Il bisogno di conoscere il vero, in ogni ambito, è il primo distintivo di un essere aperto al reale, alla conoscenza di sé e dei suoi simili, alla ricerca e all’adorazione dell’Assoluto. Certamente l’uomo può mentire e sottrarsi nei modi più diversi alla verità, ma perfino chi inganna scientemente gli altri, lui non vuol essere ingannato e pertanto l’immortalità del suo agire attesta, con la sua intrinseca contraddittorietà (“faccio agli altri quel che non vorrei fosse fatto a me”), quanto sia ineludibile, anche per chi lo calpesti, il valore della verità. Tuttavia l’esercizio dell’intelligenza e della ragione, trattandosi di intelligenza e ragione di un essere finito, comporta costitutivamente sia la possibilità di un uso perfettivo, che del suo contrario. Caso tipico della fenomenologia negativa nell’uso dei nostri poteri di conoscenza è il degradarsi della libera curiositas, la caratteristica che meglio prova la singolare specificità dell’uomo nel mondo, in quella vana sed peritura curiositas, che si manifesta in una sconcertante molteplicità di forme.
A questo impianto semplice e rigoroso dato da Agostino al problema della dimensione etica all’interno dell’attività conoscitiva, altri – interpreti prevenuti o moralisti scriteriati – vi ha innestato un presupposto dualistico, secondo il quale l’occuparsi delle cose di quaggiù, dalla tecnica alla conoscenza storica, rientrerebbe di per sé nella categoria negativa della curiositas vana sed peritura. E’ questo un arbitrio intollerabile che trova nei testi di Agostino la più decisa smentita.
Al contrario, le manifestazioni del bisogno dell’uomo di conoscere cose e situazioni e di orientarsi tra di esse non sono di per sé riconducibili a un vizio morale della conoscenza; lo diventano, quando certe forme di conoscenza tendono a chiudersi in un’autosufficienza ingannevole, in un assurdo processo di esclusione di ciò che è altro e di assolutizzazione del proprio ambito di ricerca.
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Nell’esercizio della sua razionalità l’uomo si applica innanzitutto a conseguire conoscenze particolari, su oggetti determinati e per fini pratici. E’ questa l’attività propria della ragione strumentale o ratio inferior, la quale, come l’intelligence bergsoniana, esplica il suo officium, la sua funzione in temporali bus rebus (De Trin. XII, 2,2 e 3,3). E tra le cose temporali in cui la ragione strumentale può mostrare le sue grandi potenzialità rientrano anche le istituzioni umane. Le istituzioni umane, meravigliose e mutevoli da popolo a popolo e in ognuno dei popoli, sono molteplici, abbracciando campi assai diversi, dalla struttura di una lingua alla produzione artistica, dagli ordinamenti economici e sociali alle tradizioni popolari, dal tipo di legislazione all’uso dell’una o dell’altra tecnica (Agostino era entusiasta dell’invenzione della stenografia). Sarebbe assurdo un qualsiasi atteggiamento di chiusura o di disinteresse verso questo mondo umano. «Il cristiano non ha alcuna ragione per sfuggire le istituzioni umane che giovano all’esercizio stesso del vivere. Egli deve, al contrario, nella misura dei bisogni dell’uomo, farne oggetto del suo pensiero e impossessarsi delle conoscenze relative» (De doctr. christ. II, 25, 40).
