Tracciare, nel breve arco di tempo di una relazione, un profilo, sia pure sintetico e generale, di padre Giulio Bevilacqua appare evidentemente impossibile, pur potendo ormai disporre di una bibliografia di notevole livello: gli studi di Antonio Fappani, di Paolo Corsini, di Guido Stella, l’introduzione di don Enzo Giammancheri agli scritti fra le due guerre e gli interventi di Mario Bendiscioli e di Franco Molinari, per non parlare delle numerose testimonianze o dei contributi di carattere agiografico e celebrativo. Proprio la presenza di tali lavori, peraltro, mi consente di non soffermarmi su aspetti di ricostruzione biografica ormai noti e di concentrarmi invece su un taglio prevalentemente interpretativo.
La mia relazione, pertanto, si svolgerà attorno a tre punti: nella prima parte cercherò di delineare il profilo spirituale di Bevilacqua; nella seconda rifletterò sull’originale interpretazione dei totalitarismi come religioni profane; nella terza punterò l’attenzione sul suo modello di apostolato, sulla sua proposta pastorale, così come emerge e si definisce durante i pontificati di Pio XI e di Pio XII.
1.1. Una spiritualità sacerdotale
Forse la cifra sintetica che meglio riassume il profilo spirituale ed esistenziale di Bevilacqua è quella di “prete oratoriano filippino”[2].
Innanzi tutto prete, sacerdote cristiano, in una tensione in cui il sacerdozio coincide con il sacrificio – sacerdote-ministro del sacrificio eucaristico (sacrificatore) e sacerdote-testimone vero e radicale della Croce (sacrificato): una concezione quasi direi kenotica del sacerdozio come spogliamento e martirio, strutturalmente opposta ad ogni clericalismo.
In questa prospettiva, il sacerdozio imprime il carattere della piena conformazione a Cristo, in senso paolino[3] e giovanneo: Cristo come Mediatore tra Dio e mondo e come Verbo che illumina ogni uomo e fa sperimentare la presenza di Dio.
Tale conformazione a Cristo è anche pienezza di incorporazione nel Cristo totale in senso agostiniano. Questa spiritualità portava, in modo conseguente, alla centralità della liturgia, cioè alla centralità del sacrificio eucaristico, nel quale si ricapitolava tutta la vita del cristiano.
La prospettiva, dunque, di un sacerdozio senza sacrificio, senza conformazione a Cristo nel martirio della Croce, appariva a Bevilacqua come doloroso tradimento. Nel secondo dopoguerra egli affermava: “Il Cristo è stato tradito da preti non cristiformi”. E concludeva: “ Il sacrificatore non sacrificato è una veste sul vuoto, maschera sul nulla, contraddizione urlante”[4].
1.2. Una spiritualità oratoriana
Questa spiritualità sacerdotale trovava il suo naturale e pieno sviluppo in una modulazione oratoriana, nel senso più ampio che storicamente è venuta ad assumere l’esperienza dell’Oratorio in Europa. In essa, due spinte spirituali diverse – l’agostinismo fino a Pascal e l’umanesimo cristiano – trovavano una loro armonica composizione in una prospettiva unitaria di ‘riforma cattolica’, cioè di fermentazione dall’interno.
Ma accanto ad Agostino e a Pascal, vi era pure l’umanesimo cristiano, che sarebbe peraltro divenuto una delle cifre distintive dell’editrice Morcelliana prima e della rivista “Humanitas” poi, probabilmente proprio per impulso di Bevilacqua. L’umanesimo cristiano era visto da Bevilacqua soprattutto in riferimento ad una tradizione spirituale italiana che partiva da Dante[6], da Tommaso d’Aquino, da Francesco d’Assisi, passava per Caterina da Siena, Filippo Neri e Tasso, e giungeva a Vico e a Manzoni[7]. L’umanesimo cristiano impediva che l’agostinismo irrigidisse la lotta tra carne e spirito in una contrapposizione totale tra umano e divino, naturale e soprannaturale.
Nella prospettiva di spiritualità oratoriana, propria del Padre della Pace, la cristoconformazione si esprimeva in un cristocentrismo berulliano: il Cristo-Sole, presente in Bérulle e in Bevilacqua, come centro di una gravitazione universale (il termine ‘centro’ e l’aggettivo ‘centrico’ sono tipici del linguaggio di Bevilacqua), come asse dell’anima, del cosmo e della storia.
Ma la spiritualità oratoriana, peraltro intesa come spiritualità del cuore, significava per Bevilacqua soprattutto la lezione di Newman e di Gratry, a cui egli dovette accostarsi abbastanza precocemente, probabilmente dagli anni del soggiorno belga se non prima. Uno degli aspetti del pensiero di Newman che più influenzarono Bevilacqua era relativo ad una sorta di ripresa di quell’atteggiamento dei Padri della Chiesa e in particolare di Giustino che mirava ad accogliere e valorizzare tutti i semi di verità che erano pur presenti, allora, nella cultura pagana e, oggi, nella cultura moderna non cristiana.
Nell’oratoriano Gratry, oltre a numerosi richiami alla tradizione spirituale francese, Bevilacqua ritrovava una caldo volontarismo della carità[8].
Ai nomi di Newman e di Gratry, che erano spesso citati nelle sue opere, va aggiunto anche quello di un altro oratoriano, Laberthonnière, la cui presenza in Bevilacqua è più discreta e velata, ma non indistinguibile.
1.3. Una spiritualità filippina
In quest’alveo di spiritualità sacerdotale oratoriana veniva infine a decantarsi la specificità filippina. Tale specificità filippina aprì la teologia del cuore alla gioia, elevò l’austerità oratoriana alle vette cristiane dell’umorismo, perché “la tristezza è il sacramento dell‘assenza di Dio“[9].
Ma soprattutto la specificità filippina significò un’autenticità di vissuto cristiano nella fedeltà al Vangelo come annuncio di libertà e forza di liberazione: questa endiadi evangelica – libertà e liberazione – ricorre spesso nella parola di Bevilacqua, costituisce il concetto teologico fondamentale del suo pensiero apostolico, la cifra del suo impegno religioso e civile, il nucleo intimo e insieme il fulcro su cui fa leva la sua testimonianza vissuta di spiritualità sacerdotale oratoriana.
1.5. Una pedagogia della soglia
Bevilacqua, prete oratoriano filippino, proprio perché tale, fu, dunque e in senso ampio e complesso, un educatore, uno dei veri “maestri, e non pedagoghi”[10]: educava, cioè, innanzi tutto con l’esempio della vita, con un’ansia di giustizia, con una testimonianza del Vangelo senza timori umani; educava introducendo alla preghiera e alla liturgia, intesa appunto come massima esperienza formativa o cristoconformativa del popolo cristiano; educava parlando al cuore con il linguaggio esigente della Croce e con una pienezza di carità.
La pedagogia di Bevilacqua si può definire come “pedagogia della soglia”: con una grande discrezione[11], rimanendo sulla soglia delle coscienze[12], con l’attenzione di non offendere la libertà, il pudore e la delicatezza di chi è ammesso ai segreti più intimi, la disponibilità ad una condivisione profonda dalla quale soltanto può svilupparsi la proposta liberatrice del Vangelo.
