Properzio e l’amore oltre la morte

Cinzia fu la donna cantata da Properzio, la quale, prima che le rughe ne deturpassero il volto, ancora giovane, morì. Ma il nostro poeta non poté scordare del tutto questa donna che, se l’aveva fatto soffrire, gli aveva anche dato momenti di gioia e di romantico abbandono inobliabili; rimase certamente in lui un dolce, nostalgico e affettuoso ricordo anche dopo la rottura e, ancor più, dopo la morte.
E così quella Cinzia che, finché era in vita e l’amore del poeta era vivo, era già stata oggetto e motivo di idealizzazione letteraria e mitica, ritorna da morta alla mente e al cuore del poeta, avvolta da un alone nuovo di poesia; allora a Properzio, come molti secoli più tardi a Dante e a Petrarca, la donna amata, dopo la morte, apparirà in una luce tutta nuova, idealizzata e sognata, ispiratrice di poesia come forse non fu mai mentre era in vita.
Ciò avvenne nella settima elegia del quarto libro, che ha una bellezza veramente singolare nella poesia antica. L’amore di Cinzia trionfa per l’ultima volta nella bellezza di purità e idealità consacrata dalla morte: Cinzia, da poco morta, appare al poeta in una visione notturna. Dapprima ci imbattiamo in una affermazione che più che una certezza esprime una speranza: che quel tremendo mistero della morte non sia la fine di tutto, ma solo un passaggio che permetta ancora una certa "corrispondenza d’amorosi sensi", quasi una rinnovata unione al di sopra di ogni meschinità e di tutte le increspature della umana passione: "C’è davvero l’aldilà; la morte non finisce ogni cosa e l’ombra pallida sfugge al rogo".
Poi seguono alcune note realistiche e forti, proprie dell’arte romana, che anche la morte vede nella plastica concretezza del reale: "Ancora i suoi capelli… bruciata un po’ la veste", così gli appare nel sonno. Ella teme, forse non senza ragione, che nel suo amante non sia rimasto nessun ricordo di lei, nessuno di quei legami affettivi che vivono solo nell’anima. Allora per prima cosa non sa ricordare all’uomo, che pure le aveva dato tante prove d’amore, null’altro che dei ricordi sensuali e le notti della chiassosa Suburra, quando per trascorrere qualche istante di fugace malinconica felicità, si calava furtivamente dalla finestra: "Perfido, già su di te può far presa il sonno? Già hai potuto obliare la Suburra e le veglie furtive e la finestra donde scendevo aggrappandomi con le mani per gettarmi al tuo collo? … Ah, giuramenti segreti, parole fallaci che i venti non ascoltarono e dispersero! Nessuno ci fu che mi consolasse quando i miei occhi vennero meno: al tuo richiamo avrei potuto vivere ancora almeno un altro giorno". Quanta tristezza in queste ultime parole e in quelle che seguono! Quale impeto lirico che si muta a poco a poco in dolce melanconico canto, a cominciare da quella tegula curta adoperata per sorreggere il capo sulla bara, segno indubbio di povera sepoltura, e quell’abbandono e quello squallore che circonda le estreme esequie; abbandono tanto più triste perché proprio da parte di chi più ella aveva amato, anche se l’amore, la fedeltà, il servare fidem era, per quella creatura di piacere, nient’altro che una costanza di rapporti mantenuti attraverso tanti disordini, tanti capricci e tante infedeltà.
Nell’alternarsi di rassegnazione, mestizia e sordo rancore nel ricordo della sua povera morte, più alto e commosso spira il pianto per colui che non le fu vicino nell’ora suprema e non le fece dono di neppure un gesto di affettuoso ricordo: "Perché tu stesso non hai implorato i venti per il mio rogo? Perché le mie fiamme non odorarono di profumi? Ti era così grave gettare sulla mia tomba poveri giacinti?". Poi Cinzia gli raccomanda la vecchia nutrice: "Pur potendo, non fu avara con te". Quindi il pensiero torna alla sua tomba e dal quel Properzio, che le aveva dedicato quasi tutta la sua attività di poeta, facendo di lei il faro luminoso, la guida e l’ispiratrice dei suoi componimenti, chiede ora, con tenera umiltà, solo due versi da porre come epigrafe sulla sua tomba: "Qui giace in terra tiburtina l’aurea Cinzia; ecco una gloria di più per le tue rive, o Aniene".
E ancora lo sente legato a sé e lo aspetta al di là dei confini della vita, poiché nessun altro legame potrà mai pareggiare quello che strinse questi due amanti: "Ora ti posseggano pure le altre; presto io sola ti terrò: sarai con me e le mie ossa stringerò alle tue", ma quanto è più forte l’espressione latina "et mixtis ossibus ossa teram", che sembra rispondere a ciò che in un’altra elegia dice Properzio: "Sis quodcumque vis, non aliena tamen" e cioè "sii ciò che vuoi, ma non essere mai di nessun altro". Così, con questa che più che una promessa di Cinzia è una speranza per Properzio, quella di un vincolo che, continuando il legame terreno assicura con la sua sopravvivenza la possibilità di una vita ultraterrena, si conclude questa splendida e commovente elegia.
Properzio non giunse mai ad un’alta spiritualità e ad una fede precisa nell’immortalità dello spirito, eppure qui nella solitudine cupa del mistero, in questa atmosfera quasi sacra che avvolge la morte e il poeta che la contempla, egli sente il bisogno di riaffermare la vita: l’amore troppo sensuale è ormai purificato dal dolore: "Sic mortis lacrimis vitae sanamus amores" ("così con le lacrime della morte riscattiamo i nostri amori"), e l’eterno, che pareva escluso dalla fugacità del piacere, è riaffermato dalla santità della tomba. Certo non si deve pensare che in questa elegia Cinzia sia tutta una figura idealizzata dal sogno e dalla morte. Essa porta ancora con sé tutte le passioni terrene, quella più grande dell’amore che non conosce i limiti della morte e quelle più piccole della gelosia per un rivale, dell’odio per i suoi nemici, del desiderio della vendetta, del risentimento e del rammarico per la poca cura che Properzio ha avuto del suo corpo; solo verso la fine la figura di Cinzia si leva al di sopra della materia per quell’eternità dell’amore che supera la morte e per una certa vaghezza di sogno che la innalza in un incanto misterioso e indefinito, originato proprio da quell’insieme di ansie e di sensazioni che nascono nel poeta di fronte al mistero della morte, mistero così drammaticamente annunciato fin dal primo verso: "Sunt aliquid Manes".
Leggendo questa e altre poesie, ci sembra lecito affermare che veramente Properzio non si ingannò nello sperare in una qualche sopravvivenza dopo la morte, non solo per quel che riguarda un’immortalità dell’anima oltre i confini della vita, ma anche per quell’immortalità nel ricordo degli uomini che solo la poesia può dare.
 

Giornale di Brescia, 13.10.1990.