La fragilità che ci accomuna

Autori: Alici Luigi

1.“Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città… siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa”[1]. Vorrei fare il primo passo di questa breve riflessione con le parole di papa Francesco, pronunciate nel corso di un momento straordinario di preghiera, che riescono a tenere insieme miracolosamente drammaticità e speranza.

In circostanze come queste non possiamo permetterci di aggiungere parole sbagliate alla catastrofe che stiamo vivendo. Non possiamo fare passi falsi: né minimizzare, né trasformare la preoccupazione in disperazione. Nei momenti critici cadono molte remore e si arriva facilmente a mettere in luce i lati migliori e peggiori di noi stessi: quando l’assetto prevedibile del vivere viene travolto, la dedizione diventa eroica ma anche l’opportunismo può diventare insopportabile. In queste ore non abbiamo bisogno di sapientoni né di complottisti: non ne possiamo più di fake news, di atteggiamenti del tipo: “Adesso vi spiego quello che nessuno vi dice”. Una tentazione che non risparmia nemmeno i credenti, e che dobbiamo denunciare con altrettanta energia: non è tempo di rispolverare un Dio vendicatore, proiezione di tutte le nostre frustrazioni e paranoie; di mettere in circolo catene di sant’Antonio, presunti segreti di Fatima ancora più segreti; di voglia irrazionale di riprenderci le chiese e quasi chiuderci dentro, abbandonando il mondo al suo destino.

Siamo dentro una tragedia di cui i numeri possono solo darci solo un’arida contabilità, verosimilmente in difetto. Dietro ai numeri c’è un volume insopportabile di malattia, di dolore, di sofferenza. Nel rantolo solitario del morire intravediamo forse la punta di una piramide rovesciata di male che ci sfonda il cuore; una piramide fatta di impotenza terapeutica, di paralisi sociale, di assistenza mancata, di affetti mancati, di funerali mancati. Di umanità mancata. Come ha ricordato il Presidente della Repubblica al Presidente tedesco Steinmeier[2], è stata decimata una generazione anziana (e non solo) che ha spezzato un prezioso legame intergenerazionale, disarticolando il tessuto sociale, privandoci bruscamente di volti amici e di storie esemplari, fatte di responsabilità mature, di presenze sagge e discrete, di un principio vitale di stabilizzazione del tessuto familiare e civile.

È il tempo della compassione ma anche della restituzione. La nostra partecipazione solidale accanto a chi soffre esige anche il coraggio di raccogliere il volume incompiuto di futuro che è stato sottratto a tante persone – nel mondo, non solo in Italia – prendendolo sulle nostre spalle come una eredità impegnativa ed esigente: ci sono eredità in cui si guadagna qualcosa, ma questa è un’eredità in cui si deve restituire – ad altri, in avanti – quanto ad altri, all’indietro, è stato tolto. La compassione non è credibile se non contiene una promessa di restituzione.

2.Per questo dobbiamo cercare di guardare dentro e oltre l’evento della pandemia, riconoscerne la paradossalità e allargare lo sguardo. In un’epoca in cui ci eravamo forse convinti che la fragilità fosse soltanto la disfunzione marginale ed episodica di pochi sfortunati entro un orizzonte globale dominato dalla potenza e dall’efficienza, abbiamo imparato che non si può ammalare solo il singolo, ma anche l’intero. Non è vero che la fragilità è uno stato accidentale e transitorio, che la scienza riuscirà prima o poi a tenere sotto controllo; non è vero che il mondo è il contenitore neutro di una competizione inevitabile tra rampanti e sfigati. La fragilità è una condizione costitutiva delle creature e del creato; di ognuno di noi e del mondo che abitiamo. La fragilità è una condizione preziosa di cui prenderci cura, accettando il limite e senza inseguire deliri di onnipotenza; le malattie invece sono una patologia difettiva della fragilità, che dobbiamo imparare a prevenire quando è possibile e a curare quando esplodono. Non c’è solo una onnipotenza globale, c’è anche una impotenza globale. Per questo dobbiamo farci carico anche del nostro mondo malato, cioè della fragilità che si ammala a livello globale.

