Agostino e Jaspers

Autori: Sciuto Italo

Introduzione: la “grandezza” di Agostino

Benché lontanissimi cronologicamente, Agostino e Jaspers vivono una stretta vicinanza nel tempo qualitativo e, specialmente, nella percezione di una crisi, di un grave disagio che investe la civiltà cui entrambi appartengono, in due momenti decisivi della sua evoluzione. Pur incomparabili per evidenti motivi che le differenziano profondamente, le due epoche sono vicine per il modo con cui sono percepite dai rispettivi protagonisti: come epoca di “angoscia” quella di Agostino, come epoca di “paura”, di “rischio” e di “insicurezza” la nostra. Ma, soprattutto, sono entrambe segnate dall’idea di colpa: in Agostino per gli effetti del peccato originale, in Jaspers per la devastazione del nazismo e per la nuova scena che si apre con l’uso della “bomba”, cioè per il pericolo nucleare e, più estesamente, per i problemi creati dal potere della tecnica.

Jaspers, tuttavia, sente la vicinanza di Agostino anche a prescindere da questa comune condizione di crisi: lo sente vicino perché lo considera un pensatore classico, fondamentale, perciò sempre attuale per molti temi cruciali affrontati per la prima volta o rivisti nel modo più profondo. Si tratta di temi che riguardano essenzialmente l’uomo: il rapporto ragione-fede, l’analisi del tempo, della memoria, della libertà, dell’amore e della storia; in breve, si tratta del modo di concepire la filosofia. Entrambi pensano infatti la filosofia non come attività meramente razionale e tanto meno come attività istituzionale, ma come chiarificazione di ciò che deve dirigere la vita e darle senso, come «prassi interiore», cioè come «processo nel quale io giungo all’Essere e a me stesso» (MF, 13). Più esattamente, la filosofia è l’attività con la quale si fissano le due polarità essenziali che Agostino esprime con i termini “anima e Dio” e che Jaspers indica mediante l’autocoscienza e la trascendenza. La filosofia, così, viene autenticamente intesa come «il pensiero nel quale io mi rendo intimo all’essere stesso», nel quale perciò «io divento me stesso» e, insieme, «il pensiero che prepara lo slancio nella trascendenza» (MF, 23).

Jaspers, però, si pone verso questi essenziali temi agostiniani in modo critico, mai celebrativo-antiquario e tanto meno apologetico, per cui non esita a sottolineare anche gli aspetti secondo lui negativi e perciò del tutto inaccettabili del pensiero di Agostino, la cui opera immensa gli appare come una miniera, ove con le «masse di pietra improduttiva si trovano vene d’oro e pietre preziose» (GF, 407) il cui ritrovamento è sempre possibile e sorprendente. Per tutti questi motivi, Jaspers non ha dubbi nell’assegnare il pensiero di Agostino alla dimensione della «grandezza», concetto decisivo già nel pensiero di un’altra auctoritas della ricerca jaspersiana, quella di Nietzsche. Come prima parte di una storia universale della filosofia rimasta incompiuta, Jaspers infatti scrive I grandi filosofi, monumentale affresco in cui la celebrazione dei più grandi filosofi di tutti i tempi rappresenta, si può dire, «una nuova Scuola di Atene per gli uomini del XX secolo» (Samuel, 22), in cui però Jaspers non si preoccupa di restituire l’intero pensiero dei filosofi grandi, limitandosi piuttosto a sottolineare, selettivamente, i soli aspetti veramente decisivi.

Secondo Jaspers, è “grande” il pensatore che fa parlare la storia, è specchio e cifra della totalità, esprime verità che parlano a tutti, è originale e originario, vive nella permanente apertura dell’inquietudine che aspira alla totalità ma non presume di afferrarla, fa pensare e costringe a proseguire perché avanza interrogando, perciò sollecita il domandare. La permanente grandezza del pensiero di Agostino consiste, in particolare, nel fatto che orienta verso i due compiti essenziali: quello di chiarire l’esistenza e quello di esprimere la trascendenza. Secondo Jaspers, infatti, la filosofia va intesa come la chiarificazione dell’esistenza che permette una orientazione nel mondo fondata sulla comprensione dell’essere, e il pensiero va inteso come «luogo dove si articola la vita dello spirito» (PVM, 446). Interrogare la tradizione, specialmente nei suoi protagonisti decisivi, significa perciò andare alla ricerca delle risposte ai nostri più radicali problemi, e solo in questo senso è pienamente legittima e anzi necessaria. In questa interrogazione i temi decisivi sono molti, ma noi ci limitiamo a indicarne alcuni tra i più rilevanti.