1.6. Impegno sociale e impegno culturale
2.1. Uno dei punti di riferimento
2.2. Le religioni profane
La visione agostiniana tanto della storia umana come contrasto tra Città di Dio e Città del Diavolo quanto del male come simia Dei, come copia deformata e contraffatta del divino[13], portò Bevilacqua ad analizzare con attenzione quei processi storici contemporanei che avevano allontanato l’uomo da Dio divinizzando aspetti della natura, sacralizzando realtà temporali, formulando idolatriche religioni profane neopagane. Se fin da Costantino, in tutto il corso della storia del mondo cristiano, vi era stata la tentazione di confondere indebitamente sacro e profano[14], di inquinare i giusti rapporti tra realtà spirituali e realtà temporali, era tuttavia nel mondo contemporaneo che tali processi prendevano il sopravvento (in quest‘idea Bevilacqua rileggeva, secondo il paradigma agostiniano, il pensiero di intellettuali come Paul Sabatier[15]).
In realtà, secondo Bevilacqua, questo movimento verso la nascita di religioni profane era frutto tanto di processi del pensiero quanto di cambiamenti nelle forme di vita. Sul piano del pensiero: “Gli idoli si sono moltiplicati e succeduti. Tutto ciò che la teologia riguarda come attributo di Dio è stato concesso alla ragione nel secolo XVIII, alla scienza nel secolo XIX, all’azione e alla vita, nel secolo XX”[16].
In perfetta sintonia con i processi del pensiero, cresceva, secondo Bevilacqua, un’idolatria pratica, che era l’idolatria del piacere. Già nel 1919, su “La fionda”, egli aveva scritto: ” Il danaro è quindi sacramento visibile d’ogni gioia invisibile”[17].
Dunque tanto i processi del pensiero quanto i cambiamenti della vita conducevano allo stesso esito: religioni profane neopagane.
2.3. Potenzialità e rischi dell’attivismo
In questo senso, il filippino della Pace era, nel primo dopoguerra, ben consapevole e avveduto su rischi e pericoli del momento storico. Appare perfino sorprendente la lucidità di analisi che Bevilacqua rivelava rispetto ai processi storici profondi e alla loro decifrazione. Nel 1921, prima della Storia d’Italia (per non parlare della Storia d’Europa) di Benedetto Croce, egli presentava nelle sue caratteristiche essenziali quello che Croce avrebbe chiamato “attivismo” e che, più tardi, Huizinga avrebbe denunciato come predominio dell’agire pratico sul pensiero: tanto Croce quanto Huizinga presentavano il fenomeno come la chiave di interpretazione storica del Novecento. Da parte sua P. Bevilacqua, fin dalla prima edizione di La luce nelle tenebre, scriveva:
La generazione del 1880 aveva affermato la superiorità del pensiero sull’azione; la generazione attuale, sente in se stessa più prepotente il bisogno di agire che quello di pensare.[18]
Se Croce e, successivamente, Huizinga vedevano l’attivismo come negativo, individuandovi la base del sorelismo e dell’anarcosindacalismo, del futurismo e del superomismo, del bolscevismo e del fascismo, dell’attualismo e del pragmatismo, Bevilacqua – pur conscio di queste valenze deformanti – ne percepiva pure potenzialità positive che potevano svolgersi nel volontarismo dell’azione in senso blondeliano e nello slancio vitale bergsoniano, nella lotta sindacale bianca e nell’azione cattolica. Era, cioè, quel massimalismo cattolico e quel cattolicesimo di conquista che egli avrebbe condiviso, pur in forme diverse, con Pio XI e con P. Gemelli, con don Giovanni Rossi e con don Giuseppe De Luca, soprattutto con coloro – come lo stesso P. Gemelli, ma anche P. Semeria e don Primo Mazzolari – che avevano vissuto in prima persona l’esperienza della guerra.
Bevilacqua, dunque, guardava all’attivismo come a un tratto generazionale non da respingere ma da evangelizzare, completandone l’unilateralismo dell’azione per evitarne un vano parossismo.
2.4. Una generazione cinica e il mito di un popolo di dei
Il filippino, com’è fin troppo noto, si era sentito vicino alle posizioni dell’interventismo democratico e aveva direttamente partecipato alla guerra, con una sua personalissima maniera religiosa di vivere il proprio ministero sacerdotale al fronte.
Tuttavia l’esperienza diretta dei combattimenti e il magistero di pace di Benedetto XV avevano fatto maturare la sua riflessione, così che nel dopoguerra egli si poneva in modo problematico rispetto alle conseguenze della guerra sulla società italiana. Con altre sottolineature, erano in fondo argomenti molto simili a quelli che avrebbe usato Croce nel parlare di “malattia morale” come effetto del conflitto e come spiegazione del fascismo.
Bevilacqua, infatti, non si nascondeva i gravi rischi che derivavano dall’avvelenamento della società, causato dalle tossine della guerra. Ciò era tanto più evidente se gli effetti del conflitto mondiale erano visti in relazione al processo di affermazione di religioni secolari, del quale si è già detto.
Egli, dunque, notava: “si vuole traformare la presente generazione in un popolo di eroi con la speranza di farne, nel mito del domani, un popolo di dei”[19]. Da qui, ancora, l’amara conclusione di Bevilacqua: “ La civiltà si è spinta fino alla barbarie. […] Nessuna meraviglia se la violenza è divenuta la bellezza, la dignità, la manifestazione, la leva della vita! ”[20].
2.5. Cristianesimo di conquista e combattimento spirituale
Bevilacqua, evidentemente, rifiutava soprattutto l’odio, che gli sembrava dovunque dominante, dalla vita economica, alla vita sociale, alla vita politica[21].
A tutti questi rischi, egli opponeva l’energia giovanile e la fede assoluta di un cattolicesimo vigoroso e d’azione[22], lo spirito militante e di conquista del movimento cattolico e delle sue organizzazioni.
Nella battaglia di questo cristianesimo militante si dovevano tuttavia, secondo Bevilacqua, evitare alcuni errori. Il primo era nel passatismo che rifiutava ogni modernizzazione: ad esso il filippino contrapponeva un atteggiamento aperto, capace di accogliere e valorizzare ogni aspetto positivo della cultura più moderna.
Ma vi era un altro possibile errore che andava evitato: un rischio più insidioso, un pericolo più subdolo. Si trattava di non lasciarsi strumentalizzare, di non accogliere le lusinghe che la società del dopoguerra rivolgeva alla Chiesa, per fini temporali, contrari al vero cristianesimo. Convinto della verità evangelica che rifiutava queste strumentalizzazioni, Bevilacqua era forse preoccupato sulla capacità dei cattolici del suo tempo a resistere a tali lusinghe, che apparivano come il rovesciamento del vecchio laicismo.
