La pedagogia di G. W. Förster è uno splendido esempio di scienza ed arte della vita, di persuasione intorno al vero. I suoi scritti sono pervasi da un’appassionata e alta coscienza di quei valori, che rendono umana la vita e degna dell’uomo l’educazione.
Friedrich Wilhelm Förster il 9 gennaio scorso si è spento a Kilchbergt, quasi centenario. La sua vita reca il sigillo dell’eccezione e della missione perché interamente spesa a servizio dell’umanità.
Egli è una delle personalità più grandi degli ultimi cento anni, un combattente d’incrollabile tenacia che per la sua coerenza intrepida in situazioni drammatiche perdette la cattedra, i libri, la sicurezza economica, la patria, gli amici e fu costretto all’esilio in Svizzera, in Francia e negli Stati Uniti; ed insieme è un profeta solidamente realista perché seppe vedere della civiltà contemporanea le aspirazioni più nobili e gli sbocchi disumani, la fecondità di errori e verità, in un’eroica riscoperta «pedagogica» di quei supremi valori che soli rendono umana e degna l’esistenza e che nel Cristianesimo trovano la giustificazione e il compimento.
Nato nel 1869, nel cuore della Prussia, a Berlino, dopo il trionfo di Sadowa e poco prima di quello di Sédan, la sua giovinezza fu, per consonanza con la protesta morale del padre, illustre astronomo e fisico di fama mondiale, sempre più consapevole della contrapposizione tra le due Germanie: la Germania prussiana di Bismarck e di Guglielmo II, militarista e autoritaria, decisa ad imporre all’Europa la propria egemonia «col sangue e col ferro», e la Germania di Leibniz, Bach, Goethe, culla di umanità e civiltà, potenza mediatrice in tutte le ostilità, giacché la posizione, le condizioni, il carattere, tutto, la spingono alla pace e non alla conquista, a farsi centro di un sistema federale europeo, forza di congiunzione tra il Nord e il Sud, l’Est e l’Ovest del nostro continente, in virtù di quella «tendenza evoluzionista e universalista, che va dalla parte al tutto e che sola può animare una politica veramente tedesca».
La prima opzione di fondo: per la Germania di Leibniz, Bach, Goethe
Förster optò per i valori perenni dello spirito germanico contro il pangermanismo e fu fedele a quella prima scelta fondamentale in tutto l’arco della sua lunga vita, in una lotta senza quartiere e assai spesso solitaria e disperante, nel generale asservimento della cultura al potere politico, contro le rinascenti e terrificanti perversioni demoniache della idolatria dello Stato e della Nazione germanica.
«Noi siamo – scriveva il Förster in “L’anima della gioventù” – il popolo d’Europa più universalmente, sinteticamente e supernazionalmente dotato, e se un popolo simile non agisce continuamente come risolutore degli antagonismi europei, come contrappeso morale, politico e spirituale del nazionalismo, l’Europa è destinata a sprofondare infallibilmente nel dilaniamento reciproco». Orbene, mentre la posizione geografica e la storia predestinavano la Germania ad una missione mediatrice, niente di peggio poteva accadere all’Europa che vedere quel focolaio centrale di comunione dei popoli trasformarsi nel suo opposto; vedere, cioè, «il diritto del pugno» diventare l’ispiratore del nuovo vangelo politico. Questo, che è stato appunto la grande sventura della Germania, è avvenuto, secondo il Förster, perché lo spirito prussiano ha sedotto lo spirito tedesco, che aspirava all’unità, alla collaborazione, alla costruzione, e l’ha asservito allo Stato nazionalista.
Per giudicare l’opera di Bismarck, bisogna quindi esaminarla dal punto di vista della politica mondiale e non dimenticare che, per le più elementari leggi della dinamica politica, che si trova in mezzo ha interesse a reclamare il rispetto della giustizia e non a gridar forte; e viceversa, se sfida tutto il mondo, si espone ad avere la peggio. Infatti, un paese centrale attaccabrighe si condanna al fato dell’accerchiamento; e perciò a buon diritto il Björson chiamò Bismarck un geniale giocatore di scacchi, che guadagnò tutte le partite, ma perdette l’avvenire.