  1. La chiarificazione dell’esistenza per esprimere la trascendenza

Per la prima volta nella storia della filosofia, con Agostino si può dire veramente che «l’interiorità raggiunge il suo linguaggio» (IF, 234) e diventa il tema fondamentale di una filosofia che intenda comprendere l’uomo. Per Agostino, infatti, le cose esterne all’uomo non hanno un interesse in sé, autonomo rispetto all’interesse umano. Sono celebri le formule dense e potenti con cui Agostino esprime il solo punto che lo interessa: conoscere Dio e l’anima (Solil. I, 2, 7: Deum et animam scire cupio), pregare brevissime ac perfectissime chiedendo al Dio immutabile di poter conoscere sé e lui (ivi II, 1, 1: Deus semper idem, noverim me, noverim te), ritornare in se stessi perché nell’interiorità dell’uomo abita la verità e, se ci si scopre mutevoli, trascendere anche se stessi (De vera rel. 39, 72: noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris, transcende et te ipsum). E, soprattutto, sono grandi le formule con le quali Agostino esprime il mistero umano: l’uomo è un grande abisso (Conf. IV, 14, 22: grande profundum est ipse homo), è diventato a se stesso questione (ivi 4, 9: quaestio mihi factus sum), quindi è visto come luogo di un eterno interrogare, cui non si possono dare semplici risposte, certamente non “soluzioni”. Il filosofare di Agostino è autentico perché pone domande che ammettono solo risposte aperte, e non problemi di cui si possa indicare la soluzione.

Tuttavia, si deve osservare che Agostino è anche stato il primo ad affermare, in virtù di questo interrogare, l’assoluta certezza dell’”io sono”, a distruggere la possibilità del dubbio radicale e perciò dello scetticismo. Nel suo interrogare, l’uomo interiore sa con certezza di essere, di sapere e di amare. Nell’opera di Agostino, perciò, Jaspers trova una grande e decisiva «profondità nel rischiaramento esistenziale» (MF, 11), oggi tanto più attuale in quanto noi viviamo, al di là delle superficiali apparenze, il «fallimento del sapere» e il «naufragio della comunicazione» (MF, 16), da cui la necessità della conoscenza di sé e dello slancio nella trascendenza. L’uomo si può infatti definire come «l’essere nel tempo» che è dilaniato in se stesso, perché si realizza in molti modi che lo lasciano sempre più incerto su di sé. Per questa sua incertezza, quindi, l’uomo rimanda sempre all’altro da sé, cioè alla trascendenza (MF, 31-32).

Per comprendere l’importanza di questo punto, basta pensare alla riflessione di Jaspers intorno al concetto di colpa, decisivo a seguito dell’immane tragedia nazista, da lui vissuta in prima persona con esemplare chiarezza e rettitudine morale, al pari di altri veri testimoni come per esempio Hannah Arendt e a differenza dell’umiliante compromesso del suo collega e più famoso Martin Heidegger. Nei confronti di Agostino, che intorno alla figura della colpa elabora una costruzione grandiosa ma contenuta entro i limiti del concetto di male morale condizionato dal peccato originale, Jaspers parte dal problema tedesco, ma sviluppa una riflessione radicale molto più ampia che rimane particolarmente attuale e che, tenuto conto della distanza storica, rimane comunque del tutto consonante col pensiero agostiniano. Egli distingue, infatti, quattro figure di colpa (giuridica, politica, morale, metafisica), per cogliere e sentire le quali è però necessaria una profonda «conversione interiore» in cui ciascuno ha a che fare soltanto con se stesso, perché la consapevolezza della responsabilità non può venire imposta dall’esterno (QC, 19).

Questo vale, specialmente, per le colpe morale e metafisica, in cui noi sappiamo che non vale niente la scusa che “gli ordini sono ordini”. Si tratta infatti di sentire che ciascuno di noi ha la piena responsabilità morale delle azioni che compie come individuo, avendo come sola istanza la propria coscienza, mentre i giudici del processo di Norimberga valgono come istanze per la colpa giuridica e politica. Inoltre, e soprattutto, si tratta di “sentire” che ogni uomo è colpevole, quando tollera che violenze e ingiustizie vengano inflitte a un proprio simile, in sua presenza o con la sua consapevolezza, non facendo nulla per impedirle. Si tratta, in questo caso, di una colpa metafisica nei confronti del dovere di solidarietà umana universale, compiuta da chi «non ha messo a repentaglio la propria vita per impedire il massacro degli altri, ma è rimasto lì senza fare nulla» (QC, 22). Si tratta di un senso di colpa non spiegabile dal punto di vista giuridico, morale e politico: «Il fatto che uno è ancora in vita, quando sono accadute cose del genere, costituisce per lui una colpa incancellabile»; il principio di solidarietà universale, infatti, esige che «o che si viva insieme o che non si viva affatto» (QC, 22-23). Da ciò la ripetuta e celebre sentenza: «che noi siamo ancora in vita, questa è la nostra colpa». Per questo tipo di colpa, evidentemente, l’unica istanza è Dio.