Il cattolicesimo giovane, vigoroso, di conquista, che egli vagheggiava, doveva appunto essere impenetrabile rispetto all’illusione fallace che poteva venire dalla concessione di tali privilegi. Il problema, eminentemente educativo, che allora si poneva, era di prevenire queste arrendevoli e cedevoli debolezze, rafforzare gli animi e i caratteri. Bevilacqua capiva che ogni battaglia polemica contro nemici ‘esterni’ della fede doveva, in realtà, partire da una lotta contro l’egoismo e l’odio, condotta nell’intimo del proprio cuore. Ecco l’ascesi, il combattimento spirituale, in cui ciascuno doveva lottare contro il proprio egoistico io, affidandosi a Dio.
2.6. La fermezza antifascista
L’atmosfera carica di violenza e di odii politici del primo dopoguerra, portò, dapprima, Bevilacqua a polemizzare vivacemente contro il massimalismo socialista.
Tuttavia, man mano che l’ondata rivoluzionaria rossa calava e si spegneva, egli volse sempre più la sua attenzione alla rivoluzione antidemocratica rappresentata dal fascismo. Del resto nel fascismo venivano ricapitolandosi tutti gli aspetti negativi dell’attivismo, che egli aveva acutamente indicato, come si è visto.
Dopo l’avvio della dittatura, nel 1925, dunque, Bevilacqua – tra i primi – interpretò il fascismo come religione politica, vedendone l’assoluta incompatibilità con il cristianesimo. Nel 1926, a Giarratana che denuciava i suoi rimproveri ai sacerdoti filofascisti, egli rispondeva:
Ora abbiamo la sincerità di confessare (sopra il fumo di cerimonie, di banchetti, di brindisi addormentatori) un senso di disagio diffuso tra le sfere profonde della Chiesa e del Fascismo. […] vi è un abisso tra il fine che lo Stato fascista si propone e il fine sovrumano che il cristianesimo assegna all’uomo. Si è detto: sono due religioni.[23]
Del resto le note critiche di Bevilacqua agli articoli pubblicati da Julius Evola su “Critica Fascista”, nell’ottobre e nel dicembre 1927, che avrebbero provocato – com’è ben noto – l’allontanamento del filippino da Brescia, si muovevano sempre in questa prospettiva di incompatibilità tra due opzioni religiose. Date queste sue posizioni, si comprendono la freddezza e forse anche un certo sgomento, con i quali Bevilacqua accolse la Conciliazione del 1929[24].
Negli anni ’30 – tra il conflitto sull’Azione cattolica del ’31 e l’introduzione delle leggi razziali nel ’38 – l’interpretazione dei totalitarismi in chiave di religioni politiche e di anti-chiese andò precisandosi. Il tema veniva approfondito nel volume del 1937 L’uomo che conosce il soffrire.
Vi fu in questo continuo approfondimento forse l’influenza di alcuni scritti di Guardini, più probabilmente l’utilizzazione degli studi di Bendiscioli sul neopaganesimo razzista. Tuttavia, tra le due guerre mondiali, fu soprattutto la lettura di Maritain che aiutò Bevilacqua a sviluppare la sua personale interpretazione delle ‘religioni profane’ come una chiave di lettura dei totalitarismi. In quegli anni egli lesse molte opere di Maritain[25]. Per avere una traccia dell’influenza che la riflessione maritainiana dovette lasciare sul suo animo, basterebbe confrontare la prima e la seconda edizione di La luce nelle tenebre: le citazioni dell’intellettuale francese, introdotte nella seconda edizione, sono una chiara testimonianza di tale influenza. In particolare, in questa edizione, del 1946, Bevilacqua mostrava di conoscere Umanesimo integrale.
3.1. Con la Chiesa di Pio XI
3.2. Tra i diversi orientamenti
L’importanza storica del modello di apostolato che Bevilacqua propose e incarnò, nel quarantennio tra il 1918 e il 1958, cioè – grosso modo – durante i pontificati di Pio XI e di Pio XII e nell’età dei totalitarismi, sta in una certa emblematicità di tale posizione, nell’ambito del diverso articolarsi di indirizzi e di tendenze all’interno del mondo cattolico. Quello che, sulla “Fionda”, il giovane Giovan Battista Montini scrisse di Bevilacqua, recensendone il volume La luce nelle tenebre, può essere assunto, in un senso storico più ampio, come giudizio sulla significatività del Padre filippino: “troppo singolare forse per polarizzare intorno a sé una scuola […], ma così notevole per segnare […] uno spiccato punto di riferimento”[26].
Per comprendere meglio la posizione di Bevilacqua e l’orientamento che essa rappresentava giova dunque confrontarla con gli altri più significativi orientamenti, ai quali ho già fatto cenno, tutti peraltro riconducibili al paradigma di un cattolicesimo di conquista.
In particolare, si tratta si vedere convergenze e divergenze rispetto a p. Gemelli e al gruppo dell’Università Cattolica; a don Giuseppe De Luca, che per i suoi legami con Fausto Minelli e con la Morcelliana rappresentava una presenza, in qualche modo, interna a Brescia (oltre che un riferimento nazionale, rispetto al gruppo del “Frontespizio”); a don Primo Mazzolari che si andava imponendo come autore religioso e predicatore.
Possiamo, in prima approssimazione, indicare sinteticamente alcuni più significativi crinali di differenziazione: Gemelli e De Luca guardarono, sia pure in modi differenti e per fini diversi, favorevolmente al fascismo; Bevilacqua e Mazzolari furono decisamente anti-fascisti. Gemelli e De Luca salutarono con entusiasmo la Conciliazione, Bevilacqua e Mazzolari furono invece più freddi e preoccupati. D’altra parte Gemelli e Bevilacqua si riconoscevano, ciascuno con la propria sensibilità e responsabilità, nella missione e nell’apostolato dell’Azione cattolica, invece De Luca e Mazzolari, per motivi diversi, ne sottolineavano pericoli e rischi.
Se il rapporto e il confronto di Bevilacqua con Gemelli appare in chiaroscuro, con punti di contatto e molti altri di lontananza, giova appuntare l’attenzione sul confronto di Bevilacqua con don Giuseppe De Luca e con don Primo Mazzolari.
Il confronto con De Luca sembra porsi sotto il segno di una netta alterità. Ciò che infastidiva De Luca era proprio ciò che Bevilacqua sentiva vicino: Erasmo, Valla e l’umanesimo cristiano; Pascal; l’Ottocento di Manzoni, di Tommaseo, di Newman, del cattolicesimo liberale belga e dell’avvio del cristianesimo sociale. Viceversa le simpatie di De Luca non erano condivise dal filippino della Pace: S. Alfonso de Liguori; De Maistre, Bonald, Veuillot; Mussolini. Per De Luca, come scriveva nel 1930, la democrazia e la “questione sociale” erano “astrazioni umanitarie di origine anticristiana e laica” sventuratamente introdottesi nel cattolicesimo, soprattutto per influenza francese[27]. Era proprio il cristianesimo sociale che De Luca rifiutava, quello del movimento cattolico, del Partito popolare, dell’Azione cattolica (“mezzi preti”) e ancor più della Fuci (“mezzi preti” e “mezzi professori”), cioè dei cattolici che si ponevano come ‘parte’ e non come ‘universalità’: un atteggiamento che il fascismo aveva superato. Nel 1938 De Luca condivideva la polemica di Papini contro le critiche cattoliche all’alleanza dell’Italia con la Germania nazista[28]. E proprio a Papini, nel 1939, dopo l’accordo Molotov-Ribentropp e appena scoppiata la guerra con l’attacco alla Polonia (che tanto aveva fatto fremere a Verona mons. Manzini), scriveva: “Io ho l’idea che Germania e Russia si avviino […] verso una egemonia. Ho l’idea che […] in questo secolo i poveri hanno il governo e l’esercito, in uomini come Mussolini, Hitler, Stalin e i Giapponesi. Ho l’idea che la Chiesa, mettendosi per ripicche confessionali e diplomatiche, con Ingh. e Fr., sbaglia un’altra volta (storicamente): tra un persecutore di Dio e un vescovo della Established Church, nessun dubbio che Cristo è più col primo […] Ho l’idea che, in giorni come questi, se in Italia non si lascia fare Mussolini, il solo uomo che veda e voglia forte, né Papa né Re né generali né nessuno sapranno dirci la via da imbroccare”[29].