Le funzioni della ratio inferior possono essere di diversissima natura e qualità; e tuttavia anche delle conquiste utili, affascinanti e preziose – se cercate soltanto per il dominio pratico delle cose – si deve ricordare l’ambivalenza sempre in agguato. Chi delle sue stesse conquiste non conosce il limite intrinseco, rischia di non farne l’uso migliore. Mancando una più alta e umana integrazione, esse rischiano di mutilare l’uomo, diventando il tutto della sua esperienza, il suo stesso orizzonte. Fermarsi alle conoscenze particolari o alle leggi dei fenomeni, tendendo anche a una doverosa sicurezza metodica, e non risalire alla natura e alle condizioni originarie di esercizio dell’intelligenza (non enim quaerunt, unde habeant ingenium, quo ista quaerunt, Conf. V, 3, 4), significa smarrire quel senso della primalità del soggetto conoscente sul dato da esperire, senza di cui non si dà processo di unificazione interiore. E poiché il vivere influisce sul cogitare, lasciandosi assorbire da quegli oggetti che pensa e ai quali si attacca con tanta sollecitudine, lo spirito si aliena e rappresenta se stesso come oggetto tra gli oggetti, diméntico della sua destinazione essenziale, del suo legame costitutivo con se stesso e con Dio.
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Certamente può l’uomo multa vera de creatura dicere (Conf. V, 3, 5); ma egli non cerca nemmeno più, e quindi non trova, né se stesso, né la Verità autrice della creazione e illuminatrice della mente, se non pone in esercizio l’altra dimensione del suo spirito, la più profonda: la ragione schiettamente noetica, la ratio superior, che ci unisce e sottomette alla verità intelligibile e immutabile, l’intelletto che ci fa intuire le verità più alte, i valori più universali. L’uso più alto della ratio inferior costruisce la scienza, quello della ratio superior conduce alla sapienza. «Le scienze servono a evitare la superstizione, ci fanno conoscere aspetti oggettivi della realtà creata e quanto è stato acquisito nel corso dei tempi dall’ininterrotta ricerca degli uomini» (De doctr. christ. II, 27, 41). Tuttavia la scienza senza la sapienza non basta e può diventare pericolosa, fuorviante; essa è, invece, a suo modo benefica, se dominata dall’amore che edifica (De Trin. XII, 14, 21). Senza dubbio «una parte della nostra attenzione razionale, cioè dello stesso spirito, deve essere diretta verso l’uso delle cose mutevoli e corporee, senza di che non si può vivere questa vita» (De Trin. XII, 13, 22) e non ci si può orientare in essa. L’errore sta nel trasformare uno strumento necessario in un orizzonte esclusivo, una parte nel tutto, ponendo il nostro unico fine in beni finiti e strumentali e deviando su di essi il nostro bisogno di felicità (in ea detorquendo beatitudinis appetitum, De Trin. XII, 13, 21).
«In Dio la scienza è identica alla sapienza, nella mirabile semplicità della sua natura» (De Trin. XV, 13, 22); per noi non è la stessa cosa essere, conoscere ed essere sapienti. L’armonia, meglio ancora la simbiosi di scienza e sapienza è dunque un compito, un dover essere, un traguardo per ogni epoca storica e per ogni uomo. Agostino insiste con particolare forza nel richiamare sia la distinzione che l’auspicato «matrimonio tra la ragione volta al dominio dei fenomeni e la ragione noetica» (De Trin. XII, 12, 12, 19), affinché il misconoscimento dell’una o dell’altra funzione non comprometta l’unità della persona. L’uomo è l’unico animale che deve continuamente diventare ciò che è, conquistare sempre di nuovo la sua unità interiore e il suo giusto ruolo nel mondo. L’ideale educativo non è il monocentrismo culturale e la formazione integrale dell’uomo esige non l’esclusione o il conflitto dei valori, bensì la loro logica, vigorosa integrazione. Poiché uno è lo spirito umano nella distinta molteplicità dei suoi atti e delle sue attività, l’armonia è la legge suprema della vita spirituale e vi è una naturale gerarchia di livelli e di gradi degli esseri e delle stesse attività dello spirito. L’unità a cui tendere non è mai irrelata, senza articolazioni e tensioni dialettiche in un pensatore come Agostino, così attento alla complessità della vita umana.
Dattiloscritto, non si conosce la data di scrittura e si ignora se edito o inedito. Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1970.