Jaspers conduce questo discorso a proposito della responsabilità dei tedeschi nei confronti degli orrori nazisti, ma è chiaro che si può riferire anche alle violenze e alle guerre attuali. Anzi, la nostra coscienza ne risulta ancor più turbata, perché si pensava che dal processo di Norimberga fosse derivato almeno un risultato permanente: quello di ritenere, per la rima volta e in modo per il futuro definitivo, che in sé «la guerra è un delitto» (QC, 56). Sembra, tuttavia, che abbiamo acquisito l’idea di fondo, il fatto cioè che restare ciechi di fronte alla sventura degli altri costituisce una colpa. In questo senso, una certa e sia pur limitata “conversione” è avvenuta, o almeno iniziata. Si tratta però di non banalizzare il senso di questa conversione, alla quale Jaspers attribuisce importanza decisiva per comprendere tutto il pensiero di Agostino, perché il movimento della conversione è decisivo anche per comprendere la purificazione dalla colpa.

La conversione non significa tanto aderire a qualche nozione, quanto invece trasformare la coscienza del proprio essere. In primo luogo, essa esige che la coscienza della colpa disponga il soggetto in una dimensione di universalità, che oggi deve significare «apprensione per l’umanità nel suo insieme» (QC, 104). Inoltre, non si può ricorrere all’idea del peccato originale come fosse un alibi, per il quale saremmo tutti ugualmente colpevoli. Si tratta, invece, di purificare la propria interiorità evitando «i due pervertimenti dell’autodegradazione e dell’orgogliosa arroganza» (QC, 115-116). D’altra parte, non si tratta solo di risarcire le vittime innocenti, perché la colpa morale e la colpa metafisica «non si prestano per la loro stessa natura a essere espiate. Esse non si estinguono mai. Chi le porta entra in un processo che dura tutta la vita» (QC, 125). La conversione, come espiazione e purificazione, diventa il compito di tutta la vita, che appare «concessa ancora perché venga consumata al servizio di un dovere da compiere» (QC, 128). Solo in questo modo si può parlare di libertà, cioè soltanto la purificazione dell’anima può rendere liberi dopo la colpa. Senza questa purificazione, «non è possibile alcuna libertà politica» (QC, 130).

Tutto ciò corrisponde alla visione antropologica di Jaspers, che pensa l’uomo sempre teso nello slancio verso la trascendenza, in cui la comprensione filosofica è possibile per effetto del suo stesso inevitabile fallimento: «noi riconosciamo il male solo in quanto esso è in noi stessi» (MF, 24). Da ciò l’inevitabile solidarietà umana universale, perché «l’uomo singolo non può mai, per sé solo, diventare veramente umano» (ibid.), cosicché si può affermare il fondamentale principio che lega, in modo “metafisico”, tutti gli uomini tra loro: «La propria libertà è possibile soltanto se è libero l’altro» (MF, 26). Questa solidarietà universale si esprime, appunto, principalmente nella esperienza della colpa, che tuttavia contiene un pericolo grave. La colpa, infatti, può venire assunta come situazione limite dove cade ogni punto d’appoggio, dove «la radice del proprio valore e del proprio significato è concepita in senso distruttivo e l’uomo è gettato in una disperazione completa», come accade nell’esperienza delle nature più profondamente religiose, per esempio in Agostino, Lutero e Kierkegaard (PVM, 319).

Inoltre, da questa esperienza radicale della colpa possono derivare «dottrine di vita» molto problematiche, tipiche delle personalità che attingono il loro impulso a una svolta, a una crisi, a una conversione che segue una esperienza opposta del mondo, come per esempio Agostino, Francesco d’Assisi, Tolstoj, Ignazio di Loyola. Queste personalità, infatti, vivono in una dimensione di autenticità che sarebbe impossibile senza quella precedente esperienza della svolta, però pretendono, con le loro «dottrine assolutistiche» prive di realismo, che anche gli altri pervengano al medesimo risultato, anche in assenza di quella decisiva esperienza: pretendono che gli altri siano fin dal principio ciò che, in realtà, essi sono diventati solo come risultato (PVM, 420).

  1. La chiarificazione della fede

Jaspers rifiuta decisamente l’aspetto “ecclesiastico” del pensiero di Agostino, ma rileva la grande importanza del fatto che Agostino coltivi soprattutto una «fede pensante» (FFR, 30), per la quale «È nel pensiero come tale che risiede la tendenza verso la divinità» (FFR, 59). Nella situazione attuale, certamente, non si può tornare interamente al pensiero di Agostino, specialmente per l’importanza fondamentale che egli attribuisce all’autorità (Jaspers cita spesso il passo in cui Agostino dice che non presterebbe alcuna fede alla rivelazione, se la Chiesa non la confermasse) e per il fatto che approva la coercizione religiosa, come dimostra la sua famosa interpretazione del coge intrare evangelico in funzione anti donatista, concezione cha oggi appare come un «orribile capovolgimento del cristianesimo neotestamentario» (FFR, 99). Per quanto riguarda il principio di autorità, mentre Agostino lo giustifica come rimedio alla debolezza dello spirito umano dopo la caduta originaria, si deve dire che oggi esso appare del tutto impraticabile, perché noi viviamo nell’età del totalitarismo della tecnica, per il quale è inammissibile un’autorità in forma di tradizione: il dominio della tecnica, infatti, sopprime l’idea di tradizione.

