I-Alle origini del dado tratto Nella notte tra il 10 e l’11 gennaio del 49 a.C. Cesare attraversava il Rubicone, un fiumiciattolo dell’attuale Romagna, dando così avvio alla guerra civile che l’avrebbe contrapposto al Senato e a Pompeo. Sono trascorsi dunque 2055 anni da quella notte, quando cinque sole coorti, cioè un nucleo ridotto delle legioni di cui Cesare disponeva, entravano illegalmente nel pomerium, cioè all’interno dello Stato romano vero e proprio, dove non era consentito portare truppe in armi. Il celebre grido del comandante che dava inizio all’operazione, Alea iacta est, il dado è tratto, significava l’avvio di un processo che poneva Cesare fuori dalla legalità e lo portava allo scontro con le istituzioni, sulle quali solo con la forza delle armi si sarebbe imposto. In realtà, scrive lo storico Luciano Canfora ne Il dittatore democratico, una monografia dedicata a Cesare, la frase probabilmente fu Alea iacta esto, cioè con l’imperativo futuro con valore esortativo: Il dado sia tratto, lanciamo il dado! Ci conferma questa dizione il confronto col racconto greco di quegli avvenimenti, così come lo possiamo leggere in Plutarco, nella Vita di Cesare e in quella di Pompeo. Nella forma greca quelle parole costituivano una frase proverbiale, che possiamo trovare anche nei frammenti delle commedie di Menandro: la si pronunciava, quando ci si metteva in gioco per un’azione rischiosa, rompendo gli indugi precedenti. Proviamo ora a spiegare gli antefatti di quella notte, per capire il significato politico e giuridico del gesto compiuto. Cesare avrebbe dovuto licenziare l’esercito di cui disponeva, e che era reduce dalla campagna di Gallia, perché era vietato entrare con l’esercito all’interno dell’Italia: i confini settentrionali erano segnati dal Rubicone verso l’Adriatico e dall’Arno verso il Tirreno. A nord dell’Italia vera e propria di allora c’erano le province, come la Gallia Cisalpina, dove noi ora viviamo: cioè zone al di fuori del pomerium. Il fatto è che Cesare non aveva alcuna intenzione di congedare le sue truppe, delle quali aveva bisogno come base del potere personale che stava costituendo: però aveva anche bisogno di presentarsi candidato alla carica di console per l’anno successivo, cioè per il 48. E per questo occorreva recarsi personalmente a Roma, in base a una legge varata nel 63 da Cicerone console; legge che poi era stata ribadita da una legge di Pompeo del 51, che comportava la necessità della presenza dei candidati a Roma, nel periodo preelettorale. Ma Cesare nell’anno precedente, cioè nel 52 a.C., aveva ottenuto un successo giuridico di segno opposto: era accaduto infatti che i tribuni della plebe fossero riusciti ad approvare un plebiscito che autorizzava nominalmente proprio Cesare a presentare la sua candidatura anche se assente. Il vincitore della guerra gallica aveva fatto bene i suoi conti, con una strategia che muoveva a partire dall’anno 55, quando, ancora impegnato oltre le Alpi, si era fatto prorogare il potere da proconsole per altri cinque anni, a partire dal successivo. L’aveva fatto solo per allungare il periodo di detenzione di una carica, o per garantirsi polticamente da qualche insidia? La risposta degli storici è priva di dubbi: il potere proconsolare serviva a renderlo inattaccabile in tribunale, dove i suoi avversari da anni cercavano di portarlo per le irregolarità commesse durante il primo consolato, quello del 59. In quell’anno, varie e ripetute erano state le violazioni del diritto compiute da Cesare, ormai forte del potere di cui disponeva e delle ricchezze familiari e personali accumulate. Perciò Catone e altri senatori avversari aspettavano il giorno in cui fosse scaduto di carica per citarlo in giudizio. Cesare era coperto dall’immunità, come abbiamo visto, valevole fino all’inizio dell’anno 49; contemporaneamente egli aspettava che trascorressero i dieci anni previsti dalla legge, prima di ripresentarsi candidato al consolato; e, visto che era stato console nel 59, i dieci anni scadevano appunto col 49. Dunque egli poteva candidarsi a console per l’anno 48, ma la sua presenza a Roma da privato cittadino l’avrebbe esposto al rischio di essere processato proprio durante quell’anno 49. Mantenere le truppe, evidentemente, lo salvaguardava dal rischio di un arresto; perciò Cesare decise di porsi fuori della legalità: copriva, col potere che gli derivava dalle cariche, le illegalità precedenti.
