Giornale di Brescia, 24 ottobre 1992. Articolo scritto in occasione dell’incontro organizzato per il 26 ottobre con il prof. Giuliano Sansonetti.
Nel corso di quest’ultimo decennio l’orizzonte del dibattito filosofico si è finalmente spostato sul problema morale. Le grandi domande «come debbo agire?» e «che cosa rende una vita degna di essere vissuta?» tornano a proporsi nella loro ineludibilità sia per i singoli, in quanto persone, che per le società attraverso le quali i singoli realizzano se stessi ed un comune destino. Irrisa, accantonata, elusa dalle filosofie alla moda, la ragion pratica è oggi chiamata in causa perché la società tecnologica ha un assoluto bisogno di etica, e di un’etica criticamente fondata, così come la democrazia e più in genere qualsiasi ordinamento politico sono destinati al più infausto epilogo se la loro prassi nega i principi morali che sono al fondamento di ogni civile convivenza.
Il grande ritorno della riflessione sulla possibilità e sui principi costitutivi dell’etica nella civiltà tecnologica è stato preparato, non a caso, soprattutto da quei filosofi tedeschi e austriaci che hanno rifiutato sia il totalitarismo nazista che quello comunista e che, costretti all’esilio, si rifugiarono in Inghilterra e negli Stati Uniti, come gli ebrei Hannah Arendt e Günther Anders, o il cattolico Erie Voegelin. Si rifugiò invece in Palestina, combattè contro il nazismo come soldato dell’esercito inglese e poi insegnò a lungo negli Stati Uniti un’altra eminente figura dell’intelligenza ebraica tedesca, Hans Jonas, il quale ha dedicato la sua ultima e più importante opera, Il principio responsabilità (Das Prinzip Verantwortung) proprio alla riabilitazione della filosofia pratica e alla difesa del suo primato. Il principio responsabilità, pubblicato nel 1979, divenne un vero e proprio best seller e nel ‘90 è stato tradotto in italiano da Einaudi. La voce di Hans Jonas ha trovato un’eco straordinaria sia in Europa che in America, ma soprattutto in Germania, che assegnò nell’87 al filosofo il premio della pace da parte dell’editoria tedesca: un premio di cui erano stati insigniti nel passato personalità della levatura di Albert Schweitzer, Martin Buber, Karl Jaspers. L’opera maggiore di Hans Jonas ha un impianto classico nel suo argomentare e ha il merito di farci riscoprire «i venerabili problemi della coscienza» alla luce degli interrogativi dettati dalle nostre esperienze quotidiane e dalle nostre paure di uomini che viviamo in un’età tecnologica e temiamo per il nostro futuro.
Jonas, però come ogni autentico pensatore, è in grado di discutere con ampiezza le sue tesi, ma sa anche condensare il suo pensiero e metterne in evidenza, con grande chiarezza, le linee essenziali in poche pagine. Cosa che egli ha fatto egregiamente nella sua breve autobiografia intellettuale che la Morcelliana di Brescia ha recentemente tradotto col titolo Scienza come esperienza personale, in cui si trova il testo-chiave del pensatore tedesco, «Tecnica, libertà e dovere», che è poi il discorso di ringraziamento tenuto a Francoforte l’11 ottobre dell’87 in occasione del conferimento del premio della pace. È a quel testo che bisogna rifarsi perché esemplarmente perspicuo e perché in esso vibra una passione per l’uomo, in cui tutti dovremmo riconoscerci e convenire.
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Goethe mette sulle labbra di Faust morente le famose parole: «Aprirò a molti milioni di uomini uno spazio perché vi abitino non già sicuri, ma liberamente operosi… Qui, all’interno, una terra paradisiaca; là fuori l’onda infuri pure sino all’orlo» (Faust, parte 11, atto V). L’aggressione della tecnica alla natura non poteva essere descritta con parole più esaltanti, ma è lecito chiedersi se la meta gloriosa riluce ancora in tutto il suo splendore per noi uomini del XX secolo. Faust era cieco quando si raffigurava in quei termini il sogno dell’umanità futura; noi, invece, di quel sogno divenuto realtà misuriamo anche i costi divenuti negativi e le illusioni, che ne fanno ormai un incubo.
