L’invito di tornare quest’anno a Brescia per presentare qualche riflessione sul tema del «classico», è stato da me accolto con piacere e con soddisfazione anche perché mi ha indotto a ripensare mie idee, formulate già negli anni passati, mettendole a fuoco con la realtà di oggi, per saggiarne la proponibilità attuale.
Sottoposi a una prima revisione il mio modo di intendere il classico e i classici nel 19881; infatti proprio undici anni fa studenti e professori dell’Università di Stanford in California diedero vita ad un movimento culturale sovvertitore che mise al bando dall’Università tutti i classici occidentali, da Omero a Shakespeare, considerandoli in blocco sessisti, reazionari, repressivi e razzisti, e li sostituì con scrittori rappresentanti del Terzo Mondo, delle minoranze americane, della cultura femminista. Fu un fuoco di paglia, ma lasciò il segno.
Qualche anno prima, in occasione del bimillenario della morte di Virgilio, il nostro Carlo Bo, storico e critico letterario, si era domandato «Possiamo ancora considerarci eredi di Virgilio?»; in altre parole: «Possiamo ancora considerarci eredi dei classici?».
E Bo rispondeva: «Sono mutate le condizioni dell’esistenza; è diverso il significato che noi diamo a questo enorme patrimonio (il patrimonio dei classici): non ci sentiamo più eredi di nessuno, viviamo in un deserto e ciò che fino a ieri era considerato come nutrimento vitale lo cataloghiamo nel libro delle droghe e delle illusioni».
Riflettendo oggi – ma non solo da oggi – su questi problemi penso che a noi tocchi di accogliere la parola dell’antico sapiente poeta: «I sapienti sanno il vento che soffierà di lì a due giorni» (Pindaro, Nem. VII, 18–19).
Noi non siamo sapienti come Pindaro: ma siamo impegnati, come uomini di cultura e di scuola, a capire il nostro tempo, a coglierne i segni, a cercare di antivedere il futuro con la consapevolezza che il futuro non starà nella restaurazione del passato.
Nel breve saggio del 1981 di Italo Calvino (1923–1985), intitolato Perché leggere i classici, tra i quattordici punti che lo scrittore e1encava, e in parte commentava, il sesto suona così: «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».
Siamo d’accordo con Calvino. Ciascuno di noi ha fatto l’esperienza di «classici» ai quali ritorna, leggendoli e rileggendoli. Ma noi ci domandiamo: «Perché un libro è un classico? Che cosa lo fa essere o diventare tale? E perché uno scrittore è un classico? E che cosa significa classico? Classico è forse sinonimo di antico? Quando diciamo i classici pensiamo, o addirittura dobbiamo pensare, agli Antichi, ai Greci e ai Romani?».
Credo sia utile una riflessione su queste domande e su altre analoghe, per cercare di mettere ordine, in questo campo.
Penso che convenga partire dalla considerazione dell’origine della parola: donde viene il termine «classico»?
L’aggettivo latino classicus deriva dal sostantivo classis, in relazione a due dei significati di classis, secondo i quali si può intendere o una parte dei cittadini romani divisi secondo il censo o una flotta da guerra. Quanto al primo significato, secondo la tradizione il re Servio Tullio divise il popolo romano in cinque classi in relazione al censo posseduto dai singoli cittadini; chi non era censito, cioè chi non possedeva beni, si diceva capite census, oppure proletarium. Soltanto i cittadini della prima classe si chiamavano classici: essi si distinguevano da tutti gli altri, che erano detti infra classem. L’estensione di classicus (= cittadino della prima classe) a campi diversi da quello a cui originariamente era riservato dovette essere piuttosto agevole. Cicerone è il primo che lo estende ai filosofi: Democrito gli appare un filosofo della prima classe (= classicus) e filosofi di età ellenistica, come Cleante, Crisippo e altri, confrontati con Democrito, gli sembrano filosofi «della quinta classe». Con Frontone, scrittore del tempo di M. Aurelio, vediamo estendersi il significato del termine classicus; per cui gli scrittori «classici» non soltanto sono superiori agli altri, ma, anche, sono dichiarati meritevoli di essere imitati. Dunque la prima volta che troviamo classicus riferito a scrittori, prosatori o poeti, il vocabolo indica quelli eccellenti e degni di essere imitati: le due notazioni – dell’eccellenza e dell’imitabilità – sono strettamente unite, ormai, e quasi fuse in una sola. Dopo il Medioevo, nel XVI secolo, ricompare classicus riferito agli scrittori greci e latini con il significato di «scrittore eccellente», di «scrittore meritevole di essere imitato». L’Umanesimo e il Rinascimento estendono il significato del termine sino ad includere il confronto degli scrittori greci e latini con scrittori di altre letterature. Ma oggi, se vogliamo conservare la categoria del «classico», la applicheremo a tutte le letterature, non solo alla greca e alla latina; tuttavia da tale categoria del «classico» escludiamo la nota dell’imitabilità, del «classico» come modello.
