A – NELLA LIBRERIA DELLA CCDC di corso Magenta a Brescia
Nel restaurato saloncino del Carmine ho visto l’anno scorso una mostra singolare: una dozzina di opere d’arte “classiche” viste con. l’occhio del pittore moderno. Un affresco, per esempio, di Foppa, rivisitato e dipinto ex novo da Adriano Grasso Caprioli.
Queste riletture sono un canale importante per capire una opera, forse assai più di una visitazione puramente letteraria: l’occhio del pittore ci aiuta a vedere particolari che ci erano sfuggiti, e nello stesso tempo ci lascia aperta la possibilità di vedere per conto nostro aspetti che il nostro accompagnatore non aveva apprezzato o aveva ritenuto di non valorizzare.
Qui, oggi? ci si presenta un buon samaritano in panni moderni, vestito cioè -come del resto quello della parabola- da imprenditore, preoccupato dei propri affari e nello stesso tempo apertissimo agli affari, ai problemi del prossimo.
Il samaritano di via Lamarmora è un tecnico capace, operoso, attento ai problemi della propria azienda (che è poi l’azienda della città) e della propria professione, ma nello stesso tempo capace di non deludere sul piano umano chi lo incontra, chi gli domanda un passaggio, pronto a dare una mano a chi gliela chiede, e anche a chi pur non chiedendola dimostra di averne bisogno.
Questa è la lettura del volumetto secondo quanto risulta da gran parte delle recensioni, pubblicate o anche soltanto contenute in un ricchissimo epistolario giunto all’autore dopo la prima edizione.
Ahimè, caro Luciano, se questa è la lettura prevalente, vuol dire che non sei stato abbastanza chiaro. Personalmente, non voglio vedere qua dentro un buon samaritano in giacca e cravatta.
Il problema non è assistenziale ma esistenziale, il problema -cercherò di dirlo più completamente stasera- non è dell’attimo fuggente ma dell’attimo che si ferma per diventare eterno, non è della morte ma dell’immortalità, non è dell’oggi ma del dopo. Ma il riferimento al buon samaritano è sbagliato per un’altra ragione.
Il malcapitato della parabola “incappò nei ladroni”: possono considerarsi tali i tumori, il cancro? Il libro di Silveri lungi dall’enunciare arzigogolate teorie esemplifica concretamente la nota massima pascaliana: la malattia è lo stato di grazia del cristiano: non certo come ricerca masochista, ma come capacità di accettare comunque la strada sulla quale siamo posti (che è poi la filosofia di Silveri anche nel servizio pubblico; o meglio il principio mutuato da S.Paolo: omne datum optimun…, così che non c’è nulla da rifiutare, ma tutto può essere valorizzato, anche il paolino “angelo della carne” che ti percuote ogni giorno, in te stesso o nei tuoi affetti familiari).
E ancora: i ladroni scapparono lasciando il malcapitato mezzo morto (o mezzo vivo secondo il testo latino!); mentre qui non è il cancro che se ne va, ma la vita.
E potremmo continuare con le note di contrasto: per concludere che sarebbe un errore, o comunque una distorsione, rispetto all’obbiettivo del libro esaltare l’autore ed enfatizzarne il merito quasi per farsi un alibi rispetto al tema di fondo che si vuol rimuovere.
B – ALLA PACE
Non parlerò qui del libro (ci sono già l’autore e l’editore) ma del modo di leggerlo.
Come si legge un libro?
Ci sono molti modi: c’è chi comincia dalle ultime pagine per vedere come va a finire; c’è chi apre a caso cercando di individuare l’eroe, il personaggio centrale, o le pagine più stimolanti; c’è chi legge coscienziosamente dalla prima all’ultima riga, e chi si propone di esaurire la lettura in un paio d’ore, magari saltando le pagine di volta in volta più noiose; c’è chi legge armato di matita per sottolineare i punti da ricordare…… potremmo continuare l’analisi dei lettori e magari classificarli statisticamente. Non credo di forzare alcuna statistica dicendo che le uniche pagine che si saltano regolarmente sono quelle delle prefazioni, delle presentazioni, delle introduzioni: presentare un libro infatti, è un po’ come dare una patente di analfabetismo all’autore che non sa farsi capire o ai lettori che non sanno leggere per conto loro.