Attuale, invece, è il fatto che la «fede pensante» di Agostino esemplifica nel modo più forte e profondo l’essenza del pensare stesso, che è sempre un «pensare in cifre», cioè uno «spingere al limite» pensiero e parola finché giungano al silenzio (FFR, 248). Il termine «cifra», fondamentale nel discorso di Jaspers, indica relazione con la trascendenza, è il messaggio che la trascendenza affida al tempo e che si esprime nel linguaggio, ma rimane inattingibile nella sua totalità. La trascendenza, infatti, è l’ulteriorità che si fa presente nelle Grenzensituationen (situazioni-limite) in cui l’esistenza s’imbatte. Il pensare in cifre di Agostino si può vedere, specialmente, nella «importantissima e stupendamente durevole cifra della Trinità» (FFR, 328), nella quale tuttavia è contenuto un grande pericolo. Se, infatti, la vogliamo tradurre nella realtà fattuale e crediamo di poterla rendere visibile, perdiamo la trascendenza, perché «Le cifre non sono mai la realtà della trascendenza stessa, ma il suo possibile linguaggio» (FFR, 189). La cifra, infatti, non va confusa col “fenomeno” (che indica la realtà) o con il “segno” (che indica una cosa accessibile), e neppure con il “simbolo” (che indica la presenza di altro che esiste solo nel simbolo stesso). D’altra parte, se alle cifre della trascendenza non corrisponde alcuna esistenza storica, esse non sono che «un fruscio di foglie secche» (FFR, 166).

Rimane fermo, comunque, che la cifra non si può attestare come realtà di fatto: «Il Dio nascosto parla nelle cifre ma in modo che in nessun luogo la cifra […] assume carattere di realtà di fatto diverso dal vagare polisenso delle cifre» (FFR, 226-227). La cifra, infatti, si muove nella dimensione della libertà e non della schiavitù corporea spazio-temporale. La fede filosofica, perciò, non sa nulla di Dio, ma ne ascolta soltanto le cifre, le quali possono anche essere in lotta tra loro. Non si può stare fuori da questa lotta, né guidarla come farebbe un direttore d’orchestra. Inoltre, essa non si sviluppa necessariamente secondo un progresso, ma procede per salti e in modo incessante, perché ogni cifra è guida e nessuna è assoluta: «Nulla di ciò che si può cogliere è assoluto» (FFR, 262). La cosa più importante, comunque, è che proprio in questo lottare le cifre «non si possono ascoltare senza pensare» (FFR, 295). Basti riflettere su cifre tipicamente agostiniane come onnipotenza, immutabilità, pensiero, volontà e, soprattutto, alla volontà di verità, che è la cifra più potente in quanto «distrugge ogni pace apparente» (FFR, 266). Per Jaspers, infatti, pensare significa mettersi nel pericolo e nel rischio, ma il pensiero è «quel rischio che bisogna correre» (SV, 12), se non ci si vuole nichilisticamente disperdere. D’altra parte, la filosofia è appunto «il pensiero che non si pone nessun limite e nessuna barriera, perché sa che solo attraverso il pericolo del nulla, si può trovare, filosofando, la via» (SV, 12-13).

Nella tradizione cristiana occidentale, il filosofo che più consapevolmente e profondamente pensa in cifre è Nicola Cusano, certamente «uno dei più grandi esempi di filosofi cristiani che […] accedono a noi, anche quando non percorriamo il suolo massiccio della loro fede» (FFR, 326). Anche Agostino si pone in questa dimensione, tuttavia la sua magnifica cifra della Trinità contiene il pericolo di non manifestare e, anzi, di occultare il rapporto alla trascendenza, quando vuole rendere «visibile» e «reale» il Dio vivente (FFR, 331). I concetti di spazio e di tempo sono infatti cifre dell’immanenza, come pure il concetto di ragione. Così, «quanto più si razionalizza o si corporeizza la cifra, tanto meno essa parla agli uomini liberi nel senso della verità» (FFR, 484). Si pensi, per esempio, al «pensiero impressionante» della predestinazione che inizia con Paolo e prosegue con Agostino, Lutero e Calvino (FFR, 472). Secondo questa dottrina è Dio che sceglie l’uomo e non il contrario, così soltanto Dio è veramente libero. Il pensiero si affatica a razionalizzare questo tema incomprensibile, ma così va «perduto quel che nella cifra ci parla come verità» (FFR, 475), perché la via per divenire coscienti della trascendenza non è la realizzazione, ma il «naufragio di ogni idea determinata dell’infinito» (FFR, 525). In Agostino, tuttavia, è anche presente in modo radicale e profondo la consapevolezza della impossibilità di conoscere Dio, perché egli sa bene che «ogni oggettivazione di Dio in un pensato lo fa dileguare di fronte al pensiero» (FFR, 526), ma in lui questa impossibilità diventa una forma di pensare Dio, secondo la modalità propria della teologia negativa. Si potrebbe dire che Jaspers vede in Agostino, quando questi non oggettivizza la cifra della Trinità, il fatto decisivo della impossibilità di conoscere Dio e insieme l’inevitabilità di pensarlo.