Ancora una riflessione. Noi ci domandiamo in base a quali considerazioni gli antichi giudicavano che uno scrittore meritasse di essere definito classico: non erano valutazioni di contenuto, ma di forma: erano l’eccellenza formale, cioè l’equilibrio e il nitore dello stile, l’eleganza del dettato, la purezza dell’eloquio e così via, che potevano fare qualificare uno scrittore come «classico». I caratteri di quella che oggi siamo soliti chiamare «letterarietà», l’eccellenza formale, qualificavano i classici.
Qui entriamo nel vivo delle nostre riflessioni e ci domandiamo se tali criteri valgano anche per noi, per individuare i classici. La nostra risposta è, naturalmente, negativa: essa si appoggia anche alle conclusioni sul problema del classico elaborate da alcuni grandi studiosi e critici letterari di questi ultimi due secoli.
Partiamo dal discorso del 1944 di Thomas Stearns Eliot dal titolo: «Che cos’è un classico?».
Eliot, poeta e saggista anglo–americano (1888–1965), studiò letteratura e filosofia ad Harvard. Nella sua poesia è presente l’influsso dei poeti metafisici inglesi del secolo XVII, dei simbolisti e dell’americano Ezra Pound, di cui fu grande amico. Notissimo è il suo poemetto La terra desolata (1922); si professava classico in letteratura e anglocattolico in religione: tutti abbiamo presente il suo dramma Assassinio nella Cattedrale (Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, per affermare i diritti di Dio davanti al potere statale, cade vittima di quattro sicari mandati dal re Enrico II ad ucciderlo: il fatto, storico, accadde nel 1170).
Il saggio «Che cos’è un classico?» presenta un ritratto del classico che poggia su valutazioni ideali e su esigenze storiografiche: vuole fondare «la norma ideale classica» e, nello stesso tempo, tenere conto dell’influenza delle vicende storiche sui fatti letterari. Egli sostiene che il classico definisce «una data specie di arte», non implicante superiorità su altre «specie di arte». Cinque sono i caratteri propri del classico secondo l’Eliot: i primi tre riguardano l’epoca in cui il classico vive e opera, gli ultimi due riguardano specificamente l’opera dello scrittore classico. I primi tre sono: la maturità di mente e di costumi; la maturità della lingua; la perfezione dello stile comune; il quarto e il quinto sono: la comprensività e l’universalità. Essi non possono venire fissati senza un’attenta valutazione delle ragioni della storia (dell’evoluzione storica del paese al quale il classico appartiene), anzi, sono di tale natura che esigono, perché in una data letteratura possa comparire un autore classico, che quella letteratura abbia raggiunto un determinato grado di sviluppo.