Meglio quindi limitarsi, più modestamente, a trarre spunto dalla lettura per riflessioni che alla fine risulteranno forse del tutto autonome, ponendo il libro non come causa, ma come occasione, per esempio per riflettere su un problema che se non è politico investe pur sempre tutti i cittadini, e con essi la città: perché qui, oltretutto, devo giustificare una stonatura del libro, che si volle far presentare dal sindaco, come se l’amministratore e più generalmente il politico avesse titolo per parlare di tutto.
E a questo proposito ed anzitutto: c’è -nella vita- uno spazio non dominato dalla politica, ci sono problemi “non politici”, o sono fondate quelle concezioni totalizzanti per le quali lo Stato, e comunque la politica è in debito di una risposta a tutti gli interrogativi?
E se mai, da cosa nasce il disamore per la politica? Per chi vede la politica non come scienza o arte del vivere insieme, ma come il fatto stesso di vivere, per chi identifica la politica con la vita, esaurisce cioè la vita nella politica, ogni pur piccola risposta è motivo di frustrazione globale.
Forse tra i fattori di un certo rilievo non si deve dimenticare il problema del tempo, – l’arco della giornata, l’arco della vita umana, o di una generazione – ed il peso che ciascuno di noi vi riconnette.
La politica ha tempi troppo lunghi rispetto alla quotidianità, e troppi brevi rispetto ai grandi principi.
Essa sembra voler trascendere le esigenze quotidiane per lasciarne la cura all’amministratore quando non addirittura al privato, ma nello stesso tempo non riesce a superare il tempo per toccare ciò che il tempo non tocca.
Pur illusa di costruire qualcosa – un monumento, una legge “aere perennius” – non ne avverte la vanità di fronte al problema del “dopo” che si sforza di rimuovere.
Sotto questo profilo, simbolo eccelso della politica è stato alcuni anni fa un Presidente della Repubblica, sorpreso dal fotografo malizioso mentre faceva napoletani segni di scongiuro: la morbosa paura della morte, del dolore, del danno “temporale” può indurre a fuggire dalla scienza e dalla ragione per rifugiarsi nell’irrazionalità, nello scongiuro e magari nella magia.
Ma perché paura della morte? Cos’è la morte? Ricordo un, incontro singolare all’indomani della liberazione con Italo Nicoletto, che rientrava a Brescia da Torino dove era stato comandante della piazza, e ricordo che proprio mentre si rievocavano gli episodi della resistenza e si discuteva di grandi temi politici, gli posi il problema della morte: – che ne è dei vostri morti?
– sono morti per una grande causa, e noi li ricordiamo e saranno sempre ricordati per questo.
– può darsi che essi abbiano pregustato questo onore, anche se è più probabile che non ci tenessero. Ma oggi, comunque, che ne è di loro? e domani?
Certo, la morte non è un problema politico, se non perché la si deve rimuovere: i cimiteri devono essere al margine della città, e non più al centro, come quando i morti si seppellivano in chiesa o in pubblici giardini. Anzi, i morti occupano troppo posto, ed è meglio cremarli; come i funerali occupano troppo tempo, e conviene ridimensionarli.
A maggior ragione, non è un problema politico il “dopo”: quanto dura la memoria, nelle famiglie, nelle città?
Il Vangelo comincia con un albero genealogico, e le genealogie nell’antichità erano tramandate oralmente. oggi, pochissimi bambini arrivano a conoscere la terza generazione che li ha preceduti.
Anche la memoria dei “grandi” non dura a lungo: la storia non è più scritta da un monocentrico Tolomeo ma viene compilata su una mappa ormai grande come il mondo, e risale nel tempo per decine di migliaia, per milioni di anni: nel museo delle cere, lo spazio è poco, ed il turn over sempre più accelerato.
Forse, è un problema politico l’agonia, ma ancora una volta per rimuoverla con il diritto all’eutanasia, o quanto meno alla bugia pietosa.
Per quest’ansia di rimozione, quali sono le reazioni più diffuse di fronte al morire di un grande della terra o di un amico?