Certo De Luca coglieva la “mutazione di spiriti” che si era verificata dopo la prima guerra mondiale[30], ma con un suo personale sentimento che gli faceva scrivere a Minelli nel 1932: “la generazione nuova ha animo più forte e procelloso, e vuol cibi eroici, e non le rimasticature, o sociali o spirituali, tanto in uso anni fa coi vari Fogazzari, Murri, Semeria e simile gentuccia”[31]. De Luca si sentiva anch’egli portatore di un cattolicesimo di conquista, ma puntato sull’autoritarismo della Chiesa docente sulla Chiesa discente, su un’ascetica che era innanzi tutto ascetica d’obbedienza (“è battaglia, è obbedienza”[32]), su un’autorità che era governo e un governo che era comunità, un’autorità però che non era fondata sul ‘carisma’ personale del pastore (fosse anche il Papa), ma sulla tradizione dell’Istituzione, a cominciare dalla tradizione della Curia romana e del cattolicesimo curiale per finire alla tradizione del cattolicesimo parrocchiale. Di sé diceva: “irregimentato nell’esercito regolare, irregolare mi sento”[33]. Era cioè, la sua, ancora una volta, una milizia non inquadrabile nei ranghi delle Organizzazioni cattoliche: su questo, fin dal 1930, c’era stato un chiarimento – e un allontanamento – con Montini. Tutto ciò lo portava a vedere in Gemelli un ‘modello vecchio’ (ancorché un personaggio ingombrante con cui necessariamente fare i conti), a sentire lontane figure come quelle di Giordani e di Bendiscioli, a diffidare del movimento liturgico.
Le divergenze e le distanze tra De Luca e Bevilacqua erano, dunque, molte e su diversi piani. L’impegno d’entrambi per la casa editrice Morcelliana, lungi dal costituire un terreno d’incontro e di convergenza ideale, rappresenta, in realtà, sul piano storico, l’ambito dove meglio possono essere colti i tratti reciprocamente alternativi delle due forti e spiccate personalità.
La diversità di prospettive emergeva limpidamente nella discussione su una nuova collana della Morcelliana che poi sarebbe stata chiamata “I compagni di Ulisse”. Nato forse da un’intuizione di Papini, il progetto era stato ripensato ed elaborato dai bresciani, probabilmente con il concorso di Bevilacqua, in termini molto chiari: considerare il pensiero di alcuni grandi spiriti non cattolici e trarne tutto ciò che vi poteva essere di vero e di buono. I profili ipotizzati erano in effetti di notevole interesse: tra gli altri, si pensava di chiedere a Maritain di scrivere su Kant, a Guardini su Dostojevkij e su Nietzsche, a Gemelli su Freud, a Olgiati su Marx e così via. Ma De Luca faceva fatica ad entrare nelle viste dei bresciani. Proponeva Savonarola e Pascal[34], poi Dante (“grandissimo poeta quanto perfido cristiano”)[35] ed, eventualmente, un ‘suo’ Erasmo[36]: tutti personaggi che Bevilacqua vedeva dentro e non fuori i confini della Chiesa. Poi, ancora, in questa collana di “grandi spiriti”, di uomini di buona volontà, De Luca proponeva un volume su Hitler[37]! E come possibile autore di uno dei volumi suggeriva Federzoni[38].
Se Mazzolari nutriva, come don De Luca – prete come lui e non religioso come Gemelli e Bevilacqua -, diverse riserve sull’Azione cattolica e sui suoi metodi, tuttavia queste preoccupazioni non lo allontanavano da Bevilacqua, al quale invece, negli anni tra le due guerre, egli può essere senz’altro accostato. Nel 1927 fu proprio don Primo a chiedere al filippino della Pace di dettare gli Esercizi spirituali a lui e ai sacerdoti suoi condiscepoli, in occasione del quindicesimo anniversario della loro ordinazione sacerdotale[39]. Nel 1930, da parte sua, Bevilacqua chiese a Mazzolari un articolo per “Fides”, che in effetti fu pubblicato, con il titolo La mia chiesa di campagna.
Ma dove più si rivela la vicinanza e comunanza di vedute, in questi anni, tra Mazzolari e Bevilacqua è nel caso delle vicende[40] del volume mazzolariano La più bella avventura, che prendeva spunto dalla parabola del figliol prodigo. Il libro fu pubblicato a Brescia, dall’editore Gatti, nel 1934: fu mandato in omaggio a Bevilacqua e anche, tra gli altri, a p. Marcolini, p. Acchiappati, Bendiscioli, don Tedeschi, don Guerrini, ma pure a Bargellini, Manacorda e Papini. Non fu invece inviato, sembrerebbe, né a p. Gemelli né a don De Luca. Gatti, già in febbraio e marzo, dava notizie a Mazzolari della buona impressione che l’opera aveva fatto a Bevilacqua, il quale peraltro era, anche in seguito, consultato dall’editore per questioni relative alle recensioni. In particolare Bevilacqua, mostrando di aver ben colto il senso profondo dell’opera, scriveva a Mazzolari: “bellissimo e vivo il suo libro; farà gran bene ai fratelli lontani dalla casa paterna, ma farà gran bene a tutti gli ipocriti che si illudono di esser dentro. Grazie, grazie. La abbraccio con grande affetto fraterno”. In luglio, Manzini scriveva a Mazzolari: “Ho visto l’altro ieri Bevilacqua, il quale mi assicura che il suo libro ha già fatto del bene a parecchi”. Com’è noto, una lettera del S. Offizio, del 5 febbraio 1935, intimava il ritiro dal commercio delle copie ancora invendute del libro “trovato erroneo”. Il 14 febbraio da Brescia, Astori scriveva a don Primo: “Sono stato ieri da Bevilacqua, il quale è rimasto molto addolorato. Egli era del parere di accettare naturalmente il provvedimento, ma di fare in modo che la notizia non venisse divulgata”. Mazzolari seguì i consigli di Bevilacqua: la sua risposta di sottomissione al S. Offizio ebbe la previa approvazione del filippino.