Ci si può agevolmente rendere conto del modo di procedere dell’Eliot nelle sue analisi leggendo quanto scrive circa la maturità di mente e di costumi di Virgilio: «… Ho sempre pensato che l’incontro di Enea con l’ombra di Didone, nel libro VI (dell’Eneide), sia non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia. È un episodio parco nell’espressione quanto ricco di significato; oltre a descrivere l’atteggiamento di Didone, illumina sull’atteggiamento di Enea, che è ancora più importante. Il comportamento di Didone appare quasi una proiezione della coscienza di Enea; questo, noi sentiamo, è il modo in cui la coscienza di Enea si aspetta che Didone si comporti verso di lui. Il punto, direi, non è che Didone non perdona (benché sia importante che invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo – ed è forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia), la cosa più importante è che Enea non perdona a se stesso, sebbene, ed è significativo, si renda ben conto che tutto quanto ha fatto è stato per obbedire al fato o in seguito a macchinazioni di lei che a loro volta non sono – lo sappiamo – se non strumenti di un più grande e imperscrutabile potere. Ho scelto questo brano quale esempio di maniere civili e qui, appunto, esso è venuto a testimoniare una sensibilità e una coscienza, ma tutti i punti di vista, da cui si può considerare un singolo episodio dell’Eneide, convengono all’opera intera».
Con questi presupposti teorici «Virgilio si conquista la centralità del classico supremo», sia per l’epoca in cui visse (le ragioni della storia) sia per i caratteri specifici della sua opera: la comprensività – tutti gli aspetti propri dell’uomo e della sua vita affettiva e spirituale sono presenti – e l’universalità – Virgilio è poeta che sa parlare a tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi e di tutte le civiltà.
Come si vede, i valori formali, sui quali essenzialmente gli Antichi si basavano per selezionare i classici, con l’Eliot non sono cancellati, ma vengono affiancati ad altri, la comprensività e l’universalità, che riguardano la sostanza dell’opera.
Nella medesima prospettiva dell’Eliot si era posto, già nel 1850, il critico letterario e romanziere francese Charles–Augustin de Sainte–Beuve; vissuto dal 1804 al 1869, esercitò un’influenza vastissima sulla cultura europea con i molti volumi dei suoi Portraits littéraires e, soprattutto, con le sue Causeries du lundi. Il suo capolavoro è l’Histoire de Port–Royal, storia del movimento giansenistico francese nel quadro della società dell’epoca. Per la sua critica storico–psicologica riteneva necessario esplorare il più a fondo possibile la personalità degli scrittori per poterne intendere le opere, ma era anche romanticamente convinto che l’individualità dello scrittore come attività creatrice sia insostituibile. Il suo «romanticismo» non gli vietò di «ricuperare» i classici e il suo saggio sul classico, di chiara ispirazione romantica, si apre tuttavia, in una prospettiva storicistica, sulla comprensione anche del «classico».
Ciò che caratterizza la posizione saintebeuviana è l’allargamento dell’idea dello scrittore classico sino a comprendervi, oltre ai valori propriamente formali od estetici, anche quelli spirituali: classico, per il Sainte Beuve è «un autore che ha arricchito lo spirito umano, che ne ha realmente accresciuto il patrimonio, che gli ha fatto fare un passo avanti, che ha scoperto qualche verità etica non equivoca, o percepito qualche passione eterna nel cuore dell’uomo dove tutto sembra conosciuto ed esplorato; che ha reso il suo pensiero, la sua osservazione o la sua invenzione sotto una forma, non importa quale, ma larga e grande, fine e sensata, sana e bella in sé, che ha parlato a tutti in uno stile suo e nello stesso tempo universale, in uno stile nuovo senza neologismi, nuovo e antico, facilmente contemporaneo a tutte le età».
Come si vede, il Sainte–Beuve parte dalle polemiche del suo tempo fra classici e romantici, ma vuole «allargare» il concetto di «classico» proprio dei fautori del classicismo, sia in senso spaziale – sino ad ammettere che tutte le letterature hanno scrittori «classici» – sia nel senso propriamente concettuale, non attenendosi alla «teoria classica rigorosa», la quale individuava i caratteri del «classico» nella «regolarità», nella «saggezza», nella «moderazione», nella «ragione» (sono, in sostanza i principi del classicismo o neoclassicismo winkelmanniano, con in più, certamente, un pizzico di cartesianesimo), ma ampliando il significato del termine, ben oltre l’esaltazione delle qualità formali del «classico».
