Religione e tolleranza in John Locke

Uccidere un uomo non è difendere

una dottrina, ma è uccidere un uomo.

Quando i Ginevrini hanno ucciso

Serveto, non hanno difeso una

dottrina, ma hanno ucciso un uomo.

(Sébastien Castellion,

Contra libellum Calvini)

 

Il diritto all’intolleranza è dunque

assurdo e barbaro: è il diritto delle

tigri, anzi, è ben più orribile, perché

le tigri non si sbranano che per

mangiare, mentre noi ci siamo

sterminati per dei paragrafi.

(Voltaire, Trattato sulla tolleranza)                                                                                                            

            1 Premessa. Le origini moderne del problema della tolleranza nel XVI secolo. Irenismo e universalismo religioso in Sébastien Castellion

Ha osservato Salvatore Veca che “tolleranza” è termine tanto prezioso    quanto vago, o almeno polivalente nei modi in cui si è soliti fondarlo[1]. Nel distinguere analiticamente tre argomenti per sostenere la tolleranza, nei quali si va da ragioni “minimali”, prudenziali, strumentali, fino alla ragione “massimale” che pensa la tolleranza non come mezzo per conseguire altri fini, ma come virtù in sé, capace di promuovere il valore della pluralità e della differenza come realtà positive che arricchiscono, Veca ricorda che ogni modalità di giustificazione della tolleranza – incerta oppure solida che sia – si staglia sullo sfondo delle lotte religiose intraprese nel XVI secolo in Europa all’indomani della Riforma protestante, e serba in sé l’eco di quei conflitti. E’ di qui, dunque, che occorre prendere le mosse per rilevare, già a partire dal ‘500, differenti contesti e distinti piani di giustificazione della tolleranza, oscillanti tra quel minimo e quel massimo suddetti.

Nella seconda metà del XVI secolo, mentre la cristianità si dilania nelle Guerre di religione, si viene via via elaborando, innanzitutto in Francia, l’idea che lo Stato debba circoscrivere i propri poteri all’ambito terreno, a un dominio, cioè, distinto da quello della salvezza eterna. Si fa strada l’idea pragmatica per cui la tolleranza sia funzionale al perseguimento dell’ordine civile e che, alla fine, sia più profittevole alla società civile tollerare – nel senso dell’esercizio di un benevolente permesso di esistere – piuttosto che reprimere al prezzo di sanguinosi conflitti.

A voler emblematicamente fissare un momento nel processo che Carl Schmitt ha definito in termini di «neutralizzazione» e «spoliticizzazione»[2] del contrasto religioso ad opera della sovranità politica, si potrebbe fare riferimento al discorso pronunciato nel 1562 dal Cancelliere di Stato Michel de l’Hospital all’assemblea di Sant-Germain-en-Laye:

Il Re non vuole che voi entriate in dispute relative a quale opinione sia la migliore, poiché qui non è questione de constituenda religione, sed de constituenda republica: e molti possono essere cives, qui non erunt christiani[3].

Senza entrare nel merito della complessiva riflessione sulla tolleranza di Michel de l’Hospital (1504-1573), giurista, pensatore politico, uomo di governo al servizio di Caterina de’ Medici, la cui vicenda è segnata dalla guerra di religione scoppiata in Francia intorno al 1559-60 e destinata a protrarsi sino al 1593, anno della conversione, o abiura, di Enrico IV, è sufficiente osservare che si avanza in questo testo l’idea della tolleranza come instrumentum regni, ovvero dell’indifferenza dello Stato rispetto alle scelte religiose dei singoli individui, in ragione del fatto che l’autorità politica debba essenzialmente occuparsi «de constituenda respublica», di costituire una comunità civile autonoma nelle finalità e distinta da quella religiosa. La quale, dunque, esce dal novero degli instrumenta regni, cedendo il posto alla tolleranza come nuovo pragmatico instrumentum regni, quale prezzo da pagare, si potrebbe dire, in vista della sicurezza, della pacificazione e della lealtà dei sudditi. Si possono considerare l’Editto di Nantes firmato il 13 aprile 1598 la realizzazione giuridico-politica di simile modo di concepire la tolleranza, intesa come “esenzione” concessa a sudditi “diversi”, “altri”, e le seguenti parole di Enrico IV il suo sigillo:

Non deve più esservi distinzione tra cattolici e ugonotti; tutti siano, invece, buoni francesi. I cattolici convertano gli ugonotti con l’esempio della buona condotta[4].

Naturalmente, il problema alluso, relativo al rapporto tra autorità civile e religiosa, si era venuto ponendo in modo inedito per l’Europa in seguito alla frattura dell’unità religiosa legata alla Riforma protestante, acuendosi e accelerando bruscamente i dibattiti dopo il “caso” Serveto. Come ha osservato Massimo Firpo,

con [la Riforma] per la prima volta la cultura europea si trovò di fronte non a qualche cosa di estraneo e non riducibile a sé, di irrimediabilmente diverso, né a fenomeni pur sempre marginali di dissenso ereticale, la cui ferma repressione non poteva non apparire scontata, bensì di fronte a una profonda lacerazione del suo stesso tessuto unitario che ne infrangeva i comuni punti di riferimento. Infatti, con la Riforma andava traumaticamente distrutta una comunanza di fede e di culto, con tutto quanto vi era connesso sul piano politico, sociale e intellettuale, che era stata al tempo stesso un’idea forza, una sorta di mito ideale: il modello della respublica christiana si avviava ormai a un definitivo tramonto, parallelamente al sorgere degli stati nazionali[5].

D’altronde, proprio nel disintegrarsi dell’ordine politico-religioso medievale fondato su basi universalistico-giusnaturalistiche e nel passaggio al “disordine” pluralistico, il pensiero moderno scopre la sua autentica vocazione, che il filosofo italiano Pietro Piovani ha definito nei termini di una «faticosa maieutica dell’individuale», accompagnata dalle «doglie laceranti» legate allo

sforzo di mettere in luce … la realtà completa dell’individuo nella sua piena autonomia[6].

Un tale sforzo oscillerà, dal principio alla fine, tra l’elaborazione di nuove forme di universalismo totalistico, assorbenti in sé le individualità e riproponenti il giusnaturalismo medievale della ordinatio ad unum, e la ricerca di nuovi modelli di ordinatio ad plura e ad plures, capaci di valorizzare la particolarità irriducibile dell’individuale.