In questo senso, anche Agostino esclude il dogmatismo, pensando che fede razionale e fede rivelata si misurano come «polarità reciprocamente interessate» che, «se pur non si comprendono esaurientemente, non cessano di tentar di comprendersi» (FFR, 117). Non si tratta però di un compromesso, perché rimane fermo che «La fede filosofica […] deve rinunciare alla rivelazione come realtà di fatto, a favore delle cifre colte nel movimento della loro ambiguità», essendo interessata «alla comunicazione tra gli uomini, che necessariamente devono parlare tra di loro, ma non necessariamente mettersi in comune a pregare» (FFR, 129). Agostino, in realtà, è vicino a questo modo di pensare quando segue la teologia negativa, secondo la quale si nutre giustamente una «radicale sfiducia nella possibilità di trasferire in forma perspicua ed esauriente le categorie del nostro pensiero sull’assoluto e sul soprasensibile, congiunta all’impulso di conoscere pur tuttavia l’assoluto» (PVM, 234).

Nello scambio epistolare con Rudolf Bultmann sul problema della demitizzazione, questa polarità viene fatta valere come opposizione tra libertà protestante e confessione cattolica. Essendo chiaro che il punto decisivo del momento presente (Jaspers scrive nel 1954, ma le sue riflessioni mi sembrano ancora estremamente attuali) è la lotta «contro il totalitarismo in ogni sua forma», e che in questione è «il destino della libertà» (PD, 205), si deve osservare che oggi «a noi mancano i Profeti capaci di produrre nella nostra vita, nella fede, nella speranza, nell’azione, una trasformazione. Al loro posto, abbiamo solo la nostra tradizione biblica»; resta perciò da vedere cosa possiamo fare di questa tradizione, perché «Nella forma storica delle Chiese, la fede biblica si è dimostrata di fatto, nei momenti decisivi, inaffidabile» (PD, 203). In particolare, dato che «la situazione delle confessioni cristiane sembra oggi segnata dalla crescita inarrestabile della potenza del mondo cattolico», è opportuno rilevare che la sua «affinità con il totalitarismo, pur nelle enormi differenze, autorizza una sola conseguenza: il mondo libero deve, oggi come in passato, impedire un dominio assoluto della Chiesa cattolica» (PD, 203-204). Il rilievo è giustificato, in relazione a quella tendenza che riduce l’esperienza di fede a religione civile per garantirsi una rispettabilità politica, evidente in alcune strategie che potremmo definire di ateismo clericale.

Allora si tratta di stabilire un rapporto di comprensione tra fede filosofica e fede rivelata, superando «l’abisso che le separa» (FFR, 651). La fede rivelata segue infatti l’autorità mediatrice della Chiesa, mentre per la fede filosofica le figure della rivelazione sono cifre, ma «la cifra è possibilità, non realtà», il mondo delle cifre vale come linguaggio della trascendenza, come «il significato possibile di un senso, non un oggetto d’obbedienza» (FFR, 653). Il «Dio vicino» della rivelazione certamente «è indispensabile all’essere finito, ma esiste solo in cifre»; la fede filosofica vuole appunto «esperire il Dio lontano nelle cifre vicine» (FFR, 656), ma sapendo che le cifre sono molteplici e polisense. Il che non valorizza il politeismo, che riduce le cifre a realtà di fatto. Valorizza, invece, il rapporto necessario tra filosofia e religione, perché «la realtà della trascendenza è accessibile attraverso la fede, sia questa filosofica o religiosa» (FE, 81). Tra filosofia e religione ha certamente luogo un conflitto, però è possibile che la vita della filosofia venga «condotta dalla religione a sempre nuovo stupore» (FE, 88). L’aspetto “cattolico” del pensiero di Agostino, invece, contiene il pericolo grave di voler «afferrare il sapere totale con garanzie oggettive» (SV, 263). Il filosofare autentico, infatti, non risiede nella conquista di garanzie, ma nella chiarificazione sempre perfettibile di ciò che viene fondato nell’agire interiore.

In sintesi, potremmo dire che l’essenza della fede si coglie nel suo rapporto con la trascendenza e con l’autorità. La fede, infatti, si può definire come «il movimento del divenire consapevole della trascendenza» (EA, 66), un movimento che si trova costantemente nell’incertezza, essendo «l’ascolto del fondamento nella fiducia senza garanzia» (EA, 67). Oggi non possiamo più concepire, come nel Medioevo, l’auctoritas e la ratio come ingenua e pur grandiosa unità, però manteniamo l’idea che «l’autorità autentica è realizzazione nel mondo fondata nella trascendenza», perché «un’autorità soltanto mondana è impossibile, un’autorità solamente trascendente è senza realtà» (EA, 118). La conclusione più importante, quindi, è che «un uomo in quanto tale non può mai essere per gli altri uomini “autorità”» (EA, 121), il che vale per il tempo di Agostino, ma anche e forse ancor più per il nostro, segnato dagli orrori incancellabili dei totalitarismi del ventesimo secolo.