Faust parla dell’onda che fuori infuria fino all’orlo e minaccia di precipitare dentro a rovinare le opere della civiltà. Qualche volta è ancora così, certamente, ma l’onda più pericolosa, quella più carica di impegno distruttivo è ormai la forza travolgente della nostra stessa civiltà a causa degli effetti che produce. Così i fronti si sono rovesciati. Piuttosto che difenderci dalla natura, dobbiamo proteggere la natura da noi stessi. Siamo diventati più pericolosi noi per la natura di quanto mai essa sia stata per noi, e dunque la natura si vendica diventando sempre meno abitabile per il suo dominatore. Grazie al salto qualitativo del potere tecnologico nel Novecento, la superiorità dell’uomo è così estesa e unilaterale da trasformare i suoi interventi in una minaccia riguardo all’insieme della natura presente e futura. Insomma, siamo al punto in cui la vittoria troppo grande minaccia il vincitore.
Jonas ha detto molto bene: «Siamo diventati il nostro maggior pericolo proprio per i nostri stupefacenti risultati nel dominare le cose. Dunque il pericolo da cui ora siamo circondati e contro cui d’ora in poi dovremo lottare siamo noi». E ancora: «Se nell’acquisire la sua supremazia, l’uomo ha mostrato quanto può l’opera di un’intelligenza inventiva sempre più alta, nel farne uso è stato cieco e ha potuto rimanere tale finché il premio delle vittorie ha sovrastato le punizioni della Terra. Questo lungo periodo di tolleranza della cecità è, però, ormai trascorso. La relazione fra l’uomo e la natura è entrata in una nuova fase». Doveri nuovi e mai prima conosciuti si pongono, pertanto, dinanzi alla coscienza e all’esercizio della libertà dell’uomo d’oggi con un’urgenza che non ammette ritardi ed errori.
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Quali sono le novità cui fare i conti e come sono emerse? Per un verso o per l’altro esse sono tutte connesse ai successi conseguiti dallo straordinario sviluppo tecnologico. Sono sotto gli occhi di tutti: il vertiginoso incremento demografico; gli interrogativi paurosi posti prima dal confronto nucleare tra le superpotenze e poi dalla proliferazione delle armi atomiche; il problema delle scorie atomiche e dei rifiuti tossici. Le novità, in breve, sono quelle attestate dal sorgere di nuove discipline del sapere quali la bioetica, l’ecologia, la tecnologia genetica. Insomma, nuovi poteri nelle mani dell’uomo significano inevitabilmente nuovi pericoli, e dunque anche nuove responsabilità. «Dopo aver aperto gli occhi – scrive Jonas – la libertà deve riconoscere che tutto è in gioco per opera sua e ché essa è la sola responsabile. È dunque spontaneo passare dall’origine e dal potere della nostra libertà al suo dovere».
In che modo oggi si possono precisare i doveri della libertà? La domanda esigerebbe un’articolata risposta. Qui ci limiteremo, invece, a una sola indicazione, benché decisiva. Il primo dovere di ogni libertà anzi la condizione della sua sussistenza, è che essa si ponga dei limiti. È un dovere che ci tocca tutti e che ci prescrive di imbrigliare il nostro potere, quindi di ridurre i nostri consumi e i nostri piaceri per amore di un’umanità futura. Ma siamo pronti a uscire dall’angustia dell’egoismo? Per vivere degnamente occorri, infatti, sentirci responsabili non solo verso ciò che è prossimo e presente, ma anche verso il lontano ed il futuro. È quanto ci comanda di far esistere con la nostra azione l’idea di responsabilità, «il principio responsabilità», che si manifesta in origine nel rapporto genitori-figli fino a protendersi verso un futuro che non vedremo e a tutta la famiglia umana.
Si dirà: che cosa posso fare io dal momento che il potere tecnologico è collettivo, non individuale? Essendo un potere collettivo, a dominarlo può essere solo un potere collettivo, cioè, in ultima analisi politico; e almeno nelle democrazie il potere politico proviene dal popolo. Attraverso la libertà politica ogni singolo è quindi anche soggetto del nuovo potere. Occorre, però, un’educazione della mentalità generale al «principio responsabilità» ed anche questa è una chance della libertà che ci consente di sperare. Educare al superamento degli interessi immediati, eccessivi e miopi, far prevalere nell’opinione pubblica un atteggiamento di disinteressata lungimiranza non dovrebbe essere il metodo ed insieme il criterio programmatico di fondo di una rinata «internazionale», che bisogna pur costituire, essendo in gioco il nostro destino e quello del pianeta? Se invece continuano a prevalere le demagogie e la più sfrenata auto-indulgenza, la voce della responsabilità ammutolirà. È quello che non deve assolutamente accadere.