Come per la quercia pascoliana, se ne scoprono le virtù, se ne celebra la memoria, cercando magari di istituzionalizzarla con qualche fondazione (p. es., per la lotta contro i tumori, magari circoscritta a qualche organo: la faringe, i polmoni, il cervello…) o con qualche monumento; se i figli sono poveri, può anche capitare – ma non è frequente – che qualcuno si occupi di loro; se il morto era ricco di beni o di potere, può anche capitare – ma non è frequente – che non si litighi sulle sue spoglie.
Se l’agonia è stata penosa si pensa a come combattere quel male.
Ma questo è il “dopo” per noi che restiamo: c’è un “dopo” anche per loro? Un’eredità di gloria, o un generoso lascito di conquiste (scientifiche, artistiche, politiche) rappresentano un “dopo” per loro, o soltanto per chi resta?
Ecco il tema della morte, e nessuno ne parla, nessuno ne vuol parlare. Ma è un tema esistenziale; per questo, io credo, le reazioni più intense a questo volumetto nella prima edizione bruciata in poche settimane più che dall’ambiente religioso vengono da uomini immersi in una quotidianità che quando non nega concettualmente esclude di fatto ogni considerazione religiosa.
Perché la morte è una porta sul dopo, e tenerla affannosamente chiusa non serve: c’è sempre qualcosa o qualcuno che si incarica di socchiuderla, magari nel momento più inopportuno; c’è sempre, direbbe Muriac, un Dio in agguato.
Per la copertina di un libriccino di preghiere e pensieri di vita cristiana, un architetto usci con quattro disegni che volevano raffigurare i novissimi: la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso. Professionalmente portato a schematizzare tutto in termini radicali, a questo riconduceva la razionalità della vita religiosa. Anche Silveri è un tecnico, portato a razionalizzare tutto, a cercare la radice e il fondamento delle cose per trarne una linea di comportamento.
Forse, proprio per questo, il suo volumetto, la sua esperienza vogliono farci vedere che ciò che si deve rimuovere non è la morte, ma la paura della morte. Perché se alla radice di tutto c’è la vita e più profondamente ancora, c’è l’amore che genera la vita, la geometria diventa incomprensibile quando la linea della vita si spezza, quando quella carica di infinito che è in noi e che ci porta a goder la montagna, l’amicizia, il progresso, ad un certo momento si affloscia e si spegne,- quando insomma all’oggi non segue un dopo.
Ma proprio perché la geometria non perde la sua verità quando è incomprensibile, non avrei messo in copertina i ceri dei novissimi, e per una prossima edizione rilancio qui all’editore la proposta dell’ultima fotografia di silvano Cinelli sul sentiero delle tre Valli bresciane, o di qualche altra salita in montagna, dove si vedono i giovani alpinisti punteggiare una linea che s’arresta contro il cielo.
Giovani alpinisti: perché questi cammini di liberazione non sono soltanto storie di giovani in senso biografico, cioè di altrettanti protagonisti: qui, anzi, protagonista è la montagna, è quel dopo di cui non si parla, ma che matura in ciascuno dei profili, e – perché no – in ciascuno dei lettori.
Mentre farebbe torto a Silveri chi vi leggesse una sorta di autobiografia da buon samaritano.
Ma sono storie di giovani perché ai giovani si rivolgono con il linguaggio, con la mentalità, con il modo di crescere e di esprimersi dei giovani: così che se di autobiografia si vuol parlare, si deve riconoscere che Silveri si è limitato a “registrarle”, da testimone imparziale, oggettivo, senza preoccupazioni letterarie. Di suo, emerge l’impegno socratico non di rompere, ma di secondare il rompersi di quel guscio di impermeabilità nel quale ci chiudiamo – prima ancora che agli altri – alla vita ed alla sua bellezza.
Ho sentito molti lettori di questo libro, e per rispettare l’amore agli schemi, li posso dividere in tre categorie: buone persone ammirate per l’aspetto assistenziale del problema; cristiani di poca fede che non lo darebbero in lettura ai giovani e ai malati, per paura della loro paura; sedicenti atei che vi hanno scoperto un’uscita di sicurezza, un cammino, appunto, di liberazione.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, delle relazioni tenute a Brescia il 6.11.1981 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura alla libreria CCDC e alla Pace.