La grande importanza di Agostino per questo tema, comunque, secondo Jaspers consiste nel fatto che nel suo pensiero si afferma, per la prima volta, l’autentico e vero concetto di «filosofia cristiana», caratterizzato dall’assenza di quella separazione tra filosofia e teologia, tra filosofia e religione, tra fede e ragione, che invece si affermerà sempre più nel pensiero medievale a partire da Abelardo e poi con Tommaso d’Aquino e soprattutto nei pensatori francescani del XIV secolo, Duns Scoto e Ockham. Secondo Agostino, come dice un suo passo celebre, si è ben orientati verso la salvezza quando non si pensa che la filosofia sia una cosa e la religione un’altra (De vera rel. 5, 8), sicché bisogna lasciar perdere «coloro che non sanno filosofare nelle cose religiose e non sanno essere religiosi nella filosofia» (ivi 7, 12). Il valore di queste affermazioni, per Jaspers, consiste nel fatto che difendono un principio irrinunciabile, ossia che la verità è una e non duplice, come invece secondo lui accade nel tomismo e poi soprattutto nel pensiero scientifico moderno. Con la sua razionalità unificante mossa dalla fede, quindi, Agostino ci propone un esempio di filosofia integrale, che indaga l’uomo nella sua dimensione razionale e insieme esistenziale. Infatti la fede, com’è intesa da Agostino, ci consente di comprendere il movimento esistenziale e di compiere lo slancio verso la trascendenza. In questo modo, la fede si determina come atto filosofico mediante il quale si trascende l’esistenza semplicemente concreta (das Dasein), per accedere in modo ben più ricco all’esistenza autentica (die Existenz). In questo senso profondo, si può dire che l’introspezione agostiniana si rivela come decisiva chiarificazione dell’esistenza.

  1. Tempo, libertà e storia

Per motivi diversi, ma in un modo molto simile, si può attribuire anche ad Agostino l’essenziale tesi antropologica di Jaspers: «l’uomo singolo non può mai, per sé solo, diventare veramente uomo» (MF, 24), perché «la propria libertà è possibile soltanto se è libero l’altro» (MF, 26), perché «noi diventiamo liberi solo in quanto l’altro diventa libero» (AF, 154). In questo senso profondo, Jaspers e Agostino sono veramente, nella loro essenza, filosofi della libertà. Secondo Agostino, infatti, l’uomo è libero in quanto è liberato: questo è il senso, depurato da elementi contingenti del tutto inaccettabili per l’attuale coscienza storica e antropologica, del controverso tema della grazia. Nel pensiero di Jaspers, questa visione dell’uomo viene espressa dicendo che l’uomo è sempre incerto circa se stesso e «non può concepirsi come per sé stante», quindi rimanda sempre all’altro, cioè alla trascendenza, che è inattingibile ma necessaria (MF, 31).

Con molto impegno, Jaspers continuamente si confronta col nucleo centrale del pensiero agostiniano che riflette sulle nozioni di volontà, libertà e libero arbitrio, depurandolo però del suo intrinseco rapporto con la dimensione religiosa. Per Jaspers, l’atto di libertà si compie in una risoluzione che egli chiama «decisione esistenziale», con la quale l’uomo si pone nella sua dimensione più autentica, nel suo essere più proprio, cioè come apertura e slancio verso la trascendenza. La libertà, intesa al modo agostiniano, pone infatti l’uomo nella sua duplice condizione di movimento verso il proprio centro e di progetto verso la trascendenza. In questo senso, il pensiero di Jaspers rimane fortemente agostiniano, in quanto ritiene che l’uomo non può diventare veramente uomo se non accede, sia pure in qualche modo, a una dimensione che lo supera e lo trascende. Come in Agostino, anche per Jaspers la libertà autentica si esercita perciò come movimento verso la trascendenza, ma si può compiere soltanto nella dimensione dell’ordo amoris. In entrambi, quindi, l’amore vale come principio universale che regge tutte le cose e, inoltre, possiede la forza di andare al di là della dimensione dell’essere, istituendo un legame con la trascendenza espressa nelle cifre (VW, 989-991 e 1009).

Prospettandosi come tensione verso la trascendenza, la filosofia è necessariamente legata alla religione: se una delle due viene esclusa, l’uomo diventa dogmatico, fanatico e nichilista. La religione consegna alla filosofia la sua irrequietezza e la spinta a rinnovarsi continuamente, a cercare di «conoscere e vivere l’eternità nel tempo» (MF, 34), anche se non può farci conoscere positivamente la trascendenza. Il filosofare di Agostino e Jaspers, perciò, non è un filosofare ontologico, cioè fisso e definitivo, ma un pensare esistenziale in continuo movimento, consapevole del fatto che alla trascendenza si arriva, soprattutto, attraverso l’esperienza di ciò che Jaspers chiama il «naufragio». Per l’uomo, i limiti del finito si possono superare soltanto nel naufragio; per l’uomo, attingere la trascendenza significa «sperimentare l’essere nel naufragio» (MF, 278). Questa, in sintesi, è l’essenziale storicità dell’uomo.