II-Uno squillo di tromba al Rubicone Abbiamo visto che la decisione di Cesare, di entrare con le truppe in armi nei confini dell’antica Italia equivaleva a una clamorosa uscita dalla legalità repubblicana. Tuttavia il futuro dittatore tentò nell’inverno tra il 50 e il 49 di non giungere a questo passo: la condizione era di trovare adeguata risposta dall’altra parte, ove però Pompeo non rappresentava il più ostinato dei suoi avversari. I nemici veri di Cesare, in un Senato che in maggioranza gli era ostile, si trovavano in Catone, Cecilio Metello Scipione, nuovo suocero di Pompeo dopo la morte di Giulia figlia di Cesare, e nei nuovi consoli eletti per il 49, cioè Claudio Marcello e Lentulo Crure. All’inizio dell’anno 49 Cesare scrisse da Ravenna (a nord del Rubicone, quindi fuori dal pomerium), ove si trovava in attesa degli eventi, una lettera al Senato di Roma, nella quale chiedeva che gli fosse mantenuto il privilegio di presentarsi candidato al consolato, anche se assente da Roma. Sappiamo che si trattava di un’eccezione, accordatagli grazie agli amici tribuni della plebe, perché la legge vietava le candidature in absentia. Se il Senato avesse accettato la sua proposta, probabilmente la guerra civile non sarebbe scoppiata. Invece, in una drammatica seduta del 7 gennaio, la lettera di Cesare non venne neppure tenuta in considerazione. Cicerone era da poco rientrato a Roma dalla Cilicia e non ebbe parte di rilievo nella seduta; ebbero il sopravvento invece i nemici giurati di Cesare, i quali impedirono ai tribuni come Antonio e Cassio Longino, amici di Cesare, di intercedere in suo favore. Alla fine della giornata del 7 gennaio il Senato emanò un decreto di emergenza, quello che si chiamava un senatus consultum ultimum: una decisione, cioè, che affidava ai consoli ogni potere straordinario per combattere un nemico pubblico, quale ormai Cesare appariva agli occhi del Senato. La sera di quel 7 gennaio i tribuni Antonio e Longino, sentendosi in pericolo per la loro incolumità personale, abbandonarono di nascosto Roma e risalirono la Penisola, per congiungersi con Cesare a Ravenna. Ma il vincitore della Gallia non stava attendendo inerte gli avvenimenti. Prima ancora di incontrare i tribuni suoi fedeli, Cesare aveva saputo della seduta del Senato e della fuga dei tribuni da Roma. Decise così di interpretare l’episodio come una loro cacciata: cioè come un atto di violenza politica nei confronti di uomini delle istituzioni, insigniti di una carica pubblica. Perciò aveva deciso di muoversi, sfruttando le minacce ai tribuni come pretesto per dimostrare che l’illegalità non era dalla sua, ma dall’altra parte: la violenza politica contro Antonio e Longino era solo l’ultimo atto di un più generale accanimento nei suoi confronti, che conosceva manifestazioni diverse. Quando calò il buio della sera tra il 10 e l’11 gennaio, Cesare si avvicinò con un carro alla linea del Rubicone, dove cinque coorti lo attendevano per il passaggio. Le altre legioni rimanevano per il momento ferme, in attesa degli ordini. Ma sbagliò strada nell’avvicinamento al fiume: errò tutta la notte, finché faticosamente ritrovò le truppe appostate; ma era dubbioso, insieme a quelle, sul da farsi. Un episodio imprevisto avrebbe però sbloccato gli eventi. Mentre regnava l’incertezza generale, si fece avanti un uomo di statura imponente, un gigantesco Gallo che prestava servizio nell’esercito. Plutarco racconta che quello si sedette accanto ai capi perplessi e incominciò a suonare il flauto, mentre si radunavano intorno persone ad ascoltarlo. Tra questi c’erano anche alcuni trombettieri, a uno dei quali il Gallo improvvisamente strappò la tromba e, suonando a pieni polmoni, diede il segnale di battaglia: contemporaneamente si lanciò di corsa verso l’altra riva del Rubicone, incitando gli altri a seguirlo. Fu a questo punto che Cesare si risolse dopo i tentennamenti precedenti e, sfruttando il momento di eccitazione collettiva, pronunciò la famosa frase: Alea iacta esto, con la quale dava il via al passaggio e, insieme, alla guerra civile.
Giornale di Brescia, 8 e 9 gennaio 2005.