La coraggiosa diagnosi försteriana delle conseguenze logiche dell’imperialismo tedesco fu inascoltata e la Germania precipitò se stessa e il mondo nel baratro della guerra 1914-18. Il grande Tedesco, nelle ore difficili del dopoguerra, operò per la rinascita del suo popolo con una appassionata azione di guida e di animazione del mondo giovanile e con l’aperta, impopolare denuncia del graduale emergere del militarismo tedesco: Hindenburg preparava Hitler. Con tutte le sue forze in una battaglia impari, il Förster si dedicò a questa conversione morale della sua patria, giacché «noi non possiamo rialzare la testa – egli affermava – nella libertà e nella dignità, se non ci liberiamo dalle impronte del passato: allora soltanto cesseremo di essere odiati, calpestati, umiliati».
L’ascesa al potere del nazismo completava l’annientamento dello spirito germanico nei suoi grandi valori. Il mito biologico della “blonde Bestie”, l’incantesimo folle della “Machtpolitik”, la più cinica negazione della coscienza umana e cristiana eretta a sistema, la barbarie professata con inesorabile rigore trovarono in Förster l’oppositore instancabile. Colui che sin da scolaro si era rifiutato di cantare il trionfo «Deutschland Deutschland über alles», e che da studente aveva disertato le lezioni del Treitschke degradate a discorsi inneggianti alla Realpolitik; colui che aveva osato sfidare il mondo accademico e politico della Germania guglielmina per obbedire all’imperativo di non separare la coscienza nazionale da quella morale, resistette alla bufera finché non si vide privato della cittadinanza tedesca e dell’insegnamento, bandito ad esilio perpetuo; e dopo qualche tempo mezzo milione di copie dei suoi libri arsero nella sinistra «festa dei roghi» delle camicie brune.
La perversione delle menti umane, la profonda malattia spirituale che la guerra aveva diffuso in molte parti del mondo insieme alla tortura e allo sterminio dei corpi e a tutti i flagelli dell’Apocalisse esigevano un eccezionale impegno per il ritorno alla ragione e alla salute morale; il Förster vide ancora una volta che ciò che principalmente importava era un nuovo lavoro costruttivo, una ispirazione positiva nella ricostruzione morale e tornò a guardare ai compiti della scuola e all’azione educativa di tutti gli organismi etici per edificare una nuova civiltà.
Il grande vegliardo, quasi cieco, dette nuovi altissimi contributi – unico, nel suo genere, il volume delle sue memorie dal significativo titolo “Storia mondiale vissuta” – e curò la riedizione dei suoi scritti alcuni dei quali, i più importanti, oggi risultano ampiamente rifatti nella inesausta volontà di servire l’elevazione dell’umana famiglia a ciò che la rende nobile e degna.
Dal laicismo alla riscoperta del Cristianesimo
Förster, che si era laureato con una tesi su “Lo sviluppo dell’etica kantiana”, ebbe ben presto, insieme col padre, strettissimi rapporti col movimento operaio socialista e con la «Associazione tedesca per la cultura etica», della rivista fu direttore del 1895 al 1904. Quando nel ’95 pubblicò un articolo di protesta contro un manifesto dell’imperatore che apostrofava i socialisti come una «masnada di senza patria» (eine vaterlandslose Rotte), fu processato per lesa maestà e condannato a tre mesi di prigione. E allora divenne impossibile continuare la carriera accademica in una università tedesca, tanto che dovette l’anno seguente emigrare in Svizzera, a Zurigo.
Qui Förster insegnò filosofia morale, continuò a pubblicare la sua rivista e, soprattutto, iniziò un’esperienza meravigliosa, raccogliendo intorno a sé ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 14 anni, di tutti i ceti sociali, per intrattenere con essi delle conversazioni riguardanti la condotta della vita. L’esperienza durò otto anni e contribuì in misura notevolissima a fare di Förster il più grande pedagogista del carattere e dell’educazione morale.
L’integrità della sua coscienza e l’ardente, inesausta ricerca del vero al di sopra di ogni spirito di setta, lo spinsero a insorgere contro la proposta di legge Waldeck-Rousseau sull’abolizione degli ordini religiosi presentata nel 1901. Il Nostro scese allora in campo a difendere «il diritto alla libertà della coscienza contro l’intolleranza del libero pensiero, che pretende di prescrivere a libere persone i mezzi da impiegare per lo sviluppo della loro vita spirituale». Il radicalismo laicista della «Società etica per la cultura» reclamò le sue dimissioni. Fu la crisi decisiva.