Ma il 1562 – dieci anni prima del terribile evento del 24 agosto 1572  noto come “l’eccidio di S. Bartolomeo” che l’anziano Voltaire, a distanza di due secoli, nello scritto intitolato Il faut prendre un parti (1772) ancora evocava «con la penna tremante nella mano»[7] – è lo stesso anno di  un’opera non lontana dalle idee di Michel de l’Hospital: si tratta dello scritto dell’umanista savoiardo Sébastien Castellion dal titolo Conseil à la France désolée[8]. In esso, lo strenuo oppositore di Calvino e di Teodoro di Beza,  a cui si deve uno dei primi scritti contro l’intolleranza – il De haereticis, an sint persequendi pubblicato nella primavera del 1554, all’indomani del rogo di Michele Serveto a Ginevra, sotto lo pseudonimo di Martinus Bellius – esprimeva un punto di vista non lontano da quello del Cancelliere francese. Con accenti appassionati che erano stati dell’Erasmo della Querela Pacis (1517), il quale si appellava alla ragione e al Vangelo contro la follia distruttiva della guerra, delle contese fratricide, Castellion si rivolgeva alla Francia devastata dalla guerra civile per richiamare, con accorato appello, i riformati e i cattolici a deporre le armi e a desistere dai massacri perpetrati con uguali responsabilità.

Anche Castellion, nel Conseil, mutando prospettiva, ma non pensiero, rispetto al De haereticis, affermava che l’intolleranza religiosa è motivo di instabilità politica, osservando che il «forcement de conscience» è la vera causa della malattia che affligge il corpo politico e la società francese, minacciata nella sua stessa esistenza dal conflitto tra le fazioni in campo: i «papisti» e gli «ugonotti», ai quali, in segno di rispetto, Castellion si rivolge come «cattolici» ed «evangelici». Il rimedio alla malattia proposto da Castellion è quello di lasciare le due religioni libere – «appointer e laisser les deux religions libres, que chacun tienne sans contrainte celle des deux qu’il voudra» – scorporando il legame tra potere secolare e religioso e consentendo l’intervento dell’autorità civile solo per reprimere le sedizioni.

Rispetto a M. de l’Hospital, tuttavia, in Castellion l’idea della tolleranza come richiesta di neutralità da parte dell’autorità civile non è pensata innanzitutto come mezzo per l’unificazione politica nazionale. Il punto di vista dell’umanista savoiardo non è ultimamente lo Stato, la società civile, e neppure la richiesta giuridica della parità dei diritti per le opposte fazioni. L’accento cade piuttosto sulla coscienza religiosa del singolo, che chiede il riconoscimento della libertà di professare le proprie convinzioni, insieme ai propri dubbi (De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi, si intitola il testamento spirituale di Castellion del 1563), senza coercizione.

Lungi dall’essere un prudenziale modus vivendi alla ricerca di condizioni minime di coesistenza, la tolleranza in Castellion, erede di Erasmo ma anche della tradizione spiritualistica e mistica tedesca, anch’essa erasmiana, di Hans Denck, di Caspar Schwenckfeld, di Sebastian Franck – colui nel quale Wilhelm Dilthey ha colto il precursore della filosofia della religione di Lessing e di Kant e insieme colui che sta alle origini della linea teologica qualificata dal filosofo dello Historismus come «teologia speculativa» o «trascendentale», nel cui solco è lecito identificare la sostanza più autentica del pensiero religioso liberale moderno[9] -, è essenzialmente desunta da un inveramento in senso universalistico della religione. Come è stato scritto,

l’unità religiosa è … nella concezione castellioniana, ancora il fondamento sociale della comunità civile, ma è l’accezione di unità che assume un significato diverso, non coincidendo più nel concetto di “unicità”, e quindi di esclusivismo – per cui la molteplicità deve essere necessariamente ricondotta a unità – ma in quello di molteplice espressione di un “uno”, cioè di un’unità che è molteplicità, riconoscimento dell’alterità[10].

Siamo, qui, di fronte a una concezione della tolleranza come rispetto per la coscienza del singolo, ben diversa da quella prudenziale, strumentale, sottolineata in precedenza. Essa si qualifica per la valorizzazione della multiformità in cui la verità prende figura, per il riconoscimento, anche culturale, civile, politico, di una universalità che è complessità e varietà, in luogo di essere reductio ad unum: universalità che accomuna ogni uomo in quanto è partecipazione corale a una inesauribile ricerca della verità: unitas in alteritate, identitas in novitate, ordinatio ad plura et ad plures, o, per dirla con Leibniz, varietas identitate compensata (è la formula dell’harmonia universalis, presente sin dalla giovanile Confessio Philosophi del 1672-73)[11].

Alla base di questa utopia, di questo sogno di tolleranza religiosa castellioniano – ancor oggi, a nostro avviso, per molti versi denkwürdig – non c’è solo la dottrina, di origine erasmiana, della riduzione del numero dei principi essenziali alla salvezza (si veda, a questo proposito, la lettera di Erasmo a J. Carondelet del 5 gennaio 1523[12]): c’è, altresì, una modalità peculiare di declinare il rapporto tra lettera e spirito, tra spirito eterno e parola storica che Castellion eredita dalla tradizione spiritualistica di Sebastian Franck. E’ attraverso di lui, del resto, che l’umanista savoiardo  filtra lo stesso Erasmo. Ora, come è noto, il problema in questione – quello dello spirito e della lettera – rappresenta uno dei nodi cruciali della Riforma e dello Streit teologico che seguì. Per capire la posizione di Castellion, e dunque la stessa radice della sua idea di tolleranza, è su questo punto che occorre brevemente sostare, chiarificando le diverse posizioni in gioco.

Quando, tra il 1524 e il 1525, Lutero lancia i suoi strali contro Carlostadio nell’opera Wider die himmlischen Propheten (Contro i profeti celesti) è proprio il nodo suddetto – “interno-esterno”, “lettera-spirito” – a rappresentare il Kern della polemica. L’accusa, mossa agli Schwärmer, di spiritualismo nasce, al fondo, dal rimprovero di recidere il nesso tra doni interiori ed esteriori, misconoscendo che i primi derivano solo dai secondi. Come bene ha sintetizzato Rudolf Otto, per Lutero lo Spirito «è legato alla parola e agisce per mezzo della parola»[13]. Egli muove dunque – ha precisato Alberto Gallas – dall’idea della «divino-umanità della parola … contemporaneamente realtà umana e spirituale»[14].

La Parola di cui discorre Lutero – ha chiarito ulteriormente Giorgio Tourn – non è il discorrere, non sono le parole, ma la potenza creatrice di Dio. E’ molto più vicina al «dabar» ebraico che al «logos» greco, alla parola creatrice di cui si parla nella Genesi, e di cui i profeti sono strumenti, che al discorso umano costruito logicamente per dimostrare e convincere[15].

Se, in effetti, si volesse rinvenire nel mondo greco una qualche analogia con tale idea teandrica della Parola, sinolo di realtà umana e azione divina, si dovrebbe fare riferimento, più che al pensiero platonico, dove si impone piuttosto la coscienza della fragilità della scrittura come veicolo di verità e la dialettica oralità-scrittura (si pensi al Fedro o alla Lettera VII), al mondo dei maestri di verità della Grecia arcaica, depositari di una Parola e di una aletheia che non è concetto perché è prima di tutto azione, forza, potenza dotata di efficacia, di realtà[16].

