Giovanni Gentile nell’opera postuma “Genesi e struttura della società” si adoperò a celebrare, con spericolate acrobazie dialettiche, il mito della «politicità» come categoria capace non solo di investire tutte le altre attività dello spirito umano, ma di dominarle e risolverle in sé. In questo mito confluiscono, o sono fortemente spinti a confluire dalla logica delle idee professate, gli immanentisti e gli storicisti di tutte le estrazioni e, a fortiori, i pedagogisti del servaggio, i teorici del totalitarismo di tutte le specie, nazionalistico, classista, razziale: in esso, per dirla con Hegel, «i nemici stanno abbracciati». In questa tesi, alterato e sviluppato fino all’ipertrofia, c’è un motivo di vero che va messo in luce, c’è un problema reale: il problema dei rapporti che intercorrono tra la politica e le altre attività dello spirito, problema alla soluzione del quale non si può pervenire senza un’esauriente indagine, che sia capace di cogliere i tratti differenziali specifici di quelle attività con cui, appunto, entra in relazione la politica.
Il politicismo assoluto è l’affermazione imperialistica della politica disalveata dal suo corso. Una delle sue più tipiche teorizzazioni fu e rimane il machiavellismo. Si vuole compendiare il pensiero machiavellico nella famosa ed equivoca formula «il fine giustifica i mezzi», ma è indubbia e peculiare di quella concezione la conclamata indifferenza morale degli stessi fini dell’azione politica. «Vincere o per forza o per fraude» è l’obiettivo, l’imperativo della politica per Machiavelli, il solo fine a cui si commisura il valore dei mezzi. Il successo ratifica ogni violenza e ogni crudeltà purché bene usata, legittima ogni crimine e aureola di gloria chiunque, a qualunque prezzo, riesca a strapparne la palma nella lotta politica. Machiavelli è anche disposto ad ammettere che il bene morale, la lealtà, l’umanità si debbano preferire al male, ma sol quando l’utile non vi si opponga o non vi scapiti. L’incomprensione dell’efficacia storica delle forze morali, che pure esistono e operano insieme e in opposizione ad altri più appariscenti fattori, è tale da ispirare al Machiavelli giudizi ingenerosi sui «profeti disarmati», cioè proprio su coloro che sospingono l’umanità ai traguardi più degni, autentici protagonisti del risveglio umano, dai profeti d’Israele e Socrate, dai martiri cristiani a Benedetto da Norcia, da Francesco d’Assisi, guardando ai nostri giorni, a Gandhi, a Luther King. È celebre l’apologia crociana del Machiavelli, fondata sull’attribuzione all’autore del “Principe” del merito di aver scoperto «la necessità e l’autonomia della politica che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male». Ma la politica, come non è di là, così non è di qua dalla morale, non potendosi concepire aspetto o momento della vita umana, in cui si verifichi una carenza o una sospensione della coscienza morale. Se la politica impegna, com’è indubbio, l’intelligenza, la volontà, la riflessione, la ponderazione di fini e di mezzi, impegna necessariamente anche la coscienza morale, la cui funzione e la cui sanzione non hanno luogo solo là dove non sussistono intelligenza e volontà. Il realista non accecato da una visione distorta e ossessiva della «realtà effettuale» non può non constatare che la violazione sistematica e diffusa delle leggi morali comporta sempre un processo di decadenza politica, di disgregazione della civiltà. Ed è certo un’esperienza non contestabile che più del disagio economico, più delle privazioni è la protesta della coscienza morale dinanzi allo spettacolo dell’ingiustizia a scuotere le basi di un regime politico e sociale. È infine opportuno sottolineare che gli stessi fanatici assertori di un politicismo sciolto da ogni remora morale fanno poi leva, se fa loro comodo, proprio sulla rilevante incidenza dei fattori morali nella politica, quando usano lo scandalo come arma politica.
Nessuno è più intransigente custode della pubblica e privata moralità, nessuno ostenta una coscienza morale così delicata e scrupolosa, nessuno è così abile nel discernere la pagliuzza nell’occhio del prossimo come l’avversario politico che deve colpire uomini e idee nel campo nemico. Il che dimostra, da un lato, la parte che hanno in politica i fattori etici, di cui si usa e si abusa, ma dall’altra deve porre in guardia contro un dubbio moralismo, che rientra tra le arti della volpe, di machiavellica memoria.
Il politicismo assoluto – quest’arbitrario monismo, questa compressione di attività, esigenze e fattori diversi nella categoria della politicità – si rivela una diminutio hominis, un impoverimento dell’umano e, proprio per questo, un sintomo preoccupante di degenerazione della politica, allo stesso modo in cui l’estetismo lo è dell’estetica, lo scientismo della scienza, il moralismo della schietta e autentica moralità. Oggi resistere alla politicizzazione totale dell’esistenza significa resistere al totalitarismo, tentazione e destino incombente per coloro che hanno fatto spreco della libertà, rinunciando alla prospettiva umanistica di una progressiva compenetrazione tra politica e vita morale.
Quando la febbre della dittatura e della demagogia sale alle più alte temperature, si tende a subordinare alla politica ogni altro valore ed ogni corrispondente attività. Non si salvano né l’arte, né la scienza, né la filosofia, né la religione. Chi non parteggia, là dove un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene, chi si rifiuta di piegare la coscienza ed il pensiero a strumenti più o meno passivi di contingenti fini politici, è additato al pubblico disprezzo, quando non è fatto oggetto di persecuzione.
Giornale di Brescia, 26 novembre 1975.