Eriksen ha descritto attentamente gli effetti di una “antropologia del cambiamento accelerato” che crea surriscaldamento e quindi genera processi fuori controllo[3]. Non è vero che abbiamo tutto sotto controllo. Dobbiamo cominciare a fare 1+1…: il surriscaldamento è prodotto da consumismo scriteriato, da un uso famelico di energie inquinanti, da una mobilità nevrotica, dall’espansione mostruosa delle città, dal cumulo dei rifiuti che rischia di seppellirci, dalla guerra strisciante per il possesso dei big data. In un processo fuori controllo, può accadere anche che il micro inceppi il macro: ci sarà sempre un granello di sabbia che blocca gli ingranaggi della società, si chiami Covd-19, oppure Sars, oppure Ebola. Ciononostante, come ha affermato Francesco, “Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. Se non allarghiamo lo sguardo, saremo condannati a inseguire cicli sempre più ravvicinati di emergenze: la tragedia dei conflitti in Siria e in Libia, lo scandalo dei campi immigrati in Libia o in Turchia, gli incendi in Australia, le fragilità dei nostri territori, acuite dai cambiamenti climatici…

3.Stiamo cominciando a capire che, quando sarà scesa la marea della pandemia, ai nostri occhi apparirà uno scenario profondamente diverso, che già da oggi c’impegna almeno in una triplice riconciliazione:

  • Riconciliare autonomia e responsabilità per una nuova idea di libertà

Abbiamo giocato a lungo con la retorica della post-verità, celebrando un’autonomia illimitata e illudendoci che l’unico argine alla nostra libertà potesse essere rappresentato dalla libertà degli altri; in questo modo abbiamo dato vita a grovigli opachi di complicità autointeressate e ci siamo dimenticati della fragilità del pianeta e delle eredità negative con le quali stiamo avvelenando la vita delle future generazioni. Ci siamo illusi che l’esistenza fosse solo questione di software, cioè contasse solo la scelta dei programmi secondo un gioco insindacabile di scelte soggettive. Abbiamo dimenticato l’hardware, cioè lo zoccolo duro del vivere, in cui non girano allo stesso modo tutti i programmi. Un programma si può sempre sostituire con un altro, ma un crash della macchina rende inservibili tutti i programmi. La libertà è come una moneta con due facce: autonomia e responsabilità. Se cresce l’autonomia, deve crescere contemporaneamente anche la responsabilità Assumendo invece la vita come un gioco irresponsabile di preferenze, abbiamo ridotto anche la politica a un gioco di preferenze: il Covid-19 ci ha riportato a un duro principio di realtà.

  • Riconciliare persona e comunità per una nuova convivenza

Una seconda parola chiave nasce sulle ceneri dell’individualismo che la pandemia sta mandando in fumo. Fino a qualche settimana fa eravamo molto vicini fisicamente – nelle strade, nelle piazze, nelle discoteche, negli stadi, nelle chiese – ma a volte molto distanti spiritualmente; oggi stiamo reimparando il valore della prossimità spirituale nella distanza fisica. Si può vivere gli uni accanto agli altri senza essere prossimi. Il coronavirus ce lo ha confermato: il contagio fisico della malattia può essere involontario, il contagio spirituale della prossimità ce lo dobbiamo conquistare. Altro che nazionalismi! Dobbiamo reimparare la sintassi del bene comune. Il neoliberismo dominante, oltre ad averci regalato la crisi economica del 2008, ha invece continuato a illuderci, mimetizzando l’atomismo sociale dietro il miraggio scintillante di un consumismo illimitato. Ma è possibile far fronte a emergenze globali in ordine sparso, continuando a pensare il sociale come una somma di sovranismi egocentrici? Lo vediamo ai livelli più diversi: si fa fatica a coordinare i provvedimenti regionali a livello nazionale, si fa ancora più fatica a coordinare le politiche dei governi a livello europeo, si fa la massima fatica a coordinare le politiche degli Stati a livello planetario. Eppure siamo tutti sulla stessa barca, non pensiamo che qualcuno possa isolarsi dentro un mega yacht con cui può speronare la barchetta di qualche disperato che gli si mette di traverso.