Ora, se Lutero professa simile carattere umano-divino della Parola, e se egli vede un grande pericolo nel solco posto da Carlostadio tra una parola inerte e un’azione dello Spirito che interviene dall’esterno a vivificarla, due volte lontana (e dunque “pericolosa” al quadrato) appare, rispetto all’ortodossia luterana, la posizione degli Spiritualisti e di Sebastian Franck: non solo, per essi, lo Spirito è esterno, ma è altresì ulteriore rispetto alla Scrittura. Non si tratta, cioé, solo dell’esteriorità dell’intervento dello Spirito rispetto alla lettera, ma dell’infinita ulteriorità del suo rivelarsi rispetto a ogni fissazione scritta. Lo Spirito è infinitamente più ampio della lettera, la Scrittura non esaurisce la Parola di Dio, ma è testimonianza di una verità che si ritrova, identica e diversa, in Platone, Cicerone o Seneca.  Proprio l’assolutizzazione della parola scritta – osserva Franck – è ciò di cui si sono serviti i nemici di Cristo per condurlo a morte, e in ciò sta l’origine delle divisioni religiose. La rivelazione di Dio è universale, continua, poiché avviene attraverso la natura di tutte le cose.  Dio è sostanza di tutte le cose, sensibili e insensibili:

Dio è e opera tutto in tutti, eccetto il peccato,

recita il paragrafo 2 dei Paradoxa franckiani[17]. Come osserva Dilthey, è il panenteismo rinascimentale a dominare l’idea di Dio di Franck[18]. In simile visione, benché il divino riempia di sé la natura tutta, esso resta infinitamente trascendente e al di là di ogni nome, ciò che non consente a Chiese e Sacre Scritture assolutezze ed esclusivismi.

Castellion, per tornare a lui, è certo per molti versi erede di questa prospettiva filosofico-teologica. In realtà, la tensione tra una lettera che non basta a se stessa, vuota se priva del soffio dello spirito – centrale è qui, naturalmente, il passo giovanneo 6, 63, «Spiritus est qui vivificat; caro nihil prodest» – costituisce il nodo centrale del suo pensiero. Esso si declina secondo una dialettica tra la ratio umana, cui compete la piena autonomia della ricerca filologica ed ermeneutica in ordine alle Sacre Scritture, e lo Spirito di Dio chiamato a illuminarne il lavoro critico e a orientarla al coglimento delle verità essenziali alla salvezza.

Vive, in effetti, in Castellion, coesistendo e compenetrandosi con la dottrina mistica dell’immediatezza del rapporto ispirativo tra anima e Dio grazie alla synteresis – nozione di origine stoica e origeniana[19], che Meister Eckhart e la mistica slesiana definiscono in termini di apex mentis, scintilla dell’anima, Grund der Seele, con tutto il suo potenziale eversivo rispetto alle ortodossie bene messo in luce dallo studio di Steven Ozment, Mysticism and Dissent[20] – la grande eredità umanistica di Valla ed Erasmo: l’idea dell’imprescindibilità del momento filologico, l’essenzialità dell’analisi critica del linguaggio, ineludibile medium – quest’ultimo – nel rapporto tra gli uomini e degli uomini con Dio.

E’ in forza dell’incontro tra questi due fattori – mistica e filologia[21] – che Castellion può elaborare un’idea di interpretazione degna dei momenti più alti della riflessione ermeneutica moderna e contemporanea, da Schleiermacher a Heidegger: l’atto interpretativo vive in una tensione tra la parola scritta,  da sottoporre al vaglio dell’analisi filologica, e la parola dell’anima, la voce interiore della coscienza, l’ispirazione, che rende possibile alimentare «kata pneuma» la scrittura, restituendo linfa al «dictum» attraverso un «dicere»  vivente in novitate et libertate nella coscienza del singolo, abilitata così a farsi autentico locus revelationis.

Questa cooperazione, tra ratio e Spiritus, questo partecipare della ratio umana al Logos divino attraverso lo Spiritus – si veda, a questo proposito, lo splendido “elogio della ragione” contenuto nel cap. XXV del De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi, dove la ragione è chiamata «figlia stessa di Dio … prima di tutte le Scritture e cerimonie», e «dopo tutte le Scritture e di tutte le cerimonie … eterno discorso di Dio, molto più antico e certo così delle Scritture come delle cerimonie»[22] – presenta una ricaduta diretta sul tema della tolleranza: in quanto illuminata dallo Spirito, la lettura della Sacra Scrittura è guidata dall’ispirazione divina a cogliere quel minumum di verità essenziali alla salvezza, sceverandolo dall’inessenziale. E’ la stessa ratio – come dice il cap. XX del De arte dubitandi – a intuire i precetti divini sufficienti alla salvezza, poiché essa li trova scritti in sé «dal dito stesso di Dio» («Dei quasi digito inscripta cordibus omnium»), innati, perciò facilmente accessibili a ogni uomo che presti ascolto alla voce della coscienza.

La libertà religiosa è in quest’opera proclamata in nome dell’uguaglianza, nella ricerca del divino, di tutti gli uomini, abilitati da quella «ratio» «filia Dei» a cogliere le verità essenziali presenti nelle Sacre Scritture. Su questo unum necessarium – sintetizzabile nella “Regola d’oro”[23] della conoscenza e dell’amore verso Dio e verso il prossimo – poggia la tolleranza: è chiaro, infatti, che la riduzione del numero di articoli di fede e la loro universale accessibilità, fondata sulla ragione naturale, procede nella direzione di un’estensione dell’area di assenso comune.

Nella Prefazione al De haereticis, opera ben nota negli ambienti arminiani olandesi in cui Locke maturò, intorno al 1685, la Epistola sulla tolleranza, questo minimum di verità necessarie alla salvezza è descritto  con accenti non arbitrariamente accostabili alle pagine iniziali dello scritto lockiano:

Cristo – osserva Castellion – è il principe del mondo. Egli, abbandonando la terra, predisse agli uomini che sarebbe tornato in un tempo non precisato; raccomandò di preparare per la sua venuta delle vesti candide, cioè di vivere cristianamen­te e in amicizia, senza contese, e di amarsi l’un l’altro. Valutiamo ora, di grazia, in che bel modo noi adempiamo a questo dovere. Quanti sono solleciti nel procurarsi la veste candida? Chi si adopera con ogni attenzione a vivere santamente e secondo giustizia e pietà cristiana? In quest’epoca, nell’attesa della venuta di Dio beato? Nulla è meno tenuto in considerazione, e la vera pietà e la carità giacciono inerti; la nostra vita scorre tra i litigi ed ogni gene­re di vizio. Non si discute della via da seguire per giungere a Cristo, di come emendare la nostra vita, ma della condizione e della funzione di Cristo stesso, dove mai Egli sia ora, che cosa stia facendo, come possa sedere alla destra del Padre e come sia tutt’uno con Lui; ed anche della trinità, della predestinazione, del libero arbitrio, di Dio, degli angeli, della condizione delle anime dopo questa vita, e di tutti gli altri argomenti di tal genere, la conoscenza dei quali non è necessaria a raggiungere la salvezza per fede (poiché senza di essa sono stati salvati pubblicani e meretrici), né essi pos­sono venire conosciuti prima che il nostro cuore sia puro (poiché vedere tali verità significa vedere Dio stesso, il quale non può essere scorto senza avere il cuore puro, secondo quel passo biblico: «beati i puri di cuore, per­ché vedranno Dio»), né, qualora si conoscano, rendono migliore l’uomo, poiché Paolo disse: «se sono a conoscenza di tutti i misteri, e non possiedo la carità, io sono un niente». Questo modo pervertito di prendersi cura de­gli uomini non solo è vizioso in sé, ma conduce anche ad altri e più gravi mali; infatti gli uomini, inorgogliti da questa scienza, o piuttosto da questa supposizione di scienza, guardano con disprezzo e superbia gli altri che si trovano dinanzi, ed alla superbia seguono poi la ferocia e la persecuzione, di modo che nessuno riesce più a tollerare chi abbia un’opinione diversa dalla sua su qualsivoglia argomento»[24].

Nella stessa Prefazione, troviamo una splendida metafora per esprimere l’unum necessarium alla salvezza e la sua universalità: quella della moneta d’oro:

Allo stesso modo chi viaggia deve cambiare ripetutamente moneta, poiché quella che vale qui non ha corso in altro luogo, a meno che non sia d’oro; quest’ultima, infatti, ha valore di qualunque conio sia. Nella religione dobbiamo allora possedere una qualche moneta aurea che abbia corso ovunque, a prescindere dal suo aspetto esteriore. Credere in Dio Padre, Figlio e Spirito santo, ed accettare gli insegnamenti della vera religione presenti nelle Sacre Scritture, questa è la moneta d’oro, più eccellente e più sicura dello stesso oro[25].

Questa tesi minimalista dei principi necessari quali via salutis, di  ascendenza erasmiana, riceve in Castellion, come già accennato, una declinazione particolare nel legame con la concezione della ratio come «filia Dei» e del rapporto tra spirito e lettera: in ciò il pensatore savoiardo riattingeva, radicalizzandolo, un altro fattore di provenienza umanistica ed erasmiana, anch’esso già alluso: quello della linguisticità della verità, della essenziale mediazione della parola, del linguaggio, nella comunicazione del vero. Se Logos divino e logos umano si incontrano in quanto entrambi sono sermo, discorso, parola, allora la verità non si esaurisce nell’immediatezza mistica e ineffabile del rapporto anima-Dio, ma vive nel medium del linguaggio, perciò nella comunicazione e nella relazione, che rende pensabile il Mit-sein, l’ecclesialità, perciò la comunità religiosa. Una comunità religiosa, una Chiesa, certo, che non potrà fondarsi sull’assolutizzazione del dictum della Scrittura o del dogma, avocando a sé la pretesa di esclusività della rivelazione, ma che farà leva sul dicere, sulla Parola viva e presente che si rivela alla coscienza del singolo in modo sempre nuovo e ulteriore. Una comunità religiosa fondata, come bene ha scritto Stefano Visentin, «sulla capacità aggregante del linguaggio illuminato dallo spirito di Dio»[26].

Nasce di qui – dall’incrocio tra ulteriorità della rivelazione rispetto a ogni fissazione scritta e ineludibilità della mediazione linguistica – quella peculiare “cattolicità” ed ecumenicità castellioniana fondata sul principio dell’unitas in alteritate, quell’idea di tolleranza come riconoscimento della multiformitas della verità e del pluriprospettivismo. E’, questa, prima che di Castellion, l’utopia della tolleranza che era stata di Nicolò Cusano, che nel De pace fidei, scritto all’indomani della caduta di Costantinopoli ad opera di Maometto II (1453), auspicava «una religio in rituum varietate»[27]; o, in tempi più vicini a Castellion, quella di Jean Bodin nel Colloquium Heptaplomeres (1593) [28], dove si ipotizza, nel finale, un’armonia universale tra le religioni fondata sull’idea di una comune religione naturale che unisce all’origine tutte le fedi, le quali non vengono con ciò annullate ma piuttosto armonizzate, accordate come in un canto polifonico; oppure, ancora, il disegno filosofico di Giordano Bruno, fondato anch’esso, analogamente, su un universalismo delle differenze.

In tutti i casi menzionati, al di là delle differenze teoretiche e dei decisivi eventi storici accaduti nell’arco temporale che li abbraccia, compreso tra la metà del ‘400 e la fine del ‘500, comune appare un elemento ispirativo: la pace e la tolleranza nell’una religio sono possibili solo se fede, verità, rivelazione, Chiesa, vengono concepite non come possesso esclusivo ma come ricerca esperita nel riconoscimento di una comune partecipazione a un orizzonte veritativo che trascende tutte le posizioni e che legittima le diverse prospettive, non solo come punto di partenza, ma anche come punto di arrivo. Solo – si potrebbe dire – se la veritas si sviluppa come varietas.

La comunità di Castellion fondata sul linguaggio illuminato dallo Spirito di Dio, non è lontana dalla comunità delle congetture di Cusano, fondate sulla irrappresentabilità della verità divina, alla quale nessun nome è adeguato, e necessariamente plurali e irriducibili, non diversamente dagli Erlebnisse religiosi dello Schleiermacher delle Reden über die Religion (1799)[29] o dalle cifre di Karl Jaspers. Se, in Cusano la religione cristiana presenta una qualche superiorità in perfezione, è essenzialmente per aver attinto, più di altre tradizioni religiose, l’idea della inattingibilità del volto di Dio, per avere tenuto aperto il mistero dietro l’Offen-barung, l’ascosità dietro l’a-letheia.

Ha espresso bene l’idea cusaniana della comunità delle congetture – che  è altresì una definizione della tolleranza come dialogo e partecipazione a un comune logos – Massimo Cacciari in Geofilosofia dell’Europa:

I nostri linguaggi ‘rappresentano’ una patria comune: inattingibile. E la rappresentano in verità in quanto tale. Essi formano una comunità verso di essa: comunità dell’assenza. Comunità di assolutamente distinti, che proprio nella molteplicità dei loro nomi vedono la traccia o i frammenti della patria comune – e in ogni tentativo di confondersi e armonizzarsi la sua negazione, anzi il colmo dell’idolatria: voler possedere in una rappresentazione l’Inattingibile[30].