Le riflessioni sulla prassi educativa e sulle esigenze dell’anima contemporanea convergono nel metter capo ad una stessa conclusione: l’abbandono della pretesa sufficienza del laicismo e la progressiva riscoperta dei valori cristiani. Kant e S. Agostino, scrisse più tardi, si erano incontrati nella sua vita: il primo ponendo degli interrogativi, partecipati con intensità in anni di ricerca; il secondo presentando le risposte capaci di illuminare la lunga oscurità. La sua anima era sempre stata naturaliter christiana nella lotta contro il prussianesimo, nell’ardente amore per il popolo, nella lotta per l’animazione etica dei rapporti tra le classi e tra le nazioni, nella passione educativa ch’è pure una delle più tipiche espressioni della carità evangelica. Ora, nell’intima adesione al Cristo, l’opera precedente poteva essere interamente assunta, assimilata e insieme meglio giustificata e integrata.
Un nuovo grande compito, ricco di tensioni profonde e di speranze anticipatrici, cominciava per il Nostro: contribuire, incessantemente, a riesaminare i problemi e le aporie del nostro tempo alla luce del Cristo, in cui idealismo e realismo sono divinamente coincidenti e operanti; non solo, ma anche, dare tutta la propria anima perché cessi lo scandalo del Cristo dilacerato e la riconciliazione avvicini tra loro le comunità cristiane. Da questo duplice punto di vista Förster ha contribuito a preparare la primavera ecumenica che oggi caratterizza la vita della Chiesa cattolica e, in certa misura, delle altre comunità cristiane.
Il divenire cristiano e la visione ecumenica
A partire dal 1904 in tutte le sue opere il Förster tende a stabilire un ponte tra le verità frammentarie della nostra epoca e le verità universali del Cristianesimo, e, nello stesso tempo, a dare con linguaggio accessibile agli uomini del nostro tempo nuove dimostrazioni delle verità tradizionali.
Al problema se la civiltà moderna sia conciliabile col cristianesimo in genere e con quello cattolico in specie Förster risponde sì, ma con animo e con intenti lontanissimi da ogni commistione modernista.
Del grande tedesco si deve dire quel che è stato detto del Manzoni: che il suo cristianesimo riesce «liberale» non in virtù di qualche sapiente contaminazione più o meno eclettica, ma in virtù della sua profondità. Egli non è un «modernista» e appunto per questo è «moderno».
In Autorità e libertà che è del 1910, a pochi anni dunque dall’Enciclica «Pascendi», il Förster poneva la questione del rapporto tra mondo moderno e Cattolicesimo.
Forse che «la modernità» indiscriminata, in quanto tale, è già per se stessa un valore, con il quale si possa misurare la verità della tradizione, e in nome del quale si debbano anche sollecitare le legittime riforme? Può quindi la Chiesa assimilare ut sic lo spirito moderno? O non deve piuttosto, se vuole serbarsi fedele alle verità eterne di cui è depositaria, respingere energicamente da sé ogni deleterio relativismo?
Il Förster riconosce all’età contemporanea una quantità di conquiste e aspirazioni da tenersi nel debito conto; ma egli aggiunge che nella civiltà moderna il vero e il falso, il sano e il morboso, il buono e il cattivo sono terribilmente confusi tra loro, così che nella scelta di ciò che è nobile ed ha valore è doverosa la più saggia circospezione, ispirata a una norma salda e sicura, qual è quella che ci offre appunto la tradizione cristiana rivissuta nella sua autenticità.
Non dunque lo «spirito moderno», bensì lo spirito millenario della Chiesa deve giudicare quali cose nella vita ecclesiastica abbiano bisogno di riforma, perché dalla profonda comprensione del pieno contenuto dell’elemento tradizionale nasce la giusta intuizione di quel che vi è di veramente vitale nelle conquiste dei nuovi tempi. La Chiesa deve, sì, interessarsi dei bisogni dell’anima contemporanea, dei quali il modernismo, senza tuttavia comprenderne la più intima natura, cercava di esser portavoce; ma non mediante un assorbimento passivo e una mera soggezione o una riconciliazione in blocco con la civiltà moderna. Per questo il Förster, assai meglio di non pochi cattolici, è in grado di apprezzare in tutto il suo significato storico l’atteggiamento della Chiesa di fronte al modernismo. «L’avere il Papa, di fronte alle nebulose esigenze dello spirito moderno, rimesso con la più grande risolutezza al centro della vita ecclesiastica il depositum fidei, l’aver egli concentrato la Chiesa nelle sue proprie idee fondamentali e consolidato quel che forma il suo più intimo possesso – tutto questo è stato un lavoro preparatorio indispensabile per la successiva assimilazione di quanto vi è di veramente utile nelle conquiste della civiltà moderna ». Pur nell’imperversare della tempesta modernismo-antimodernismo, il Förster non si lascia dominare dalla cronaca di fatti dolorosi, ma coglie con felice intuito la linea direttiva del divenire cristiano nel mondo contemporaneo e intravvede, dopo l’energico raccogliersi della Chiesa in sé, il momento della sua espansione vivificatrice nella civiltà del nostro tempo.