In questa nostra rassegna delle idee sul classico mette conto di prendere in considerazione anche la prospettiva di Augusto Rostagni (1892 – 1961), filologo classico e studioso di pensiero antico, professore nell’Università di Torino. Formatosi alla scuola dello storico del mondo antico Gaetano De Sanctis, nei suoi studi pionieristici sull’estetica degli Antichi tenne fermo, pur nella suggestione dell’estetica di Benedetto Croce, l’ancoraggio alla storia. Storico delle letterature greca e latina e delle tradizioni biografiche degli Antichi, ha lasciato una Storia della letteratura latina (1949 – 1952), ora in tre volumi. Esercitò un duraturo influsso sugli studi filologici in Italia attraverso la direzione della «Rivista di Filologia e Istruzione classica», che tenne dal 1923 (dapprima con il De Sanctis) fino alla morte e con la creazione di una scuola nella quale si formarono molti docenti universitari, come lui convinti che per lo studio delle letterature antiche si debbano applicare gli stessi criteri che valgono per le letterature moderne.
Il breve saggio del Rostagni, intitolato «Che cosa è un classico», del 1953, si incentra sulla (per la verità rischiosa) convinzione che possa riconoscersi progresso anche in poesia, nel senso che «in corrispondenza con il crescere della spiritualità è cresciuta e cresce anche la capacità espressiva dell’arte». Perciò le letterature di Grecia e di Roma vengono poste sulla stessa linea delle letterature moderne: perdono ogni carattere di esemplarità, viene rifiutato ogni riferimento a «modelli», alla teoria dell’imitazione, ecc. I classici antichi non sono più modelli da imitare, ma operano tuttavia ancor oggi come stimoli: come maestri di chiarezza, di plastica oggettività. Qui siamo in presenza di una certa contraddittorietà, o almeno complessità, di motivi. Da una parte il Rostagni afferma che il «classico» è «un ideale in movimento» nel senso che approfondendosi, con lo scorrere del tempo e l’accumularsi delle esperienze, la spiritualità dell’uomo, la conoscenza e il dominio dell’uomo stesso sulla sua coscienza si estende e, quindi, le possibilità concesse all’arte, il terreno su cui essa si esercita, si allargano continuamente; dall’altra si individuano, del classico, alcuni caratteri (la chiarezza, la plastica oggettività) che furono già propri dei Greci e che costituiscono in ogni tempo «il suggello della classicità». La difficoltà consiste nel mettere d’accordo questi due aspetti, che veramente sembrano riguardare l’uno i contenuti l’altro la forma.
Vediamo ora che cosa pensa del «classico» il poeta e saggista Mario Luzi. Nato a Firenze nel 1914 – ma forte in lui è l’attaccamento a Siena, dove ha trascorso l’adolescenza –, fin dalla giovinezza fece parte del gruppo degli «ermetici» e collaborò alle riviste «Frontespizio», «Letteratura» e «Campo di Marte». Il suo primo libro di versi, La barca, è del 1935; nel 1940 il suo Avvento notturno, anche arduo per immaginazione e linguaggio, fu accolto con largo consenso. Da allora il suo discorso sulla poesia e la ricerca in atto non hanno più avuto tregua. Luzi è presente al dibattito culturale con sue nuove opere e con interventi critici e saggistici, sviluppando tuttavia più un suo processo di chiarificazione e un suo personale rapporto con il tempo che le tesi di una corrente. Un’udienza sempre più larga in Italia e fuori d’Italia è stata riservata alle sue drammatiche interpretazioni del presente. Luzi è uno dei maggiori scrittori italiani del nostro tempo e dei più ascoltati: immagini vivide, classica limpidità di linguaggio, un’alta e aspra aderenza alla vita ne caratterizzano la poesia.
Riflettendo una prima volta (1968) sulla presenza e sull’influsso dei classici sulla poesia moderna, il Luzi moveva dalla constatazione del nostro tempo «un tempo non omogeneo, per il quale è saltata la continuità delle tradizioni» – per valutare la ridotta funzione degli scrittori classici nel mondo d’oggi. «I classici – scriveva – non costituiscono più una tradizione oggettiva con cui confrontarsi»; le loro invenzioni mantengono, per lo scrittore moderno, «grande potere simbolico» (a questo proposito egli recava l’esempio decisivo dell’Ulysses di Joyce), ma i classici sono «privati del loro trono di maestri e autori».