  1. – L’evoluzione della dottrina della tolleranza in Locke dal Saggio sulla tolleranza (1667) alla Lettera sulla tolleranza (1689)

Dal quadro sinteticamente tracciato sin qui, appare evidente che sotto il termine “tolleranza” si aduna, tra il ‘500 e il ‘600, un plesso di problemi tra loro distinti ma connessi, un insieme di domande nate dalla situazione europea prodottasi dalle «conseguenze non volute» – come direbbe Wolfhart Pannenberg[31] – della Riforma protestante, segnata da un pluralismo conflittuale tra le confessioni religiose. Problemi e domande che Diego Marconi ha così compendiato:

Può un’autorità politica che non sia anche autorità religiosa esistere stabilmente? E’ possibile una società politica bene ordinata che non sia unanime nelle opinioni religiose? Se l’autorità politica dev’essere garante della verità religiosa (perché il suo mandato le è conferito da Dio), come può fare a meno di reprimere l’errore? Se dev’essere ga­rante della virtù dei sudditi (perché questo è il fine a cui è or­dinata da Dio), come può fare a meno di colpire i presupposti dottrinali del vizio? Se la Chiesa di Cristo è una sola, è ammis­sibile, in linea di principio, una pluralità di confessioni cristiane? e quale atteggiamento deve tenere l’autorità politica di fronte al fatto di una tale pluralità? D’altra parte: la repressione del­l’errore per mezzo della forza è compatibile con la carità cristia­na? Inoltre: relativamente a quali materie, e fino a che punto, il carisma individuale del Giusto deve subordinarsi all’autorità politica? È lecito obbedire ad un potere eretico?[32]

Nel vasto sforzo di affrontare questo insieme di questioni confluiscono diverse componenti, religiose, culturali, filosofiche – alcune delle quali sono emerse nella esposizione precedente – che si potrebbero, con qualche approssimazione, così schematizzare:

1.1) innanzitutto, un elemento religioso di tipo irenistico-universalistico che, mettendo a tema la questione dell’essenza del cristianesimo, e traendo alimento soprattutto dalla Philosophia Christi di Erasmo, si dirama, dalla seconda metà del ‘500, in una molteplicità di indirizzi per lo più eterodossi, viventi in mistici e pensatori isolati – come Denck, Franck, Schwenckfeld, Weigel, Castellion, Ochino, Curione, Aconcio (di quest’ultimo sono molto importanti, nella storia dell’idea di tolleranza, i Satanae Stratagemata[33]), oppure, poco oltre, in movimenti come Sociniani[34], Arminiani, Latitudinari inglesi, e che giungerà, per questi tramiti, anche a Locke. A proposito di tale eredità erasmiana, lo storico inglese H.R. Trevor-Roper  ha sottolineato come in seguito alla condanna delle opere di Erasmo, inserite nell’Index librorum prohibitorum, inaugurato da Paolo IV nel 1559[35], si propagò un erasmianesimo sotterraneo, un «erasmianesimo dopo Erasmo», che come un fiume carsico percorse la spiritualità europea giungendo fino all’Illuminismo, le cui origini religiose, per lo storico inglese, vanno rinvenute, più che nelle grandi Chiese ufficiali, nelle sette, nei movimenti ereticali che avevano custodito lo spirito del pensatore di Rotterdam non senza, spesso, radicalizzarlo[36].

1.2) Accanto a questa linea, un’altra posizione religiosa va indicata nella rivendicazione moderna della tolleranza: quella di gruppi settari come Puritani, Battisti, Congregazionalisti, Antinomiani, con conseguenze politiche assai peculiari e distinte da quelle desumibili dalla teologia liberale[37]: in essi, la richiesta non si configurava tanto nei termini di un allargamento della Chiesa, resa così più comprensiva e universale, e di una soluzione neutrale del problema della convivenza tra le diverse fedi, quanto come rifiuto della Chiesa istituzionale, sovvertimento della società politica e sua ricostruzione in funzione delle comunità religiose. Programma “integralistico” (come oggi diremmo) in cui Locke vedrà sempre un grave pericolo, riconoscendosi piuttosto nell’altra tradizione di pensiero prima additata.

2) Insieme a tali fattori, provenienti da esperienze religiose ed ecclesiali, si pone una riflessione “laica”, giuridico-politica che ha elaborato – alla stregua del partito dei “politiques” nella Francia della seconda metà del XVI secolo – modelli di rapporto tra potere politico ed ecclesiastico idonei a costituire uno spazio pubblico in grado di neutralizzare, con l’esercizio di esenzioni e concessioni, gli effetti dell’intolleranza.

E’ in questo complessivo orizzonte, nel quale le componenti suddette si intrecciano e si contaminano variamente, e grazie alla spinta da esse impressa alla storia europea, che tra il ‘600 e il ‘700 avviene la progressiva trasformazione della tolleranza da antica virtù del tolerare (“sopportare con pazienza”) in diritto alla libertà religiosa riconosciuto all’interno di uno Stato segnato dalla separazione tra potere civile e potere ecclesiastico e dal pluralismo dei culti: transito che potrà dirsi compiuto con le solenni Dichiarazioni dei diritti del 1776 in America e del 1789 in Francia. All’interno degli Stati fondati su tali Dichiarazioni, i soggetti da tollerare diventano soggetti giuridici e politici latori di diritti inviolabili che lo Stato, come recita anche la Costituzione italiana all’art. 2, memore in questo delle dottrine giusnaturalistiche, «riconosce e garantisce» (e non elargisce: si riconosce infatti qualcosa che precede e che non può essere, per questo, oggetto di benevola concessione)[38].

Per venire a Locke[39], si può ben dire che nella sua vasta riflessione sulla tolleranza confluiscano le componenti fondamentali sopra additate, quella giuridico-politica e quella religiosa. E’ il loro intrecciarsi nello sviluppo del pensiero lockiano che occorre ora seguire. Se prendiamo le mosse dal Saggio sulla tolleranza del 1667 – scritto sotto l’influsso delle idee liberali di Lord Ashley, il futuro conte di Shaftesbury, che diverrà Cancelliere di Inghilterra (1672) e poi Presidente del Consiglio del Re (1679), per fuggire in Olanda in seguito alla congiura contro Carlo II del duca di Monmouth, e là morire nel 1683 – un fatto è evidente: il punto di vista dominante, anche se già non più esclusivo, com’era stato negli Scritti sul magistrato civile del 1660-62, è quello dell’ordine politico, del bene comune o della sicurezza dello Stato. Il Saggio, infatti, inizia definendo il potere politico come finalizzato al bene, alla conservazione e alla pace degli uomini che fanno parte della società civile, ribadendo, insieme, il carattere limitato (non assoluto) della monarchia e aprendo, così, uno spazio di autonomia per i singoli individui fondata sulla distinzione tra ciò che concerne lo Stato e ciò che non gli compete[40].

Il bene pubblico rappresenta, dunque, il sicuro «rasoio» – come osserva C.A. Viano – per «tagliare tra politica e religione»[41]. Nel Saggio del 1667, in effetti, l’estensione e i limiti della tolleranza sono dettati dal criterio del bene comune. Entro questo quadro si colloca la svolta fondamentale rispetto ai saggi sul magistrato del 1660-62: ora, lo spazio della tolleranza – spazio entro cui il magistrato non ha potere di intervento – appare esteso alle azioni indifferenti, al culto e all’espressione pubblica della religione – alla sfera, si potrebbe dire, della coscienza individuale – restando salva la sicurezza dello Stato e il rispetto dell’ordine pubblico.