Ciò che è storico, quindi, è «ciò che naufraga, ma che è eterno nel tempo» (OS, 296), sicché la storia è il divenire che in qualche modo afferra l’eterno. La storia esiste, infatti, perché l’uomo è imperfetto e imperfettibile, per cui non può produrre in terra una condizione ideale, perfetta. Non può esserci, per l’uomo e in sua virtù, una giusta organizzazione del mondo, perché non può esserci un uomo perfetto che sia capace di condurre la storia al suo compimento: in virtù dell’uomo, la storia rimane sempre «circondata da abissi» (OS, 296). Infatti, «l’uomo è storia non come essere naturale, ma solo come essere spirituale» (OS, 307). Il tratto fondamentale della storia consiste perciò nel suo essere fondamentalmente transizione, che tuttavia tende all’uno come suo fine, senza cui essa «rimarrebbe un nulla nella dispersione» (OS, 324). Questa unità, per noi, è sempre necessariamente presupposta e mai realmente conosciuta: «noi uomini ci eleviamo verso l’Uno, senza averlo a nostra disposizione come contenuto di conoscenza» (OS, 326).

I tentativi di costruire una storia unica sono stati numerosi, nei due millenni che ci stanno alle spalle: alcuni fondati sulla rivelazione (i profeti ebrei, Agostino, Gioacchino da Fiore, Bossuet), altri fondati razionalmente o secolarizzando la prospettiva religiosa (Lessing, Herder, Hegel). Ma una simile costruzione, «per quanto così magnificamente creduta ed espressa per due millenni, naufraga» (OS, 328). Rimane però l’esigenza dell’idea espressa nel concetto di unità, cioè rimane l’idea della storia universale come compito inesauribile ma «guidato da idee e pensieri di unità», in cui l’Uno della trascendenza vale come remoto punto di riferimento che, tuttavia, «non può diventare possesso esclusivo di una fede storica da imporre a tutti come verità» (OS, 334). Su questo punto la concezione di Agostino diverge, in quanto legata all’idea di esclusività che si esprime nel principio nulla salus extra Ecclesiam, però certamente concorda con quella di Jaspers in quanto pensa la storia come un movimento che procede dall’Uno verso l’Uno e, inoltre, perché pensa che la vita dell’uomo si svolge pur sempre nella inadeguatezza: in regione dissiminitudinis.

Conclusione

Per concludere sinteticamente, si possono ribadire due aspetti, del pensiero di Agostino, da Jaspers molto fortemente sottolineati: da un lato le sue ambiguità e contraddizioni, dall’altro il suo grande valore e il suo profondo significato per il nostro tempo. Per quanto riguarda il primo aspetto, Jaspers talvolta usa toni molto duri, che si possono comprendere con la distanza che separa i due autori: in Agostino agisce, non di rado, un modo “ecclesiastico” di pensare che è del tutto improponibile nel contesto in cui si muove la riflessione di Jaspers. Tuttavia, ciò non compromette per nulla il valore decisivo del pensare agostiniano, per cui si deve mettere in rilievo l’aspetto positivo, cioè l’importanza di Agostino per la situazione del nostro tempo, segnato dal nichilismo e dal dominio totalitario della tecnica. Per capire questa importanza, tuttavia, è necessario possedere un dono musicale per la filosofia, che permetta di cogliere gli armonici tra il pensiero agostiniano e il nostro tempo.

Per cogliere questo aspetto, si deve osservare che in quanto è post-moderno, il mondo attuale tende alla universale estetizzazione, avendo abbandonato ogni pretesa fondativa del pensiero forte. Agostino, come già Platone e poi Kierkegaard e Nietzsche, sente il pericolo che un atteggiamento verso la vita puramente estetico possa indurre a coltivare in assoluto «il piacere del disinteresse», che è una degenerazione della libertà se è rivolto a ogni forma e possibilità vitale, che sia buona o cattiva indifferentemente (FFR, 244). La conoscenza di Agostino è preziosa, per capire che nel puro coltivare la vita estetica l’uomo attuale corre il rischio di non conoscere «fedeltà, continuità, obbligazione, ma solo l’unicità del gesto che ha scelto» (F, 463).

Dal contatto col pensiero di Agostino, Jaspers ottiene una fondamentale conferma della sua impostazione filosofica, secondo la quale il compito della filosofia non consiste nel fornire risultati che servano a pianificare il mondo, ma nello svolgere un’opera di illuminazione del fondo della coscienza (AF, 141), in vista di una chiarificazione dell’esistenza che permetta una vera orientazione nel mondo. Riferendosi ai giovani del suo tempo, ma la cosa vale anche per il giovane Agostino e specialmente per i giovani attuali, egli osserva che la maggior parte di loro non coltiva una determinata fede religiosa e che, perciò, «solo la filosofia può illuminare le loro possibilità di credere» (AF, 142). Il vero filosofo, infatti, non è un profeta e non pretende di avere successori, ma è un rappresentante dell’umanità che, mediante la sua opera, «consente ad altri di trovare se stessi» (AF, 143), anche se non ignora certo che normalmente «la filosofia […] è una straniera nel mondo» (EA, 28). In questo senso profondo, si può dire che Jaspers e Agostino sono essenzialmente filosofi della libertà, mossi da un principio fondamentale di perenne validità: «Vero è ciò che genera totalità» (FE, 35).