3.3. La milizia cristiana come resistenza confessante anti-idolatrica
In questo comporsi e scomporsi di orientamenti diversi, di posizioni talora convergenti e talaltra opposte, veniva via via prendendo corpo, negli anni del pontificato di Pio XI, un modello di apostolato proprio di Bevilacqua, che offriva una modulazione personale, ma di indubbio fascino e radicalità, alla comune prospettiva del cattolicesimo militante di conquista.
Da una parte egli affermava: “La vita è tale dono di Dio che non va sacrificata all’idolo (miserabile contraffazione di Dio) ma solo al Dio vivo e vero”[41]. Dall’altra egli temeva che prevalesse una “Incomprensione della libertà di Cristo” che avrebbe comportato una “accettazione beata della schiavitù dell’anticristo”[42].
Bevilacqua, dunque, considerava con preoccupazione gli sviluppi delle religioni politiche del suo tempo e gli effetti deleteri che potevano avere sui cristiani. Si poneva così il problema di una proposta di apostolato adeguata alle sfide del tempo e, conseguentemente, di modelli educativi efficaci.
Cruciale diveniva allora, sul piano educativo, precisare un modello evangelico di ‘eroismo’ della vita cristiana, per evitare derive di eroismo profano superomistico.
Il modello del sacrificio dell’eroe doveva essere il sacrificio di Cristo. In questo senso, Bevilacqua sottolineava alcune caratteristiche del vero eroismo che delineavano un modello in totale antitesi ad ogni dannunzianesimo e fascismo. La prima caratteristica, oltre la verità dell’ideale, doveva essere la carità: non bastava dare la vita, bisognava darla per amore, senza l’egocentrismo che era solo assetato di notorietà. La seconda caratteristica era, dunque, l’umiltà, perché il falso eroismo accetta la morte ma non l’ombra, l’oscurità. Infine, il vero eroismo non è un punto, un episodio, il gesto di un istante, ma la logica ininterrotta di una vita che produce una vera grandezza, che dura e cresce. Attraverso queste caratteristiche Bevilacqua contrapponeva un modello di eroismo come santità cristiana al modello eroico pagano del totalitarismo.
Da qui l’ideale militante di una resistenza nonviolenta anti-idolatrica, che non ha paura della persecuzione e del martirio.
Nessuna resa, ma la resistenza di una Chiesa confessante.
E questa resistenza, pronta al martirio, si poneva come suprema difesa non tanto del cristiano, tanto meno degli interessi cattolici, ma come difesa dell’uomo, della sua dignità, della sua libertà, a fronte dei totalitarismi idolatrici e anti-umani.
3.4. Con la Chiesa di Pio XII
Con la morte di Pio XI e con l’elevazione al soglio pontificio di Pio XII, il clima complessivo subiva un certo cambiamento o comunque si avviava verso sviluppi nuovi.
Dalla Liberazione all’Anno Santo del 1950, peraltro, la Chiesa italiana si pose in uno stato di mobilitazione generale: vi era, da una parte, il multiforme sforzo caritativo, reso necessario dalle miserie e dalle difficoltà sociali che affligevano l’Italia in conseguenza della guerra; vi era però pure, dall’altra, un impegno diffuso e capillare nel segno dell’anti-comunismo, che sempre più assunse i toni della Crociata.
Negli impegnativi anni del dopoguerra, dunque, Bevilacqua, da Brescia, soprattutto con la collaborazione alla rivista “Humanitas”, della quale era stato nel 1946 uno dei fondatori, insieme a Bendiscioli, Sciacca e Marcazzan, poteva continuare a porsi come punto di riferimento di precise posizioni spirituali e pastorali. Certamente egli affrontava, più volte e con energia, il problema del comunismo, che leggeva comunque, ancora, come fenomeno essenzialmente religioso, come religione dell’antireligione, come totalitarismo idolatrico, come messianismo profano[43]. Tuttavia nella sua analisi delle deformazioni del cristianesimo, dei suoi rovesciamenti profani, delle sacralizzazioni delle realtà temporali, Bevilacqua sviluppava pure, progressivamente, riflessioni nuove, con echi mounieriani. Simia Dei, idolo, non erano più solo i totalitarismi ma anche il capitalismo nelle sue strutture fondamentali.
Il rischio maggiore del momento storico, secondo Bevilacqua, era che questo capitalismo (ateo e tuttavia simia Dei) si organasse in perfetta simbiosi con un Dio simia mundi.
Si comprende allora perché, negli anni del dopoguerra, in sintonia con le posizioni dei dossettiani, ma anche di Carretto, di Mazzolari, di Zeno Saltini, di molti militanti delle Acli e della Cisl, Bevilacqua fosse innanzi tutto preoccupato del tentativo di presentare il capitalismo come naturaliter cristiano: “è un falso ed un sacrilegio contro la storia e contro la vita fare del messaggio evangelico l’aroma spirituale del mondo capitalistico”[44]. Egli, pertanto, si sforzava di fare emergere, senza ombra di dubbio, la contrapposizione inconciliabile tra cristanesimo e capitalismo.
Si riproponeva, dunque, l’esigenza di una resistenza anti-idolatrica che questa volta si rivolgeva al capitalismo contemporaneo. Era questa l’esigenza fondamentale, su un piano storico generale, per uno spirito evangelico:
Così l’antagonismo tra capitalismo e cristianesimo è l’identico antagonismo insanabile che esite tra Dio e l’idolo.
L’opzione indicata era, come sempre, chiara e netta: “Il cristiano deve optare per l’asse della miseria anche se troppi teologi e giuristi moderni si sono schierati evidentemente per l’asse dei satolli […] Eppure il nemico numero uno è l’ingiustizia d’oggi; solo secondo nemico è l’ingiustizia probabile del domani”[45].
3.5. Religione statica e religione dinamica
Su queste basi, Bevilacqua provava a rilanciare il suo modello di apostolato.
Sviluppando un parallelo derivato da Bergson, egli contrapponeva la vera religione, che è sempre dinamica, con l’immobilismo di una religione statica: bisognava promuovere la prima e contrastare il predominio della seconda. Fin dal 1946 Bevilacqua avvertiva: “Troppi cristiani d’Europa hanno trasformata la religione più dinamica della storia nella religione più statica “[46]. La religione statica rifiutava le esperienze religiose vitali, voleva rendere ‘ragionevole’ il Vangelo e perciò ne tarpava le possibilità misteriose ma reali, ignorava l’eroismo dei santi e si ergeva a protezione dei mediocri, rifiutava di compromettersi con i problemi reali, addormentava “ogni senso attivistico ed ogni percezione di responsabilità”[47].
Peraltro al di sotto dell’attivismo della grande mobilitazione cattolica di quei mesi e di quegli anni sembrava esserci, secondo Bevilacqua, una religione statica: uno spirito più di difesa che di conquista, una crociata difensiva anti-comunista più che una rivoluzione cristiana. Erano le conseguenze di un Cristianesimo prevalentemente statico, nato negli anni precedenti.
In questo contesto, dunque, come si è detto, Bevilacqua aggiornava e rilanciava il suo modello di apostolato: nessuna timidezza dei cristiani; occorreva opporsi a quel costume prevalente nella Chiesa che è fatto di incertezza, circospezione, posizione di difesa[48], non per superficiali aneliti di conquista, ma per un coraggio e una fortezza nella testimonianza.