Per fondare questa prospettiva, Locke distingue tre specie di «opinioni e azioni degli uomini»: la prima di esse, concernente le «opinioni puramente speculative e il culto divino»  gode di una piena e assoluta tolleranza per il fatto che tale dominio non ha, per sua natura, nulla a che fare con il bene comune, né può turbare la pace della comunità. Assoluta tolleranza, dunque, concessa a ogni forma di dottrina speculativa e culto[42]. La seconda specie di azioni – «quella delle cose che, per loro natura, non sono buone né cattive, e tuttavia hanno a che fare con la società e con le relazioni reciproche tra gli uomini» – ha diritto alla tolleranza, ma solo nella misura in cui tali azioni «non turbino la pace dello Stato, né causino alla comunità più svantaggi che vantaggi»[43]. La terza, infine, concernente «le virtù e i vizi morali», comporta anch’essa uno spazio di tolleranza, perché «il magistrato non è tenuto a punire tutti i vizi, cioè può tollerarne alcuni»[44].

Risulta evidente da questa impostazione che l’estensione della tolleranza è misurata non in base al rilievo del singolo fattore dottrinale nell’ambito della religione, ma all’influenza che esso può esercitare sui rapporti sociali: minore è il grado di incidenza sulla società civile, maggiore sarà la tolleranza accordata. L’ampiezza della tolleranza appare, così, inversamente proporzionale al livello di incidenza sulla società e sul bene comune. Come scrive Viano, alla fine «il titolo alla tolleranza è …negativo e non positivo»[45].

Ciò che risulta determinante entro tale visione severamente liberale è la piena neutralità dello Stato in materia di fede e di culto, mentre si prescinde del tutto dalla distinzione tra verità fondamentali e credenze indifferenti, tra fundamenta e adiaphora. Va segnalato che, tuttavia, accanto all’istanza politica non manca di mostrarsi, in ordine alla tolleranza, una prospettiva religiosa e teologica più vasta. Non a caso, nel finale del Saggio si legge un richiamo esplicito al legame tra tolleranza e latitudinarismo come via per prevenire i mali dei conflitti dottrinali:

gli articoli relativi alle opinioni speculative – recita la chiusa del Saggio – devono essere pochi e ampi, e le funzioni del culto poche e semplici: il che costituisce il latitudinarismo[46].

Si configura, qui, un rinvio all’esperienza religiosa e a una sua nuova interpretazione: da un lato, dunque, lo Stato deve garantire la libertà a fedi e culti diversi senza occuparsi della salvezza dell’anima, ma dall’altro si avanza l’argomento per cui anche l’esperienza religiosa va ripensata così da renderla permeabile alle ragioni della tolleranza, nella rinuncia, innanzitutto, alla pretesa di imporre ideali e articoli di fede.

Tra il 1667 e il 1685, anno dell’elaborazione della Lettera sulla tolleranza, avvengono per Locke alcune tra le esperienze più importanti della sua vita[47]: non solo la collaborazione politica con Shaftesbury alla Exeter House, fino al 1675, ma il successivo soggiorno in Francia, dal 1675 al 1679, tra Montpellier e Parigi, che fornisce un primo orizzonte europeo alla riflessione lockiana, approfondito in seguito negli anni dell’esilio in Olanda (1683-1689).

A Montpellier, i contatti con gli ugonotti radicarono sempre più Locke nella sua avversione al cattolicesimo, e gli offrirono spunto per meditazioni sul problema religioso, annotate sui Diari. Importanti, in particolare, sono, oltre alle meditazioni sull’idolatria e sull’entusiasmo, gli appunti sui rapporti tra fede e ragione, tra Reason e above Reason, che già contengono le linee che rifluiranno nella quarta parte del Saggio sull’intelletto umano (1689) e nella Ragionevolezza del cristianesimo (1695). Furono, però, soprattutto gli anni dell’esilio olandese quelli più fecondi per il maturare definitivo della dottrina sulla tolleranza e delle tesi in materia di interpretazione delle Sacre Scritture. Riandiamo dunque a questi anni (1683-1689), a cui risale l’elaborazione della Epistola de tolerantia, per poi concentrarsi, finalmente, sul suo contenuto.

E’ fatto ben noto agli studiosi che la storia moderna della tolleranza abbia il suo centro d’irradiazione nell’Olanda del ‘600[48], Paese che raggiunge una straordinaria fioritura intellettuale insieme a uno sviluppo economico eccezionale, e il cui icastico affresco ci è offerto dai celebri studi di Johan Huizinga[49]. Proprio là, nella patria di Erasmo, rimasta ben memore del suo insegnamento – è lo stesso Huizinga a ricordarlo[50] – si cerca rifugio per motivi confessionali o politici, là, e soprattutto ad Amsterdam, giungono esiliati nella speranza di trovare pace e sicurezza. Pierre Bayle, profugo come Locke nei suoi stessi anni, e anch’egli impegnato nella lotta per la tolleranza – come attestano le opere scritte all’indomani della revoca dell’Editto di Nantes (1685), Ce que c’est que la France toute catholique sous le règne de Louis le Grand (1686) e, soprattutto, il Commentaire philosophique sur les paroles de Jésus-Christ «contrains-les d’entrer» – chiamerà l’Olanda «grande arche des fugitifs».

Naturalmente, se è in Arminio che si raccoglie il dissenso di una parte del clero olandese rispetto alla rigida ortodossia calvinista e l’orientamento verso una revisione del calvinismo stesso in senso anti-predestinazionistico, Arminio riattingeva la tradizione liberale che aveva avuto, certo, in Erasmo il supremo rappresentante, ma che si era in seguito conservata nelle opere e nel magistero di pensatori come Dirk Coornhert, Caspar Coolhaes, Jon Coornhert, e, naturalmente, Ugo Grozio, autore di quel De veritate religionis christianae (1622) nel quale si avverte l’eco delle lotte tra arminiani e gomaristi tra il 1609 e il 1618, lotte in cui il grande pensatore si trovò impegnato.

Ulteriore elemento che confluisce nell’elaborazione teologica olandese  e nella teorizzazione della tolleranza, come ha sottolineato Luisa Simonutti nel curare l’importante carteggio tra Limborch e Le Clerc,

fu l’influenza operata entro la tradizione erasmiana dagli scritti di alcuni dei più famosi eretici del Cinquecento: Sebastiano Franck (1499-1542), Sebastiano Castellion (1515-1563), Giacomo Aconcio (ca. 1492-ca. 1567)[51].