A questo punto ci si può chiedere: qual è la posizione di questo grande cristiano dinanzi alla Chiesa cattolica? L’urgenza di un comune credo religioso e morale è diventata tanto più evidente quanto più accentuati sono i conflitti d’interesse e il dilatarsi pauroso dell’ateismo e del laicismo. È necessario che una Chiesa visibile universale unisca tutte le anime e tutti i gruppi umani che si riconoscono negli ideali del Vangelo. Occorre però che la Chiesa cattolica, per iniziare questa grande opera, si renda pienamente conto delle sue colpe e di quel che essa ha sofferto, in ricchezza spirituale e profondità, a causa delle varie secessioni; ma anche le altre comunità cristiane devono divenire consapevoli del danno enorme derivante dalla rottura dell’unità religiosa, malgrado le ragioni storiche e i motivi di verità rivendicati. già il primo scisma, che separò l’Oriente dall’Occidente, fu nefasto tanto per la parte scismatica quanto per la vita interiore della Chiesa occidentale; perché questa perdette il contributo della razza slava, nella quale è così vivo e spontaneo il sentimento religioso; e dal canto suo la parte scismatica, avendo perduto il contatto con la Chiesa occidentale finì sotto l’influenza dell’assolutismo zarista.
Analogamente, il protestantesimo fu punito per aver disprezzato la tradizione e l’elemento formale della vita religiosa, pur avendo preso le mosse da profonde esigenze, anzi da un’accentuazione unilaterale della grazia e della fede, e si è andato sempre più «accostando alla banalità pelagiana e al puro idealismo etico». Il cattolicesimo, da parte sue, ebbe un gravissimo danno dallo scisma del secolo XVI. Da quel tempo la coscienza personale, la devozione soggettiva, il misticismo della vita interiore, la spontaneità evangelica, tutte queste cose che una volta appartenevano all’essenza della Chiesa, divennero a poco a poco sospette. E così la Chiesa, sospinta dalla dialettica della separazione e dalla lotta contro le incomprensioni del moderno radicalismo, cominciò ad essere contraria a quegli indirizzi spirituali che una volta erano stati elementi della sua vita spirituale e della sua opera civilizzatrice.
Occorre, ammaestrati dagli errori del passato e consapevoli delle richieste pressanti dell’attuale momento storico, risalire al di là delle divisioni e ricostituire l’unità religiosa dei credenti in Cristo. Ma quale sarà il fulcro della riconciliazione cristiana? Il Förster risponde: solo la Chiesa di Roma restituita a se stessa, alla integrità della sua dottrina, è chiamata a diventare la Chiesa universale e a reinserire nella sua sintesi le verità fatte valere unilateralmente dalle altre confessioni cristiane. Non si possono leggere senza commozione le pagine in cui il Förster nell’atto in cui proclama la sua adesione al credo della Chiesa cattolica assume il compito di servire la riconciliazione cristiana non entrando nel campo ove lo spingono le sue più profonde aspirazioni. «Mi si può credere – così il Förster ha scritto di sé in Autorità e libertà – nell’animo mio si agita una vera passione cattolica, un’aspirazione profonda verso la casa materna dell’anima, verso il santo nutrimento della coscienza cristiana, verso le tradizioni dalle profonde radici, verso la comunione dei Santi e il contatto coi secoli passati fino ai primi tempi… Mi sembra che, secondo i disegni della Provvidenza, esistano nell’epoca nostra uomini ai quali non è dato se non prendere una posizione fra le opinioni: quella cioè di essere un appello vivente ed una vivente preparazione alla vicina unità. Newmann ha detto che la Chiesa deve essere ugualmente preparata per i convertiti come i convertiti devono esserlo per la Chiesa… in tutta l’evoluzione della mia vita e nella mia più intima convinzione sento che io compio un lavoro provvidenziale nel vero interesse del pensiero cattolico. Ogni altro atteggiamento sarebbe molto più semplice, ma significherebbe rinunciare al mio compito».