  • Riconciliare passato, presente e futuro per una nuova progettualità

Un’altra parole chiave è progettualità, cioè capacità di sintesi fra passato, presente e futuro. Il pericolo peggiore è illuderci di poter tornare come prima a galleggiare in un eterno presente: continuando a tagliare risorse destinate a creare futuro, dal sistema sanitario alla ricerca, dal welfare all’innovazione… Ma i progetti non si possono delegare. Meno che mai ai tecnocrati. Ce lo insegna anche il dibattito sul potenziamento umano: oggi una parte delle tecnologie biomediche preferirebbe potenziare una funzione, più che curare una disfunzione. Promettono di abolire la fragilità, ci basterebbe che curassero bene le ferite. La più grande trasformazione tecnologica alla quale stiamo assistendo sembra essere il risultato – pur sempre straordinario – di ricerche condotte però in ordine sparso e con una pericolosa conflittualità tra pubblico e privato. In realtà la tecnologia può darci quello che ci serve, ma non può dirci di che cosa abbiamo veramente bisogno. Non può venderci i suoi strumenti come se fossero fini. Progettualità è sintesi, partecipazione, esercizio di democrazia in atto. Ci attende una grande stagione di ricostruzione morale, sociale, civile, in cui però dovremmo rettificare qualche gerarchia capovolta: la tecnologia dovrà tornare al servizio della scienza, la finanza al servizio dell’economia, la politica al servizio dell’etica…

4.Un’ultima parola tocca le radici della fede e le possibilità di una nuova profezia cristiana. In questi giorni stralunati e sospesi, abbiamo quasi la sensazione che la quaresima possa sopraffare e scavalcare la Pasqua. La sfida che interpella la comunità cristiana va al di là della partecipazione fisica – certamente essenziale – alle celebrazioni della Settimana santa: riguarda la capacità di tenere insieme amore di Dio e amore del prossimo. In questo momento cruciale nella storia dell’umanità, i cristiani non possono assecondare la voglia viscerale di tribalismo che circola e potrebbe circolare ancora di più nella pancia del paese. Oltre la questione – pure centrale – delle nostre chiese, delle nostre comunità, delle nostre ritualità, la comunità cristiana deve farsi carico della vita e del futuro della creazione che Dio ha messo nelle mani di tutti.

Quando sembra venire giù tutto, c’è bisogno di chi sta nella prima linea delle urgenze sanitarie e assistenziali, ma anche di chi s’impegna in una seconda linea, dove si guarda al dopodomani e ci si fa carico di elaborare un modello diverso di libertà, di convivenza, di progettualità. Dovremmo ricordarci oggi della lungimiranza di quegli intellettuali cattolici, che nel 1943 elaborarono il “codice di Camaldoli”, un documento programmatico intorno ai principali snodi della vita sociale (dalla famiglia al lavoro, dall’attività economica al rapporto cittadino-stato) che offrì un contributo formidabile per la partecipazione dei cattolici alla scrittura della Carta costituzionale.

Forse abbiamo bisogno anche oggi di qualcosa di simile per gli anni non facili che ci aspettano: un nuovo codice di Camaldoli potrebbe essere il compito di restituzione al quale siamo chiamati. Quando sarà chiaro a tutti che avremo bisogno di un modello nuovo, di un nuovo paradigma, perché non si potrà più mettere vino nuovo in otri vecchi, potrebbe essere già tardi e il rammarico rischierebbe di diventare la nostra peggiore compagnia. Ce lo ha ricordato anche Jacques Maritain: “Se non è tenuto sveglio da una comunione dolorosa con tutti i sofferenti e i maledetti della vita terrena, il cristiano rischia di dormire su quello stesso amore che ha ricevuto”[4].

[1] Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020, http://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200327_omelia-epidemia.html

[2] Lettera del Presidente Mattarella al Presidente Steinmeier, 22 febbraio 2020, https://www.quirinale.it/elementi/46596

[3] T.H. Eriksen, Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato, Einaudi, Torino 2017.

[4] J. Maritain, Umanesimo integrale, Borla, Bologna 19735, p. 106.