All’indiano Amàrtya Kumar Sen è stato conferito il Premio internazionale Senatore Giovanni Agnelli per la dimensione etica, giunto alla seconda edizione. Il premio del valore di 200 mila dollari, è stato consegnato all’illustra scienziato la sera del 5 marzo al Lingotto di Torino, alla presenza di mille invitati e del presidente del Senato Giovanni Spadolini. Nel corso di un incontro con i giornalisti, avvenuto in mattinata, è stato possibile rivolgere all’illustre ospite alcune domande, rispondendo alle quali Amàrtya Sen ha messo a fuoco i punti fondamentali del suo pensiero, poi ribaditi la sera nel discorso di accettazione del premio.
– Lei insegna due discipline che sembrano non solo autonome, ma agli occhi di molti addirittura divaricanti. Tra la filosofia e l’economia a chi dà il primato?
«Io sono di professione, in primo luogo, un economista anche se mi prendo spesso la libertà di partecipare ai dibattiti di etica. Sono convinto che l’analisi economica possa dare in qualche modo dei contributi all’etica nel mondo in cui viviamo. E non è forse vero, d’altro canto, che alcuni dei più laceranti problemi dell’etica sociale sono di natura profondamente economica?».
– Lei è nato 56 anni fa, nel novembre del ’33, in India, nel Bengala. Questo dato biografico ha significato qualcosa e significa tuttora qualcosa per lo scienziato Sen?
«Ci fu nella mia infanzia un episodio, un’esperienza che ebbe un’influenza decisiva sui miei interessi e sul mio impegno negli anni successivi. Fu l’esperienza della carestia del Bengala nel 1943. Avevo allora nove anni.
Un mattino, un uomo di estrema magrezza apparve nel recinto della nostra scuola, mostrando un comportamento poco equilibrato, che è un segno tipico, lo avrei appreso più tardi, di prolungate sofferenze da inedia. Nei giorni seguenti arrivarono da lontani villaggi a cercar cibo decine, e poi migliaia, e quindi una vera processione di innumerevoli persone emaciate, con le guance scavate, gli occhi sbarrati, spesso portando in braccio dei bambini ridotti a pelle ed ossa. La carità privata fece tutto il possibile, ma non riuscì a salvare milioni di persone colpite dalla carestia. Le autorità dell’India britannica impostarono un piano pubblico di aiuti su larga scala, ma solo sei mesi dopo l’inizio della carestia. Non ho mai potuto dimenticare la visone di quelle migliaia di persone raggrinzite che mendicavano flebilmente, soffrivano in modo atroce e morivano in silenzio. E come poteri?».
– Come spiega il fatto sorprendente che dopo la ricordata carestia del Bengala del ’43 non ce ne furono altre in un subcontinente vasto come l’India?
«In primo luogo occorre, ricordare che le carestie possono avere luogo anche là dove la disponibilità di cibo non sia eccezionalmente bassa. Così fu nel ’43 nel Bengala, così fu in Etiopia sia nel ’73 che negli anni ’82 – ’83. Addirittura può capitare che la carestia sopraggiunga – come, ad esempio, nel caso della carestia nel Bangladesh nel 1974 – quando la disponibilità di cibo era al suo massimo livello. Quindi, nello spiegare le carestie, non si deve guardare tanto alla disponibilità globale di cibo, quanto ai cambiamenti economici e politici che privano particolari gruppi occupazionali della loro capacità di acquistare il cibo. Una politica economica sbagliata o la latitanza dello Stato dinanzi a fenomeni che possono condurre ad una situazione di fame assai diffusa – come disoccupazione di massa, sproporzionato aumento del prezzo del cibo rispetto ai salari, o una forte caduta del prezzo dei prodotti artigianali – i popoli le pagano sempre con durissime sofferenze.
In secondo luogo occorre rispondere alla domanda: che cosa può spiegare la diversità fra prima e dopo il 1947 in India? A determinare il cambiamento della situazione è stata la natura pluralistica e democratica dell’India dopo l’indipendenza. In presenza di una stampa relativamente libera, con elezioni periodiche e con attivi partiti di opposizione, nessun governo può sfuggire a severe sanzioni nel caso si verifichino ritardi nell’applicazione di misure di prevenzione, e si consenta alla carestia di scatenarsi».
– Professor Sen, Lei pone un legame causale tra la libertà di criticare e organizzare proteste, ad esempio, e la possibilità di determinare interventi pubblici che aiutino milioni di persone a sfuggire alla morte per fame e carestie. Può fornirci un altro esempio, in positivo o in negativo, oltre quello dell’India, che convalidi la sua tesi per cui l’assenza di libertà politica può trasformarsi in minaccia per la sopravvivenza e il benessere dei cittadini?
«Gli esiti disastrosi delle economie collettivistiche, immobili e burocratiche, sono lì ad attestare la validità del mio assunto. Io considero come paradigmatico il caso della spaventosa carestia che colpì la Cina nel 1958 – 1961, in cui morì un numero di persone compreso tra 23 e 30 milioni. Essa era il risultato logico e prevedibile di una politica governativa disastrosa, che a sua volta fu resa possibile dalla natura profondamente antidemocratica del sistema politico di quel Paese. Ebbene, durante i tre anni di intensa carestia, la politica ufficiale non subì alcuna revisione sostanziale. In realtà ciò accadeva perché nessuno poteva minacciare il Governo, non esistevano partiti di opposizione, nessun quotidiano poteva avanzare critiche nei confronti dell’operato della classe dirigente. In pratica la carestia non fu nemmeno menzionata nella stampa di regime, nonostante la carneficina che si stava verificando nel Paese. La conclusione a cui, pertanto, sono pervenuto nei miei studi può essere così sintetizzata: nella terribile storia delle carestie nel mondo, è difficile trovare un caso in cui si sia verificata una carestia in un Paese che avesse una stampa libera ed un’opposizione attiva entro un quadro istituzionale democratico. Si può vedere qui come un insieme di libertà – di criticare, di pubblicare, di votare – sia realmente connesso da un legame causale ad altri tipi di libertà, quali, ad esempio, la libertà di sfuggire alla morte per fame e carestie».
– Quali linee di forza emergono dalle sue indagini ad un tempo economiche ed etiche?
«Ho cercato un approccio all’etica sociale in economia, scorgendo nella libertà dell’individuo il fine stesso di ogni impegno sociale. Le istituzioni sociali e le politiche pubbliche lavorano per la giustizia sociale solo se aumentano la libertà dei gruppi più svantaggiati e la loro possibilità di farsi valere. L’effettiva creazione di assetti giusti è il modo giusto di rispondere ad un conflitto ed i conflitti di interesse sono sempre estesi ed acuti. Vi sarebbero molte ragioni per un certo pessimismo, se gli uomini perseguissero incessantemente e senza compromessi solo il loro proprio interesse in senso stretto. Per fortuna, però, le persone sono influenzate non solo dalla percezione del loro interesse, ma anche dalle loro passioni ed hanno la capacità e la disponibilità a reagire alle difficoltà altrui. Infatti, tra le cose che sembrano muovere la gente, a Praga come a Parigi, a Varsavia come a Pechino, a Little Rock come a Johannesburg, vi sono le preoccupazioni per gli altri e un’autentica considerazione per le idee».
Giornale di Brescia, 18 marzo 1990.