L’Olanda fu, dunque, non a caso, il Paese che nel settembre del 1683 anche Locke scelse come rifugio politico, in seguito all’accusa di aver preso parte alla congiura ordita da Shaftesbury contro Carlo II. Nei sei anni di permanenza, il pensatore inglese frequentò l’ambiente rimostrante di Philippus van Limborch (1633-1712), il teologo arminiano docente di teologia al Seminario dei Rimostranti di Amsterdam, autore della fondamentale Theologia christiana ad praxin pietatis ac promotionem pacis Christianae unice directa (Amsterdam 1686), summa della teologia arminiana, nonché nipote di Episcopio, al quale si deve quella Confessio Remonstrantium (1619) che presenta un rilievo cruciale nel dibattito sui rapporti tra potere civile e diritti della coscienza. Inoltre, Locke si legò molto a Jean Le Clerc, giovane professore di ebraico nello stesso Seminario, che diventerà amico e biografo del filosofo inglese. Entrambi questi pensatori avranno un grande influsso sul pensiero religioso e tollerantistico lockiano.

Locke assimilò densamente la cultura arminiana dell’intero secolo e si avvide della sua prossimità ad alcuni aspetti del Latitudinarismo inglese, del Platonismo di Cambridge appreso negli anni giovanili, e attestato, in particolare, nei Saggi sulla legge naturale (1664)[52]. Nel rinviare al prosieguo dell’esposizione l’analisi dell’influsso di Limborch e di Le Clerc sul filosofo inglese, possiamo addentrarci nell’analisi della Lettera sulla tolleranza. E’ in essa che le due scaturigini decisive della dottrina moderna della tolleranza in precedenza additate – quella giuridico-politica e quella religiosa – si saldano e si congiungono.

La Lettera, com’è noto, fu elaborata intorno al 1685. Non è difficile fissare la peculiarità di questa data: si tratta dell’anno in cui Luigi XIV revocava l’Editto di Nantes, emanato nel 1598 da Enrico IV a tutela delle minoranze protestanti in Francia, con la ripresa conseguente delle persecuzioni degli ugonotti – note come «croisade dragonne», o «dragonnade» – finalizzate alla conversione violenta degli eretici, mentre in Inghilterra Giacomo II tentava una restaurazione cattolica.

E’ nell’autunno di quel difficile anno che Locke – spinto da Limborch e  probabilmente sollecitato dall’eco di quei drammatici eventi che giungeva dai racconti degli ugonotti rifugiatisi in Olanda -, si risolse a scrivere le sue riflessioni sulla tolleranza che, com’è noto, saranno pubblicate anonime solo nel 1689, prima a Gouda, in edizione latina, e subito dopo tradotte in inglese dal mercante sociniano William Popple e apparse a Londra nel novembre dello stesso anno[53].

A leggere le pagine che fanno da Prologo a questo documento, del quale il giurista Francesco Ruffini, nella sua celebre opera sulla Libertà religiosa (1901) ha potuto scrivere che

si leva, con un volo poderoso, su tutta quanta la letteratura anteriore e precorre in molti punti quanto di più famoso gli stessi secoli seguenti diedero[54],

e a confrontarle con il Saggio sulla tolleranza in cui Locke aveva, oltre venti anni prima, elaborato il tema della tolleranza, balza subito agli occhi una novità fondamentale: la separazione tra potere civile e religioso è, all’inizio, dedotta non da considerazioni relative alla natura dello Stato e alla sua conservazione, ma dall’essenza del cristianesimo e della Chiesa. L’Epistola si apre infatti con la tesi per cui la tolleranza è

il principale segno distintivo della vera chiesa[55],

e sviluppa l’argomento, di ascendenza erasmiana e ripreso in ambito riformato dalla teologia rimostrante, secondo cui la carità, e non la forza, costituisce la cifra della vera Chiesa e dell’autentico cristiano. E’ presente, inoltre, in queste pagine, un tema che Locke svilupperà di lì a pochi anni nella Ragionevolezza del cristianesimo: essenziali alla salvezza sono solo la fede nella messianicità di Gesù e l’osservanza della legge morale rivelata da Cristo, dunque l’agire virtuoso e caritatevole susseguente al pentimento.

Infatti, per quanto alcuni possano vantare antichità di luoghi di culto e di titoli, o magnificenza di riti; altri la riforma a cui hanno sottoposto il loro insegnamento; e tutti infine l’ortodossia della loro fede (perché ciascuno è ortodosso per se stesso), questi, ed altri dello stesso genere, possono essere segni di una contesa tra uomini, per il potere e il dominio, anziché segni della Chiesa di Cristo. Uno che possegga tutte queste doti non è ancora cristiano, se manca di carità, di mitezza e di benevolenza verso tutti gli uomini in generale, anche quelli che non professano la fede cristiana[56].

Conclude Locke:

La tolleranza verso coloro che hanno opinioni diverse in materia di religione è a tal punto consona al Vangelo e alla ragione, che appare una mostruosità che ci siano uomini ciechi, di fronte a una lezione così chiara[57].

La tolleranza dunque – questa è la vera novità dell’Epistola – compete ai singoli credenti e alle comunità religiose quanto allo Stato. Essa, infatti, coinvolge l’essenza del cristianesimo, il suo nucleo pratico di verità. Che la tolleranza, e non articoli di fede o pratiche liturgiche, abbia a che fare con l’essenza del cristianesimo è tesi essenziale: con essa, Locke, in sintonia con Erasmo e con la linea del pensiero religioso liberale moderno, spostava il baricentro della vera religione dalle verità dogmatiche all’etica, cioè dalla fides quae creditur (i contenuti oggettivi della fede) alla fides qua creditur (l’atto soggettivo del credere), instaurando, a suo modo, nel dominio del religioso quella rivoluzione copernicana – ovvero far gravitare l’oggetto intorno al soggetto, anziché, tolemaicamente, il soggetto intorno all’oggetto – che Kant coglieva nel capovolgimento metodico contenuto nella fisica galileiana e nella matematica e che, come si legge nel celebre passo della Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, intendeva applicare alla metafisica.

E’ dunque a partire da questo presupposto ermeneutico-teologico –  per il quale il cristianesimo è costituito, nella sua essenza, da un minimum di articoli di fede pratici necessari alla salvezza da distinguere dalle verità  inessenziali, o adiafore, distinzione giunta in eredità a Locke dalla teologia latitudinaria inglese, oltre che da quella arminiana – che il filosofo inglese deduce la necessità di

far distinzione tra materia civile e religiosa, e che si debbano fissare convenientemente i confini tra chiesa e stato[58].

Scrive Locke, chiarendo la linea di demarcazione tra autorità civile e comunità religiose:

Il fine di una società religiosa è il culto pubblico di Dio e l’acquisizione della vita eterna per mezzo di esso. A ciò dunque deve tendere ogni ordinamento; da questi confini devono essere limitate tutte le leggi ecclesiastiche. In questa società non si tratta né si può trattare di beni civili o di proprietà terrene; non vi si deve impiegare per nessuna ragione la forza, che riguarda completamente il magistrato civile, alla cui autorità sono sottoposti la proprietà e l’uso dei beni esteriori[59].