Riprendendo quasi vent’anni dopo (1985) la riflessione sui classici, il Luzi (si badi però che egli non si interroga sul «classico» ma sui classici) osserva in primo luogo che oggi il mito della classicità risulta infranto, trovandoci noi, rappresentanti di una «cultura caotica», in una situazione di «mobilità illimitata» (così si esprime Luzi), della quale elemento caratterizzante è «l’elettività, cioè il giudizio e la scelta delle generazioni e dei singoli, la consensualità o la devozione dei lettori». Per cui ci appare chiaro che, secondo il Luzi, ogni epoca, esplicitamente o impercettibilmente, rende classici alcuni testi, li autorizza ad assumere significati e forme esemplari, e ne lascia perdere altri.
Non c’è più luogo, come si vede, per i canoni fissati dall’antichità per il «classico» (chiarezza, ordine, equilibrio, plastica oggettività, ecc.). Ora, secondo il Luzi, accettiamo anche «i classici dell’angoscia e del turbamento, gli inquieti». Proprio a questo proposito egli include Seneca tra i classici: «Seneca non è puro come altri più raccomandati scrittori: ma la sua impurità è divenuta classica e la sua auctoritas non è declinata». Per noi sono classici, nelle nostre scelte, gli scrittori che hanno novità e forza di rappresentazione, che «non esauriscono con questi pregi incorruttibili il loro potenziale di autori. Infatti non cessano di emettere il loro messaggio etico e di farlo ascoltare». Qui si individua il nucleo generatore del pensiero luziano sui classici: come egli dice della lirica di Orazio, nello scrittore classico si attua ed elabora una strenua elargizione di chiarezza che è allo stesso tempo una richiesta di consapevolezza e di coraggio.
Lo stretto, decisivo, rapporto tra la scrittura e la vita connota il classico, il cui criterio individuante sta piuttosto in qualcosa di più elementare e primario, di più fondamentale, che qualsiasi messaggio ideale e formale enunciato: e credo si possa ravvisare in una relazione imponderabile tra vita e scrittura, tra lettera e spirito.
In questa permanenza del principio cardine dell’ermetismo – la letteratura come vita –, caro a Carlo Bo come a Mario Luzi, sta la specificità della visione luziana dei classici, illuminata da questa esplicita valorizzazione dell’eticità. Sola resta in piedi, valida ed operante, ad individuare lo scrittore classico, l’equazione vita / scrittura con la sua proposta di valori etici.
Possiamo tentare di tirare le fila, dopo questa rapida esplorazione in territorio moderno, per ciò che riguarda il nostro rapporto con i classici (greci e latini, prima di tutto) e, più in generale con il problema del classico.
Non accettiamo più i canoni specifici elaborati già nel mondo antico per riconoscere il classico: cioè la divisione rigida degli scritti secondo il criterio dei generi letterari, la sistemazione, all’interno di ciascun genere, degli scrittori in ordine gerarchico, l’introduzione di regole formali rigorose specifiche per ciascun genere, il carattere del «classico» come modello da imitare. Oggi, per individuare i classici, procediamo ricercando, negli scrittori, la presenza dei valori etici che qualificano la loro visione della vita, la relazione «imponderabile» – come la definisce il Luzi – tra vita e scrittura, anzi l’equazione vita / scrittura. Oggi l’intero sistema della letteratura viene messo in discussione, l’idea stessa di letteratura e di storia letteraria va riconsiderata.
Se siamo convinti della validità della nuova impostazione del problema del classico qui sommariamente delineata, dobbiamo accettarne la prima conseguenza, vale a dire che tutte le letterature hanno i loro classici (i classici non sono più appannaggio esclusivo delle letterature antiche). Dobbiamo accettarne anche la seconda conseguenza: nella scrittura non si cercano più soltanto i valori della letterarietà, ma anche quelli che qualificano una visione della vita in tutti i suoi aspetti. Così il classico non è più rinchiuso nella pura letterarietà, bensì è, per noi, prima di tutto documento (documento scritto) di una determinata civiltà. Le definizioni correnti di letteratura non ci soddisfano perché i territori che esse delineano sono, bene o male, ancora racchiusi nella prospettiva romantico–desanctisiana che intendeva la letteratura – e la sua storia –, sia pure nel quadro della nazione, come un valore in sé, che in sé ha la sua giustificazione.
