi obbligate, a cui ci ha abituati la storiografia politica in questi decenni e che noi abbiamo interiorizzato a tal punto che ci viene naturale applicarle ad ogni temperie storica, ad ogni situazione e personalità. Gli schemi politeistici, concepiti per coppie di antinomie (autorità-profezia, tradizionalismo-riformismo, intransigentismo-conciliatorismo) sono del tutto inadeguati a rappresentare la complessa vicenda storica di Don Bosco, così come di Piamarta o di Guanella. Don Bosco capì che nella situazione piemontese, prima, e dello Stato postunitario, poi, la religione rischiava di essere mescolata troppo alle amare passioni della politica e non si lasciò imprigionare dagli storici steccati. La linea operativa che caratterizzò l’opera di Don Bosco – e sulla sua scia anche quella del bresciano Piamarta, fondatore dell’Istituto Artigianelli nell’86 – in quasi mezzo secolo di attività, ed in particolare dopo il ’48, fu il dialogo con le istituzioni politico-giuridiche dello Stato liberale, non per tentare soluzioni del conflitto fra Stato e Chiesa, ma per scopi più urgenti ed essenziali. Il prete santo di Valdocco, a cui premeva sempre e in primo luogo «aiutare gli uomini a conquistarsi la vita eterna», aveva compreso che sono le opere concrete con cui i cattolici assumono la reale rappresentanza degl’interessi della povera gente, sono le iniziative riuscite di evidente utilità sociale a fare di essi una forza costitutiva del Paese. Bisogna far parlare i fatti, se si vuol rifondare il cattolicesimo negli animi del popolo ed essere interlocutori credibili per coloro che hanno in mano il governo della cosa pubblica. E su questa linea, da diversi punti di vista, Don Bosco e i suoi successori riuscirono a vincere molte partite con la società e con lo Stato liberale. Seguendo la loro impostazione culturale e pedagogica, i salesiani finirono per svolgere numerose funzioni di supplenza proprio in ampi settori sociali e istituzionali – dall’istruzione popolare all’assistenza sociale, alla formazione professionale, all’accesso ai gradi superiori della cultura dei poveri purché capaci – nei quali lo Stato liberale non si impegnava o conseguiva risultati del tutto insoddisfacenti.
L’originalità organizzativa e strategica della visione salesiana non era, però, legata soltanto alle funzioni di supplenza che l’esercito operoso di Don Bosco andava svolgendo e per le quali lo Stato liberale, proprio in considerazione della sua insufficienza, concedeva ampia libertà d’azione. Essa nasce innanzi tutto dall’intelligenza dei tempi che Don Bosco ebbe in grado eminente e dalla sua vivacissima disposizione al confronto col moderno in campi come il sistema di produzione industriale, le innovazioni scientifiche e tecnologiche, la ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro per la classe operaia. Don Bosco è grande anche perché aveva capito che il ruralismo era un’utopia fuori dalla realtà e che il problema vero era quello di accettare la sfida dei tempi nuovi, impegnandosi con tutte le forze a fare entrare le nuove leve nel processo di produzione industriale, attrezzando i giovani sul piano della competenza professionale e formandoli ad una saldezza morale e religiosa tale da renderli vittoriosi di fronte ai pericoli di dissociazione e di perdita in umanità che la fabbrica recava con sé. Don Bosco ha contribuito a rinnovare nella Chiesa e nella società quella che uno studioso di grande perspicacia come Piero Bairati chiama «l’etica del lavoro produttivo». Fondatore di «una congregazione nuova, nata – son parole di Don Bosco – per incorporarsi col popolo e assimilarsi a lui in una sola vita», la cultura salesiana del lavoro («chi non sa lavorare non è salesiano») non appartiene affatto alla patetica storia del paleocapitalismo e supera da ogni lato la concezione meramente assistenzialistica. Sin dai primi regolamenti della casa, redatti tra il ’52 e il ’54, Don Bosco insiste sul valore auto-formativo del lavoro e sul suo alto significato sociale, essendo esso sempre un modo di servire il prossimo e di contribuire al bene comune. «Adamo era stato posto nel Paradiso terrestre perché lo coltivasse», ammoniva Don Bosco. E nella redazione definitiva del regolamento dei laboratori salesiani, quella del 1877, all’articolo 19 si legge una chiara eco del paolino «chi non lavora non mangi»: «L’uomo è nato pel lavoro e solamente chi lavora con assiduità trova lieve la fatica e potrà imparare l’arte intrapresa per procacciarsi onestamente il lavoro». Don Bosco ha cercato di non rendere dolorosa a intere generazioni di giovani la transizione da una società rurale e paleoartigianale ad una società che ha ritmi e comportamenti radicalmente diversi; ma ha voluto insegnar loro la serietà del lavoro organizzato, ha insistito sulla specializzazione professionale e sulla qualità del prodotto, perché nella società di mercato l’individuo si inserisce e si afferma in ragione della sua capacità personale di produrre beni e servizi. Bisogna tendere – ed è anche questa una lezione del grande piemontese – a far acquisire ai lavoratori il ruolo sociale che essi sono in grado di conquistarsi. Non aveva torto la “Voce dell’operaio” di Torino, che non si era mai occupata di Don Bosco, a scrivere, in occasione della morte: «Don Bosco consacrò al bene della classe operaia la sua grande anima».
L’intuito imprenditoriale di Don Bosco era così forte che gli permise di mettere a frutto rapidamente la lezione dei fatti, sin dall’inizio del decennio cavourriano. Per quanto potesse non condividerla, Don Bosco capì che la politica ecclesiastica liberale era irreversibile e che in quelle condizioni era assolutamente necessario, per la realizzazione dei programmi educativi e sociali, la conquista della massima autonomia economica sia nei confronti della Chiesa che dello Stato- Le sue intuizioni non potevano reggersi su rendite ecclesiastiche ed egli si mise nelle condizioni di non possedere beni che potessero essere considerati come manomorta ecclesiastica. In una società fondata sulla libertà d’impresa, le istituzioni salesiane dovevano essere esse stesse un’impresa privata. E senza l’avvedutezza, il coraggio, il gusto del lavoro ben fatto avrebbe avuto tanta fecondità la sua stessa opera di educatore e di apostolo? L’efficienza, posta al servizio dell’amore di Dio e del prossimo, non è anch’essa una forma di preghiera? E dove mai nel Vangelo viene elogiata l’inettitudine?
Studium, n. 2 – 1988.