La pedagogia del carattere
Il Förster, pedagogista della cultura e dell’educazione etica della gioventù e dei popoli, autorevole rappresentante dell’umanesimo tedesco d’ispirazione universalistica, instancabile lottatore per la libertà, la democrazia e l’animazione etica dei rapporti internazionali, ha reso eroica testimonianza ai suoi ideali, pagando sempre di persona, erigendosi – con la fermezza naturale dell’uomo di carattere che difende i diritti imprescrittibili della coscienza – contro imperatori e dittatori onnipotenti, e perfino contro il proprio popolo, in strenua opposizione ad ogni assalto alla libertà e alla dignità umana.
Si comprende allora perché i suoi scritti siano pervasi da una appassionata, alta coscienza di quei valori che soli possono rendere umana la vita e degna dell’uomo l’educazione. Una dialettica realistica si sostituisce alle astratte enunciazioni di principi: la pedagogia del grande Tedesco è essa stessa uno splendido esempio di «psicagogia», di scienza ed arte della vita, di persuasione razionale intorno al vero, colto e saldamente indotto dalla disamina critica di altre dottrine, dalla riflessione attenta su tutto ciò che può farci meglio conoscere l’uomo e dalla ricerca del compito specifico degli educatori nella presente situazione storica e politica.
La pedagogia «morale» di Förster affronta ogni problema educativo in strettissima connessione con i problemi eterni dell’anima e coi problemi storici della civiltà. La vera educazione, infatti, non è un campo chiuso specializzato, riservato a degli iniziati, e la pedagogia non è una scienza che possa disinteressarsi dei fini supremi della vita e degli orientamenti etico-politici: è inutile e pericoloso nascondersi che la concreta realtà educativa è condizionata dalla direzione generale degli spiriti e che non può esservi efficace educazione d’un popolo senza un ideale di moralità pubblica. Se si abbandona lo sforzo e l’impegno di razionalizzare la politica, il mondo delle forze sotterranee travolge brutalmente e annulla ogni effettiva possibilità di educare. Ma, d’altra parte, l’animazione etica della vita associata è possibile solo a chi resiste all’alienazione sociomorfica, a chi oltrepassa la pressione di appiattimento che la società esercita nel singolo individuo portando nell’essere la tensione realizzatrice del dover essere e dei valori in cui quell’imperativo si esprime e si attua.
La conclusione è chiara: il fondamento dell’educazione del carattere è nel risveglio del singolo ai valori e nel rafforzamento, nell’esplicazione in esso della coscienza personale; educatore è colui che sa essere di aiuto per un’efficiente auto-organizzazione spirituale. «Vera educazione è la capacità di distinguere nella vita ciò che è essenziale da ciò che è contingente, e carattere è la forza di manifestare, anche nella condotta della vita, questa distinzione ».
L’educazione del carattere è il fulcro dinamico dell’educazione della personalità, e non una sua appendice. Essa ha pertanto una priorità axiologica innegabile, che nessuna educazione intellettuale o meramente scientifica potrà rendere superflua. Già Aristotele a questo proposito aveva ammonito che «l’educazione morale è tanto più importante in quanto l’uomo, la cui educazione è solo intellettuale, più facilmente degenera, diventando il più selvaggio e sfrenato di tutti gli esseri». A distanza di due millenni, Goethe ribadiva lo stesso concetto e con espressioni non meno vigorose e significative: «per colui che non domina le sue passioni, la ragione serve soltanto a diventare più bestiale di ogni animale»; «tutto ciò che libera il nostro spirito senza darci la padronanza di noi stessi conduce alla rovina».
Il Förster fa sue le semplici, grandi parole del Pestalozzi quando l’educatore svizzero osserva che «un’epoca intera, come un uomo singolo, può compiere grandi progressi nella conoscenza e rimanere invece molto indietro nella volontà di bene» e avverte che il punto nodale, il problema numero uno del nostro tempo sta proprio nel rapportare progresso tecnico, conoscenza scientifica e vita morale, carattere, condotta coerente ad una visione del mondo.
A scuola in quali termini di concretezza didattica si pone la grande questione della formazione armonica del carattere?