Per questo fondamentale motivo, Jaspers giunge ad affermare che «Senza Agostino, noi potremmo difficilmente immaginare che cos’è l’atto di filosofare» (VW, 854). Accanto a Platone e a Kant, infatti, Agostino appartiene alla categoria di coloro che fondano e non cessano di generare l’atto di filosofare. Egli rimane quindi per noi fondamentale, perché la filosofia costituisce anche per il nostro tempo, come per quello di Agostino, assoluta necessità. Al tempo di Agostino la grande filosofia antica, greca e latina, aveva perso la sua vitale forza originaria per estenuarsi nell’infecondità di una verbosità retorica alla quale appunto Agostino creativamente reagisce. Nel tempo presente, il dominio della specializzazione scientifica e della razionalità strumentale ci allontana dal vero problema e dal vero compito filosofico, cioè dalla necessità di pensare l’essere. Le scienze ci mostrano soltanto forme particolari dell’essere, mentre col pensiero di Agostino siamo avviati a un vero pensiero esistenziale, per accedere al quale Jaspers ha ritenuto indispensabile anche la guida fondamentale di Kierkegaard e Nietzsche, che rimane per noi vivamente attuale e imprescindibile.

Certo, la enorme distanza cronologica deve pur farci riconoscere una essenziale differenza, che si può cogliere dicendo che Agostino e Jaspers coltivano due modelli etico-antropologici assai diversi, che però sono per noi ugualmente imprescindibili. Agostino, infatti, persegue il modello cristianizzato dell’antichità, cioè concepisce la vita in funzione dell’autorealizzazione, mentre Jaspers coltiva il paradigma tipicamente moderno dell’autodeterminazione. Sono prospettive profondamente diverse, perché secondo la prima l’essenza dell’uomo è una realtà da ri-scoprire e ri-trovare, essendo già stata compiutamente pensata dal creatore, da cui l’importanza della memoria. Nella seconda prospettiva, invece, il soggetto non è mai una cosa data, ma un compito che esso pone a se stesso e che rimane sempre incompiuto, da cui l’importanza della libertà. Ma si tratta, per noi, di onorare la possibilità di coltivare, insieme, questi due modelli, seguendo in ciò un grande principio di Agostino: «Cerchiamo dunque come trovanti, e troviamo come cercanti» (De Trin. IX, 1, 1: Sic ergo quaeramus tamquam inventuri, et sic inveniamus tamquam quaesituri).

 Bibliografia

  1. Opere di Karl Jaspers utilizzate

AF = Autobiografia filosofica, Morano, Napoli 1969.

CT = Cifre della trascendenza, Marietti, Genova 1990.

EA = Esistenza e autorità, Japadre, L’Aquila 1977.

FFR = La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970.

F = Filosofia , Utet, Torino 1978.

FE = La filosofia dell’esistenza, Laterza, Roma-Bari 1996.

GF = I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973.

IF = Introduzione alla filosofia, Longanesi, Milano 1959.

MF = La mia filosofia, Einaudi, Torino 1970.

OS = Origine e senso della storia, Comunità, Milano 1972.

PD = Il problema della demitizzazione, Morcelliana, Brescia 1995.

PVM = Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950.

QC = La questione della colpa, Cortina, Milano 1996.

SV = Sulla verità, La Scuola, Brescia 1970.

VW = Von der Wahrheit, Piper, München 1958.

  1. Testo rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia l’11.2.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
  2. Studi sul rapporto Jaspers-Agostino
  3. Capànaga, San Augustín según K. Jaspers, in «Augustinus» 8 (1963), pp. 109-112.
  4. Almazan Hernandez, Verdad e interioridad (San Augustin y Karl Jaspers), in «Estudios de Metafisica» 4 (1973-1974), pp. 13-48.
  5. Fabro, Sant’Agostino e l’esistenzialisno, in Aa. Vv., Sant’Agostino e le grandi correnti della filosofia contemporanea, Tolentino 1956, pp. 141-166.
  6. Holl, Signum und Chiffer. Eine Religionsphilosophische Konfrontation Augustins mit Karl Jaspers, in «Revue des Études Augustiniennes» 12 (1966), pp. 157-182.
  7. Penzo, Interpretazione esistenziale della conversione (Jaspers e Agostino), in Aa. Vv., Congresso Internazionale su sant’Agostino nel XVI centenario della conversione, vol. II, Augustinianum, Roma 1987, pp. 493-507.
  8. Samuel, Karl Jaspers lecteure de saint Augustin, in Aa. Vv, Situation de l’homme et histoire de la philosophie dans l’oeuvre de Karl Jaspers, Nancy 1986, pp. 21-36.
  9. Sciuto, Karl Jaspers. La chiarificazione della fede, in Aa. Vv., Esistenza e libertà. Agostino nella filosofia del Novecento/1, Città Nuova, Roma 2000, pp. 249-269.