In realtà, la religione statica con le sue paure, con le sue ossessioni difensive, impediva di vedere che il nemico non era esterno ma interno: “Nel mondo moderno i cristiani commettono l’imperdonabile errore di organizzarsi contro un assedio esterno e di cercare disperatamente sostegni e difese in strutture economiche, politiche, culturali soggette alle leggi del tempo e della storia. Così nasce un vero clericalismo “[49].
Per Bevilacqua, erano i grandi processi sociali e culturali contemporanei, gli stessi che avevano prodotto i totalitarismi, che insidiavano la Chiesa dall’interno, che plasmavano la psicologia sociale del popolo cristiano.
La soluzione, per Bevilacqua, stava in un recupero di coscienza escatologica, la quale avrebbe bruciato le scorie di un attivismo superficiale (o, meglio, superficialmente incarnazionista[50]), liberato dalle paure angosciose dei nemici esterni, aperto all’esigenza pura di trascendenza, dato la vera misura della cristianizzazione del mondo.
Il modello di apostolato, proposto da Bevilacqua, con gli aggiornamenti dettati dalla situazione storica del secondo dopoguerra, veniva così ad assumere alcuni tratti specifici e caratterizzanti. Innanzi tutto il cristiano, come apostolo e testimone, doveva essere una “sentinella avanzata” nella lotta per la giustizia sociale, con un “odio sterminato all’ingiustizia”[51] e secondo quel radicale scontro con l’anima del capitalismo, del quale si è già detto. Ancora, non doveva sperare in riesumazioni di assurdi e anacronistici regimi clericali o teocratici, ma piuttosto essere in grado di discernere la laicità, utile e necessaria, dalle differenti forme di erroneo laicismo[52]. Non lasciandosi impressionare dalle “troppe insistenze del clero su tutto ciò che divide gli uomini invece che su tutto ciò che li unisce”[53], doveva cercare un confronto onesto e sincero con il mondo moderno[54] e con il “fratello ateo”[55].
In particolare, poi, l’apostolo doveva essere una “sentinella vigile e avanzata” della “lotta contro la guerra”[56]. Bevilacqua si chiedeva se la tradizionale dottrina della guerra giusta potesse ritenersi ancora valida rispetto all’evoluzione della guerra stessa nell’era atomica[57].
Infine e soprattutto, gli apostoli e testimoni di Cristo dovevano essere uomini liberi – liberi dalla servitù delle cose, dagli uomini, dalle inquietudini del domani, dal peso del passato – “liberi di una libertà non giuridica ma essenziale, di una libertà che trova la sua massima espressione nel rifiuto netto di ogni struttura di sicurezza”[58]: liberi perché liberati da Cristo da ogni schiavitù, tanto spirituale quanto sociale[59]. In questo modo essi potevano realizzare una presenza “inequivocabilmente libera e liberatrice”[60], appunto perché fondata su “un’esperienza personale di liberazione”[61].
Qui però, proprio nel momento in cui il modello di apostolato proposto da Bevilacqua acquistava una sua compiutezza, non poteva non palesarsi l’alternatività di tale modello rispetto a quelli allora in auge: era una contraddizione evidente e stridente.
3.6. Critica al modello attivistico dell’Azione cattolica
Dopo l’Anno Santo del 1950 e fino alla morte di Pio XII nel 1958, la Chiesa italiana visse un particolare clima che combinava un trionfalismo e una monoliticità di facciata con diffusi disagi.
In tale contesto, nel 1950 Bevilacqua, con due articoli su “Humanitas” ripubblicati poi nel volume Equivoci. Mondo moderno e Cristo, avviava un ripensamento critico, radicale ed esplicito, delle forme prevalenti di apostolato nella Chiesa pacelliana. Tale riflessione, che sarebbe continuata per tutti gli anni ’50, sviluppava soprattutto, ma non soltanto, una severa analisi dell’Azione cattolica geddiana. Ciò implicava peraltro uno sforzo parzialmente autocritico: Bevilacqua era sempre stato, con Montini, vicino all’Azione cattolica, aveva condiviso attese e speranze, sforzi e illusioni dell’attivismo di conquista. Era stato tra i primi a valutarne i rischi: doveva ora portare a logica conseguenza, fino agli esiti ultimi, la parabola critica della sua analisi. Più in generale, tuttavia, la riflessione sull’Azione cattolica era solo l’aspetto principale di un approfondimento che riguardava le forme totalitarie della Chiesa nell’età di Pio XII.
Per parlare del modello geddiano, Bevilacqua usava il concetto di “proselitismo” e, senza troppe perifrasi o mediazioni concettuali, collegava le nuove forme di proselitismo religioso ai totalitarismi contemporanei. Era un’operazione audace: utilizzare il prisma concettuale del totalitarismo come strumento ermeneutico per l’interpretazione della storia contemporanea della Chiesa.
La Chiesa appariva sempre più, nonostante “grandi manifestazioni di fedeltà orchestrate da specialisti del colossale e da supertecnici del successo rapido”[62], una città assediata: non, principalmente, da atei, laicisti e comunisti, quanto soprattutto dall’interno, da quei cristiani per i quali “il fine è diventato mezzo […] il fare sensazione ha vinto il pudore che deve avvolgere il sacramento di Dio”[63].
Nel 1956, proprio nell’anno del XX Congresso del P.C.U.S., delle critiche di Kruscev a Stalin e al culto della sua personalità, dell’avvio, pur contraddittorio, del processo di de-stalinizzazione, Bevilacqua svolgeva un’efficace analisi del culto della personalità verso il Papa che si era prodotto, negli ultimi tempi, nella Chiesa cattolica Era un uteriore attacco al totalitarismo ecclesiale del tempo; quasi si direbbe un tentativo, su questo piano, di de-pacellizzazione.
Nel 1958, ormai a fine pontificato, Bevilacqua riassumeva le sue critiche al modello di apostolato geddiano-pacelliano: a suo avviso era non cristiano nei metodi. Proprio per questo egli difendeva la legittimità di una critica che fosse onesta autocritica, sincera confessione di colpe: “È di moda, in ambiente cattolico, l’accusa di “autolesionismo” ogni qual volta un “confiteor” rinuncia alla sua inespressiva genericità, entrando nel concreto che vale quanto più brucia; ciò però che importa non è di essere più o meno autolesionisti ma di essere veri e leali, non falsi ed acrobati”[64].
Nella sua “linea essenziale”, la critica complessiva, che Bevilaqua rivolgeva alla Chiesa di Pio XII e che ricomprendeva e ricapitolava tutti gli spunti critici particolari e specifici, riguardava la libertà: la necessaria libertà della Pentecoste, non la libertà del relativismo e della confusione, non la libertà di Babele. Non si trattava, peraltro, di democratizzare la Chiesa, in uno sforzo mimetico rispetto alle democrazie politiche contemporanee. Si trattava di recuperare il profilo evangelico della “libertà dei santi” per depurare la Chiesa dalle sovrastrutture e dalle deformazioni, introdotte da un riflesso mimetico rispetto ai totalitarismi contemporanei.