È giunto il momento di passare, anche nella pratica scolastica, dalla letteratura / storia della letteratura alla civiltà letteraria / storia della civiltà letteraria, così come nel secolo scorso si passò, con gli ordinamenti della legge Casati del 1859 – e parve, allora, audacia – dall’Eloquenza e dalle cattedre di Eloquenza alla Letteratura e alle cattedre di Letteratura, secondo la previsione di quindici anni addietro – 1844 – di Paolo Emiliani Giudici nella sua Storia delle belle lettere in Italia (Firenze 1844, p. 9): «Le Università italiane non rimarranno lungo tempo prive di cattedre di storia letteraria e di estetica».
Il passaggio dall’Eloquenza alla Letteratura fu sorretto, nel secolo scorso, e motivato, dal movimento del pensiero romantico che aveva scoperto e valorizzato l’elemento nazionale, il Volksgeist, lo «spirito del popolo», nel periodo della formazione degli stati nazionali, dei vari risorgimenti, in un quadro culturale esclusivamente europeo, nel quale l’Europa appariva come centro del mondo e si presentava come modello politico e culturale per tutto il mondo.
Oggi invece, cessata ormai da tempo questa funzione dell’Europa, esaurite le spinte romantiche, la tendenza di tutti gli uomini si orienta verso la formazione, non senza contrasti, non senza spinte retrograde, verso la formazione di unità soprannazionali, capaci di raccogliere, in prospettiva, tutti gli uomini di tutti i continenti. Il cammino verso questa unità – un movimento di tendenza, la cui meta non sappiamo quando sarà raggiunta ma che non è da considerare semplicemente come un’utopia – mette in evidenza le singole civiltà. Appunto perché le civiltà si realizzano, si manifestano, lasciano un segno di sé anche attraverso gli scritti, lo studio unitario e globale di tutti gli scritti elaborati all’interno di ciascuna civiltà è non solo legittimo, ma necessario sia per arrivare ad una comprensione più ampia e approfondita delle singole civiltà sia per contribuire ad individuare gli apporti specifici di ciascuna civiltà a questo movimento soprannazionale che impegna, in prospettiva, tutti gli uomini.
In quest’ordine di idee, la concezione stessa, europea, del classico viene a perdere la sua incidenza. Non si tratta più di attardarsi a stabilire chi sia e chi non sia classico tra gli scrittori delle singole letterature europee, ma di individuare quali contributi possano offrire, i nostri scrittori, alla costruzione di quella civiltà mondiale (planetaria) verso la quale siamo in cammino. L’elemento preponderante nella valutazione dello scrittore si sposta dalla sua «letterarietà» alla qualità e alla validità dei suoi apporti di pensiero, di sensibilità, di capacità di penetrare a fondo nel cuore dell’uomo. Secondo questa dimensione e con questi obiettivi la partita si gioca ormai su un terreno diverso da quello del passato e il problema della definizione del classico possiamo dire – un po’ provocatoriamente – che si vanifica.
Che cosa fare, allora?
Penso che il nostro sforzo costruttivo di riflessione critica e storica debba muovere nella direzione di distinguere, negli scrittori, quale che sia la civiltà a cui appartengono e quali che siano la loro epoca e la lingua in cui si esprimono, ciò che, essendo segno dei limiti dei tempi e delle mentalità specifiche dei tempi, deve lasciarsi cadere, da ciò che toccando l’essenza stessa dell’uomo ha validità non legata alle contingenze e può contribuire alla costruzione di un uomo nuovo.
1 In Considerazioni sul «classico», Torino 1988 (e successive ristampe). Il libro è attualmente esaurito.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 3.12.1999 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.