Occorre in primo luogo sottolineare energicamente il valore formativo del lavoro scolastico stesso quand’è ben fatto e dell’arte di rilevare, con sobrietà e pienezza, i valori morali insiti in ogni materia d’insegnamento. Si tratta di due aspetti dell’educazione morale indiretta, sì, ma quanto efficaci! «Si esercita un’azione educatrice sul carattere quando si sappia collegare ogni attività apparentemente solo tecnica con compiti morali, ispirandola ad essi; guasta invece il carattere ogni pedagogia che tratti isolatamente le singole materie e non le sappia collegare con i fondamentali interessi dell’anima. Una tale pedagogia porta alla disgregazione della psiche, all’isolamento delle singole attività del tutto, ed educa direttamente alla mancanza del carattere ».
Il Förster insiste, non a torto, sulla spontanea eticità delle singole materie d’insegnamento e, a suo avviso, ciò vale soprattutto per l’educazione estetica, intesa senza moralismi preconcetti. L’arte dei sommi ha una forte carica morale immanente nella perfezione stessa dell’opera. E, si badi bene, il valore etico delle grandi opere letterarie non consiste nelle convinzioni morali dei loro autori, ma solo e proprio nel rappresentare con estrema evidenza tutta la realtà della natura umana e lo spietato giudizio che sorge logicamente dalle conseguenze delle colpe. L’artista esprime nella sua opera l’archetipo plastico del fenomeno, la realtà nascosta e potenziale, quella che le belle parvenze della vita ci nascondono; e questo ci spiega perché i personaggi delle grandi opere d’arte ci siano più familiari dei nostri più intimi amici. La dinamica e la reciproca interazione di situazioni, decisioni ed effetti – che a noi rimangono troppo spesso celate – sono poste in evidenza dagli artisti con sublime vastità e profondità. Se si confronta in tal senso il realismo delle tragedie antiche o di Shakespeare col film moderno, nota acutamente il Nostro, una differenza balza subito agli occhi: nella grande tragedia ha poca parte la descrizione del delitto, ma la luce più viva cade sulle tremende conseguenze della colpa, sia nell’anima dell’uomo che nel mondo esterno, e dalla chiara coscienza di quelle conseguenze nasce quel brivido di orrore di fronte alla colpa, di cui non v’è traccia alcuna nel film moderno, fatte pochissime eccezioni. Quasi sempre nel film tutta la luce cade sul lato sensazionale, mentre le conseguenze restano nel buio più completo.
La scienza e l’arte della vita
Accanto a un’educazione morale indiretta c’è un’educazione morale diretta, di cui il Fierster ha descritto in modo mirabile la didattica e la metodologia.
Per il Förster l’essenza della vera «pedagogia morale» consiste nell’eliminare la predica morale, nell’aiutare invece i giovani ad acquistare chiara conoscenza della realtà in loro e intorno a loro, e nell’additare le forze interiori che essi devono coltivare per essere all’altezza di questa realtà. Nelle conversazioni morali con i ragazzi non si parla di comandamento morale, ma dell’educando; lo si aiuti ad interpretare giustamente le sue proprie esperienze concrete, gli si riveli il rapporto di causa ed effetto nel campo delle azioni ed omissioni umane, per risalire di lì, gradualmente, alla verità morale. Questa verità non gli apparirà, più, allora, come qualche cosa di astratto, che cerca di imporsi dall’esterno della sua vita, ma come la più matura soluzione delle difficoltà concrete della vita stessa, come la più profonda interpretazione della realtà, come la naturale formulazione di ciò che la nostra natura stessa deve volere, qualora consideri realisticamente le conseguenze delle cose. Raccomandando in tal modo il metodo induttivo, il Förster non intende affatto che venga trascurata la forza e l’importanza pedagogica dell’autoritario «tu devi», ma vuole soltanto rilevare che, proprio nei confronti della gioventù moderna, è meglio porre questa formulazione autoritaria alla fine, anziché all’inizio delle conversazioni morali. L’autorità dell’imperativo morale non è indebolita, ma rafforzata, se la nostra personale esperienza è chiamata a testimoniare dell’azione benefica esercitata dalla verità morale, la quale impedisce che il nostro io limitato perda di vista l’universale coerenza della vita e le conseguenze più profonde delle azioni umane. La dimostrazione di «verità etiche» è dunque qualche cosa di molto più complicato che non la dimostrazione di verità matematiche. Dimostrazione non significa, lì, soltanto giustificazione di fronte all’intelletto, ma molto di più: trasposizione dell’insegnamento nella sfera delle più varie forze psichiche, sicché queste vedano nell’azione etica un accrescimento ed un adempimento della loro vita più intima.
