«A me pare che dalla tragedia di Tienanmen siamo rimasti dolorosamente colpiti, almeno in Italia, soprattutto i comunisti, e pochi altri commentatori di dignitosa ed alta responsabilità, tutti gli altri non hanno fatto che rallegrarsi e gioire al pensiero che un altro colpo, forse quello definitivo, ne veniva all’organizzazione internazionale del "socialismo reale" e all’idea stessa di comunismo. Certo, qualcuno potrebbe replicare che i comunisti hanno avuto di che dolersene in conseguenza dei riflussi negativi che probabilmente gliene deriveranno ancora una volta sul piano dell’immagine; ma io credo che ci sia qualcosa di più profondo. La tragedia e il dolore che ne consegue sono intrinseci alla scelta che si è fatta diventando, sia pure in diversi modi e per diverse strade e anche in momenti, molto diversi, comunisti». Così Alberto Asor Rosa in Repubblica del 16 giugno 1989.
Il fatto è che, pur riconoscendo la buona fede soggettiva e le generose, nobili aspirazioni che tanti milioni di uomini hanno creduto di realizzare aderendo al comunismo, i risultati di quella ideologia su tutta la faccia della terra, dov’è arrivata al potere, stanno sotto gli occhi di tutti. Si che oggi per difendere l’ideale del comunismo bisogna… svuotarlo di ciò che gli è proprio e specifico.
In tal modo si cerca di fare, nello stesso tempo e riguardo alla stessa questione, affermazioni che ai comuni mortali appaiono tali che l’una debba escludere l’altra. È quanto fa Asor Rosa, il quale nell’atto di appropriarsi di tutte le critiche che il pensiero democratico ha rivolto alla dottrina comunista e ai regimi comunisti – e sa individuare molto bene «gli errori della dottrina» ("il rifiuto del pluralismo, il monismo economico collettivistico, l’aver incanalato una spinta liberatrice dentro la ferrea gabbia del terrorismo di Stato e della persecuzione anti-libertaria") – crede di meglio fondare il suo diritto a dirsi… comunista. Ognuno può essere e dirsi quello che vuole, certamente, e noi rispettiamo i sentimenti, «la tragedia e il dolore» di tutti i comunisti che riflettono, ma pensiamo che anche la logica abbia i suoi diritti e che vadano rispettati anch’essi.
C’è, però, qualcosa di staliniano nel modo in cui Asor Rosa misconosce, e, di fatto, mostra di negare, «la tragedia e il dolore» di chi non è comunista e ha pianto e soffre per quanto è successo a piazza Tienanmen. Crede proprio l’illustre professore che dinanzi a quell’inaudita barbarie le ragioni dell’umanità non siano state nel popolo italiano più forti rispetto alle convenienze dei partiti e ai calcoli elettorali? Perché sospettare con gratuita malignità e scrivere: «A me pare che dalla tragedia di Tienanmen siano rimasti dolorosamente colpiti, almeno in Italia, soprattutto i comunisti» e i pochi commentatori illuminati vicini al Pci?
Quelli che hanno sofferto per il massacro dei ventimila ungheresi nel ’56 bollati quali reazionari dal Pci sino a tre anni fa, come tutti sappiamo e come sul Giorno del 16 giugno riconosce onestamente Antonello Trombadori – perché proprio loro non avrebbero il diritto e il dovere di soffrire per il massacro di piazza Tienanmen? Perché i soli a soffrire legittimamente per il massacro di Pechino dovrebbero essere coloro che non hanno pianto e sofferto per il massacro di Budapest? Evidentemente occorre portare il discorso a un livello ben diverso, se si vogliono rintracciare le radici culturali di un tale deficit di umanità.
La miglior risposta ad Asor Rosa, a nostro avviso, gliel’ha data il giorno seguente un uomo che uscì del Pci nel ’56 per i fatti d’Ungheria e che poi si è fatto eleggere senatore nelle sue liste alle politiche dell’87.
«L’esigenza più urgente – ha scritto Antonio Giolitti – è quella di approfondire il chiarimento sul piano culturale. Permane ancora un’inerzia, una sottovalutazione del filone culturale socialdemocratico, riformista, revisionista. E, accanto, sopravvive una sorta di complesso di superiorità a proposito del filone Marx, Engels, Lenin, Gramsci, Togliatti… Questo senso di superiorità affiora, sprezzante, nell’interpretazione di Lenin… È difficile liberarsi del tutto da questo tipo di cultura… ora però si chiamano finalmente le cose col loro nome e si parla di "fallimento del comunismo" senza più nascondersi dietro alla comoda formula con cui si diceva: sono falliti i Paesi del socialismo reale». (La Repubblica di sabato 17 giugno 1989).
Giolitti ha aspettato trentatrè anni per aver ragione sui fatti d’Ungheria. Quanto tempo sarà necessario perché si verifichi l’operazione culturale che egli auspica? Quanti anni ci vorranno alla cultura nata dall’egemonia comunista per assimilare un’altra cultura, quella che ha congiunto da sempre socialismo e democrazia?
Solo quando nel Pci torneranno a circolare liberamente Kautski, Turati, Rosselli, quanti altri ne hanno sviluppato l’orientamento di fondo, e le altre correnti culturali democratiche e popolari, solo allora la rifondazione democratica del comunismo sarà avviata e il comunismo diventerà socialismo.
I tabù che devono ancora essere infranti per imboccare quella via, la sola oggi percorribile, sono però ancora tanti. Dovremo dire ai nostri figli e nipoti di aspettare anch’essi trentatre anni?
Giornale di Brescia, 22 giugno 1989.