Se Bevilacqua respingeva l’aggressione ribelle di certo cattolicesimo progressista, riprendeva e riproponeva però il modello della resistenza spirituale. Ma non era più una resistenza verso l’esterno, verso il totalitarismo-religione politica che divinizzava l’umano, era invece una resistenza interna, umile e quotidiana, verso il totalitarismo ecclesiale e le forme di apostolato che umanizzavano il divino.
Epilogo
Gli ultimi anni della vita di Bevilacqua, gli anni del Vaticano II, dell’avvio del pontificato di papa Montini, del cardinalato, furono anni in cui ci fu una consacrazione al massimo livello della figura del filippino della Pace. Egli potè pure portare, com’è ben noto, un contributo diretto ai lavori del Concilio in tema di liturgia.
Tuttavia non è forse azzardato chiedersi se, in realtà, vi fu la consacrazione del suo modello pastorale o non piuttosto della sua persona. Negli anni del Concilio e poi soprattutto del post-Concilio molte delle speranze e delle attese di Bevilacqua videro certo realizzazione. Ma il suo modello di apostolato, forse, fu lasciato da parte. Mi riferisco a quella visione di una mistica fondata sull’ascetica, che avrebbe dovuto formare caratteri forti e insieme miti: animati dallo Spirito di libertà e lanciati, con una coscienza escatologica e con disposizione al sacrificio, verso la liberazione dal peccato, che significava anche liberazione dell’uomo, soprattutto dalle ingiustizie sociali, e liberazione della Chiesa dai residui di totalitarismo, insinuatisi nella sua vita interna.
Proprio per questo la sua parola può apparire oggi inattuale. E tuttavia, se talune delle sue critiche possono ancora colpire, suscitare qualche fremito di disagio o anche illuminare speranze, vuol dire che non di morta inattualità potrebbe trattarsi, ma di viva profezia.
[1] Testo predisposto dall’Autore, che comparirà nel volume di prossima pubblicazione: G. Canobbio – A. Monticone – F. De Giorgi (e altri), La figura e l’opera del card. Giulio Bevilacqua a quarant’anni dalla morte (a cura di L. Ghisleri e R. Papetti), di prossima pubblicazione presso Centro di Documentazione – Morcelliana, in occasione della conferenza tenuta a Brescia il 16.9.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
[2] Giustamente Cistellini ha scritto: “E fra i titoli e gli appellativi onde rimarrà fregiato il nome del Padre Bevilacqua, dovrà brillare eminente, dopo quello di sacerdote, il titolo di “prete oratoriano filippino”“ (A. Cistellini d. O., Il “prete oratoriano filippino”, in AA. VV., Scritti e testimonianze in memoria di Padre Giulio Bevilacqua cardinale 1881-1965, Brescia, La Scuola, 1965, p. 58).
[3] Di S. Paolo, nel gennaio 1941, Bevilacqua diceva: “È il più gran teologo della Chiesa con la sua dottrina che ha sistemato la Rivelazione attorno al concetto centrale del Corpo Mistico” (Brevissimi schemi delle lezioni di religione tenute alla <<Pace>> 1940-1941, in AA. VV., L’impegno religioso e civile di P. Giulio Bevilacqua, cit., p. 253).
[4] G. Bevilacqua, Equivoci. Mondo moderno e Cristo, Brescia, Morcelliana, 1950, pp. 89, 101.
[5] Tra i libri di Bevilacqua compaiono: B. Pascal, Pensée, Paris, Flammarion, 1913; F. Strowski, Pascal et son temps, Plon Nourrit, 1910.
[6] Scriveva : “L’Italia ha saputo realizzare la più alta sintesi fra cielo e terra in Dante, come nella generazione dei grandi mistici, dei grandi umanisti cristiani, dei giganti della controriforma” (G. Bevilacqua, Mentalità primitiva, [1923], in Id., Scritti tra le due guerre, cit., p. 369).
[7] Ibid., p. 370.
[8] Tra i libri di Bevilacqua figurano: A. Gratry, Lettres sur la religion, Paris, C. Douniol J. Lecoffre et C.ie, 18693; Id., Commentaire sur l’Évangile selon saint Matthieu, Part. I, Paris, Téqui, 1909; Id., De la connaissance de l’ame, Paris, Téqui, 19208.
[9] Bevilacqua, La luce nelle tenebre, cit., p. 51.
[10] Bevilacqua, In memoria di mons. Giuseppe Manzini, cit., pp. 106-107.
[11] Cfr. G. Barra, L’esperienza parrocchiale di P. Bevilacqua, in “Humanitas”, 20 (1965), 6-7, pp. 583-599.
[12] Cfr. G. Bevilacqua, Esperienze di accostamento e di contatti dei lontani in parrocchia, in AA. VV., La comunità cristiana e i lontani, Milano, Didascaleion, 1959, pp. 181-186.
[13] Bevilacqua citava dalle Confessioni di S. Agostino: “L’orgoglio è contraffazione di grandezza quando Tu solo o Dio, sei grande sopra tutte le cose. E l’ambizione non s’affatica a cercare gloria quando Tu solo sei glorioso? La crudeltà vuol rendere formidabile la potenza. E chi è formidabile se non Tu solo, o Dio?… E la curiosità si ammanta di bramosia di scienza e Tu scendi nelle profondità di ogni cosa… Così si fa adultera l’anima quando, sviandosi da Te, cerca, fuori di Te, ciò che non può trovare puro e schietto, se non tornando a Te!” (Bevilacqua, La luce nelle tenebre, cit., p. 18).
[14] Bevilacqua affermava infatti: “Sotto Costantino, il mondo ammanta di fede la sua insanabile incredulità; per ogni bassezza, per ogni menzogna pagana cerca la veste che l’introduca nell’assemblea dei redenti. Nelle eresie medioevali il mondo nasconde le tetre propagini manichee sotto principii che sembrano battezzati dal fuoco […]. Con faccia mutata ancora, è sempre lo stesso mondo che, nel rinascimento, costruirà templi di bellezza lasciando rovinare l’unico tempio costruito di pietre viventi; che, alla soglia dell’età moderna, pretenderà liberare la coscienza religiosa per poi invece lacerarla tra due forze divergenti: l’intangibilità del libro santo e il libero esame!” (ibid., pp. 265-266).
[15] Ibid., p. 126.
[16] Ibid., p. 126.
[17] G. Bevilacqua, La politica dei giovani, [1919], in Id., Scritti tra le due guerre, cit., p. 349.
[18] Ibid., pp. 25-27, 273.
[19] Ibid., p. 159.
[20] Ibid., pp. 372-373.
[21] Bevilacqua osservava: “Quando si parla d’odio non si pensi alla trincea […] Quest’odio è l’odio meno resistente perché una parola, un grido, un ricordo lontano di Dio e della madre, disarma e tramuta in pietà profonda. Ma l’odio che domina tutta una vita imperniata su la concorrenza, è l’odio tipico, costante, trincerato di ferro, di egoismo, di ricchezza, di correttezza, di istinto incontrastato sotto la forma più civile. È questo l’odio che domina le mosse della politica, la Borsa, l’industria con la scienza di tutte le sofisticazioni, il commercio con tutte le sue menzogne, l’alta finanza con tutti i delitti che Dio solo può misurare, l’azione dei partiti con tutte le sue imboscate sanguinose” (ibid., pp. 381-382).