Il metodo del Förster è il metodo socratico, induttivo, sempre basato sulla vita vissuta, sagace nel collegare esperienze e principi e nel condurre ad osservare le interdipendenze e le conseguenze delle azioni. Esso, mentre risveglia il lettore alla responsabilità attiva e all’esercizio dell’umana solidarietà, non nasconde il richiamo alle verità cristiane, verità sempre nuove perché incessantemente creatrici di vita spirituale nel mondo.
In tal modo esperienza ragione e fede, induzione e rivelazione entrano in simbiosi senza forzature, senza schematismi architettonici, ma per un’esigenza intrinseca alla logica della vita morale.
Per questo nelle opere del Förster, così vivide di concretezza spirituale e di cultura non libresca, ogni lettore onesto e libero può trovare considerazioni che può far sue, e che costituiscono un terreno comune d’intesa per uomini di buona volontà, quale che sia la loro provenienza ideologica.
Ci piace pertanto riportare, a conclusione, le accorate parole con cui Förster, toccando questo problema di importanza fondamentale, chiude il suo libro “Scuola e carattere”: «Come dei genitori separati sono talvolta indotti a riunirsi dalla preoccupazione per il comune figliolo, così lo studio veramente concreto dell’educazione del carattere riuscirà in avvenire a riunire, per un lavoro comune ed in nuove condizioni, le forze, oggi divise, della pedagogia laica e della pedagogia religiosa».
È l’augurio più sincero e profondo che ogni vero educatore deve far suo, anche in questa nostra Italia, in cui la tendenza a politicizzare indebitamente il problema dell’educazione morale dei ragazzi e della gioventù ha paurosamente approfondito incomprensioni già di per sé dure a morire.
Il magistero di una vita e l’attualità di un messaggio
Il Förster è stato detto «pédagogue sans élèves, patriote sans nation, croyant sans confession». In realtà egli fu un solitario non per scelta, ma per dovere morale lavorando a preparare il futuro con una consapevolezza la cui forza profetica si alimentava alla certezza dei valori perenni del Cristianesimo riscoperto in tutto il suo significato vitale. Ma la missione educativa e religiosa di Förster fu compiuta con una larghezza di visione così magnanima e con una tenacia così tedesca da meritargli consensi sempre più ampi, per la sconcertante realistica attualità dei suoi orientamenti di fondo. È stato osservato che «dalla pubblicazione dell’ “Emilio” di Rousseau nessun altro scrittore di pedagogia in Europa ha avuto attraverso l’efficacia della sua parola scritta un’influenza mondiale a tal segno come F. W. Förster».
Il Conte Sforza e Einstein proposero, concordi, il suo nome per l’assegnazione del premio Nobel per la pace; tre pontefici, Pio XI, Pio XII e Giovanni XXIII giudicarono altamente benemerita per l’educazione cristiana l’opera sua; e non è certo meno significativo l’indirizzo di omaggio rivolto dai professori dell’Università di Gerusalemme «al grande educatore, umanista e amico d’Israele», al tedesco che meglio incarna la protesta cristiana contro il razzismo e il pangermanesimo. Ma ai nostri occhi il magistero di una vita così eroica e il senso di un messaggio così vivo hanno trovato l’espressione più felice e meditata nella motivazione che accompagnava il conferimento della laurea honoris causa in teologia, decretatagli nel 1948 dalla Facoltà Evangelica di Lipsia: «Al filosofo della cultura, che in scritti di rara chiarezza, rompendo un laicismo profondamente radicato, ha contribuito in misura decisiva a dare un fondamento teonomo alla dottrina e alla prassi pedagogica; all’educazione del popolo, che con gravi sacrifici personali e con incrollabile tenacia ha combattuto contro una demoniaca degenerazione della coscienza politica, per un realismo politico rinnovato dalle forze profonde della fede cristiana; al tedesco, che anche nelle ore più difficili della storia tedesca ha operato per la rinascita del popolo tedesco dalle sue più profonde sorgenti religiose di vita».
Pedagogia e Vita, serie XXVII, n.6, 1966.