[22] Tra i suoi libri figura pure: G. Goyau, Le catholicisme, doctrine d’action, Tourcoing, Duvivier, 1922.
[23] G. Bevilacqua, Risposta all’onorevole Giarratana, ibid., pp. 391-392.
[24] Cfr. ovviamente G. Bevilacqua, I patti lateranensi dopo trent’anni, in “Humanitas”, 14 (1953), 3, p. 182. Tra i libri di Bevilacqua figurano: AA. VV., Mussolini e il suo fascismo, Firenze, Le Monnier, 1927; Ignotus, Stato fascista, Chiesa e scuola, Roma, Libreria del littorio, 1929; M. Bedel, Fascisme, au VII, Paris, Gallimard, 1929; G. D’Annunzio, Il libro ascetico della giovane Italia, Il Vittoriale, 1935; M. Missiroli, date a Cesare: la politica religiosa di Mussolini con documenti inediti, Roma, Libreria del littorio.
[25] Tra i suoi libri figurano: J. Maritain, Trois réformateurs: Luther, Descartes, Rousseau, Paris, Plon Nourrit, 1925; Id., Réflexions sur l’intelligence et sur sa vie propre, Paris, Nouvelle librarie nationale, 1926; Id., Art et scolastique, Paris, Louis Rouart et fils, 1927; Id., Religion et culture, Paris, Desclée De Brouwer, 1930; Du régime temporel et de la liberté, Paris, Desclée De Brouwer, 1933; Id., Questions de conscience: essais et allocutions, Paris, Desclée De Brouwer, 1938; Id., Quatre essais sur l’esprit dans sa condition charnelle, Paris, Desclée De Brouwer, 1939.
[26] Cit. in C. Manziana, La testimonianza religiosa di P. Giulio Bevilacqua, in AA. VV., L’impegno religioso e civile di P. Giulio Bevilacqua, cit., p. 28.
[27] Cfr. L. Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1989, p. 39.
[28] Ibid., p. 260.
[29] Cit. ibid., pp. 286-287.
[30] Ibid., p. 163.
[31] De Luce – Minelli, Carteggio, cit., p. 303.
[32] Cit. in Mangoni, In partibus infidelium, cit., p. 156.
[33] Cit. ibid., p. 62.
[34] Ibid., p. 227: lettera di Minelli del 16 aprile 1932.
[35] Ibid., p. 276: lettera di De Luca del 29 luglio 1932.
[36] Ibid., p. 286: lettera di De Luca del 25 agosto 1932.
[37] Ibid., p. 277: lettera di De Luca del 29 luglio 1932.
[38] Ibid., p. 337: lettera di De Luca del 27 gennaio 1933.
[39] Cfr. P. Mazzolari, Quasi una vita. Lettere a Guido Astori, Vicenza, La Locusta, 1974, pp. 86-88 (lettere del 23 maggio e del 3 agosto 1927). Ma, più in generale, cfr. anche C. Manziana, Don Mazzolari e l’Oratorio della Pace, in “Città e dintorni”, (1990), 23, pp. 56-58.
[40] Tutti i documenti citati sono stati pubblicati in: P. Mazzolari, La più bella avventura e le sue “disavventure” 50 anni dopo, a cura di F. Molinari: Quaderno supplemento a “Notiziario Mazzolariano”, (1984), n. 3.
[41] Bevilacqua, L’uomo che conosce il soffrire, cit., p. 194.
[42] Ibid., p. 120.
[43] Ibid., pp. 70-72, 174-175.
[44] Ibid., p. 146.
[45] Ibid., p. 31.
[46] Bevilacqua, Equivoci. Mondo moderno e Cristo, cit., p. 4. E continuava: “Quante formule servono, ancor oggi, da corazza o da maschera a questa religione puramente statica: religione affare privato: cioè religione che dispensa da ogni compromissione con i potenti e con le complessità della vita intensamente vissuta – religione del sentimento: cioè religione che permette al cervello i suoi sogni, le sue incoerenze, i suoi letarghi – religione di pura interiorità: esenzione dallo sforzo creativo per adeguare la realtà sociale alle suggestioni impellenti del Vangelo – religione esclusivamente tradizionale: torpore nella sicurezza di poter vivere spiritualmente di rendita in un mondo ormai deciso ad impedire che alcuno possa vivere solamente sfruttando il passato” (ibid., pp. 6-7).
[47] Ibid., p. 8.
[48] Ibid., p. 69.
[49] Ibid., p. 46.
[50] Osservava infatti: “Certamente un agguato continuo insidia l’avvento del regno […]. La inserzione continua nella storia non è scevra di pericoli e di tentazioni; prima tentazione e pericolo primo quello di deformare le supreme realtà asservendole al dictat dei cesari, dei dittatori, delle folle ad un tempo serve ed asservitrici” (ibid., p. 19).
[51] Bevilacqua, Equivoci. Mondo moderno e Cristo, cit., pp. 161-163.
[52] Ibid., pp. 231-232, 251.
[53] Ibid., p. 86.
[54] A proposito del rapporto tra mondo cristiano e mondo moderno, Bevilacqua scriveva: “Si fa strada, da un lato e dall’altro della trincea, la convinzione che l’uno non può far a meno dell’altro senza sacrificare se stesso […]. Sono due mondi chiamati a comprendersi e a cercarsi, non per abdicare ma per affermarsi, ciascuno nell’essere proprio” (ibid., p. 36).
[55] Bevilacqua osservava: “Il fratello ateo ha il diritto di parlarci di un martirio a lui proveniente dalla sua vita avvolta in un mistero universale ed impensabile di assenza […]; noi abbiamo però il diritto di rivelargli ciò che egli non sospetta neppure lontanamente: il martirio che proviene dal mistero della più terribile, sebbene fascinante, Presenza” (ibid., p. 15).
[56] Ibid., p. 204.
[57] Ibid., pp. 207-209.
[58] Ibid., p. 108.
[59] Ibid., p. 158.
[60] Ibid., p. 33.
[61] Ibid., p. 132.
[62] G. Bevilacqua, Città assediata, in “Humanitas”, (1956), p. 102.
[63] Ibid., p. 108. E osservava: “Talora problema di stile; ma di stile che deforma e oscura l’essenziale. Un prete santo veronese tracciava così le vie della salvezza del mondo: “L’opera sarà grande se sarà piccola – sarà ricca, se sarà povera – avrà la protezione di Dio se non cercherà quella degli uomini”. Magnifica sintesi evangelica che racchiude uno spirito, un metodo, un monito accorato a coloro che al grano di senape preferiscono il parto delle montagne di pietra, alla povertà la disposizione dei massimi mezzi, alla protezione di Dio la protezione dei grandi” (ibid., p. 107).
[64] Ibid., p. 5.