Il discorso lockiano sin qui considerato obbedisce a una logica deduttiva: a partire da una fede fatta di carità, di pietà, di benevolenza, professata in nome del Vangelo e insieme della ragione, Locke inferisce la conseguenza della separazione di pertinenza tra le due sfere, quella civile e quella ecclesiale, ciascuna chiamata a vivere iuxta propria principia.  Manca qui lo spazio per un confronto tra la l’Epistola lockiana e il Trattato sulla tolleranza (1763) di Voltaire: mette conto, tuttavia, almeno di passaggio, notare, come è stato fatto[60], la diversità metodologica tra le due opere: mentre Locke adotta un argomentare deduttivo, che va dal principio all’esperienza, Voltaire – in questo caso più lockiano di Locke – procede in chiave essenzialmente narrativa, storica, esperienziale, induttiva: infatti, partendo dall’esposizione del celebre caso giudiziario di Jean Calas, egli passa a considerazioni che si dilatano a un orizzonte mondiale, alla storia universale, alla religione biblica, alle credenze extra-europee, per giungere nei capitoli finali, mediante la critica di ogni religione storica e teologia, all’idea di teismo, di religione naturale, di tolleranza universale, e alla celebre Preghiera a Dio che conclude in gloria l’esposizione. Così, quella di Voltaire si configura come una potente ricostruzione storica, una icastica narrazione tesa a dimostrare, nei fatti, da un lato, l’intolleranza come male e l’assurdità dello «sterminarsi per dei paragrafi», dall’altro la tolleranza come «appannaggio dell’umanità» (Dizionario filosofico, voce “Tolleranza”), come virtù capace di riconoscere in ogni uomo il proprio fratello e nel pluralismo di credenze un dato di fatto non solo da sopportare – come si sopporta l’errore – ma da promuovere come un valore in sé[61].

Per tornare alla Lettera sulla tolleranza, alle premesse sul credo evangelico, insieme spirituale e razionale, segue la definizione dello Stato come associazione unicamente costituita in vista del conseguimento e della conservazione di precisi interessi e beni civili e mondani, quali sono la vita, la libertà, l’integrità fisica, l’assenza di dolore, la proprietà, e la limitazione dei compiti del magistrato e dell’autorità civile ad essi, ribadendo che cura e salvezza delle anime in nessun modo possono competere al potere civile, da parte del quale ogni uso della coazione appare inefficace a guadagnare l’intima persuasione del singolo.

Dopo aver circoscritto la sfera statuale e i relativi compiti dell’autorità civile, si giunge alla definizione della Chiesa come

libera società di uomini che si uniscono volontariamente per adorare pubblicamente Dio nel modo che credono gradito alla divinità al fine della salvezza delle anime[62].

Libertà e volontarietà sono i tratti costitutivi della Chiesa, dal momento che nessuno ne nasce membro, perciò sia l’accesso sia l’uscita da essa sono regolati essenzialmente dalla speranza nella salvezza e affidati alla scelta del singolo. Né, in essa, l’autorità deve dipendere da una organizzazione di vescovi o presbiteri, cioè da una gerarchia che riceva l’investitura dall’alto, come nelle Chiese anglicana e presbiteriana: in sintonia con le concezioni rimostranti e latitudinarie, Locke nega che chi presiede a una comunità religiosa sia dotato di carismi speciali e possa vantare efficacia particolare, dal momento che nulla manca a una assemblea dove è Cristo presente. Esiste, dunque, secondo la visione lockiana, una piena libertà mediante cui il singolo fedele conferisce una sorta di mandato fiduciario al pastore, al ministro del culto, con la possibilità di revocarlo scegliendo altri ministri o addirittura abbandonando la comunità religiosa. In questo caso, come in quello della espulsione o della scomunica, provvedimenti disciplinari a cui le comunità religiose hanno diritto, il singolo non deve subire alcuna conseguenza civile, in base al rigoroso principio della divisione delle sfere civile e religiosa.

Anche per la concezione della Chiesa vale la dottrina della distinzione tra verità fondamentali e adiafore, o non essenziali, in ambito teologico. Vale, cioè, la centralità di quell’unum necessarium identificato in ciò che letteralmente è rinvenibile nelle Sacre Scritture – l’ermeneutica letterale è, come vedremo, un aspetto fondamentale della Ragionevolezza del cristianesimo –  mentre la comunità religiosa non può imporre come essenziali

le proprie invenzioni o le proprie interpretazioni, e sancirle con leggi ecclesiastiche, quasi fossero assolutamente necessarie alla professione del cristianesimo, mentre di esse la parola divina o non dice nulla affatto, o, per lo meno, nulla di imperativo[63].

Il tratto della Chiesa universale, della «vera Chiesa», distinta e ulteriore rispetto alle varie comunità storiche, e non coincidente con nessuna di esse, finisce per essere così lo stesso che segna l’autentico fedele: la praxis pietatis, un habitus etico che chiunque può condividere, in antitesi alla disciplina esteriore che Kant nella Religione nei limiti della semplice ragione chiama «statutaria», impartita dalle singole chiese. Come osserva Viano, Locke nell’Epistola avvalora la tesi secondo cui

l’unità di fatto del mondo cristiano in un’unica chiesa, con i medesimi culti e retta dalle medesime autorità, non risulta affatto tra i fini cui un Cristiano deve necessariamente mirare, e in base ai quali sono stabiliti i suoi ob­blighi. Non è per nulla contrario ai doveri del Cristiano e allo spi­rito del cristianesimo l’esistenza e il mantenimento di una pluralità di fedi religiose, organizzate in comunità religiose distinte. Il ca­rattere comune che affratella le comunità distinte è lo spirito di carità, che anima i loro rapporti e che costituisce il vero contenuto del cristianesimo[64].

 

Da questo punto di vista, nessuna Chiesa storica può identificarsi con la Chiesa universale, nessuna può avocare a sé la pretesa di esclusività della rivelazione nella sua purezza ed esaustività e, anche, nessun credente può identificare la propria appartenenza ecclesiale con la comunità degli eletti, con prevedibili conseguenze di fanatismo. La Chiesa universale non appartiene ad alcun gruppo, non è, si potrebbe dire, localizzabile nel tempo e nello spazio,  nessuno può dire dove sia, poiché vive “trasversalmente” nella pratica del cristianesimo autentico, in un ethos che si può ritrovare, unico e diverso, in credenti appartenenti a distinte comunità religiose.

Nella trattazione della natura della Chiesa e dei suoi limiti, legati alla sfera del culto e all’acquisizione della vita eterna per mezzo di esso, con esclusione conseguente dei beni civili e delle proprietà terrene, si trova la tesi per cui la tolleranza è obbligo che compete alle comunità religiose, oltre che essere un diritto dei cittadini nei confronti dello Stato. Tolleranza, dunque, come si diceva, non solo come autolimitazione del potere statuale – inscritta, alla fine, nello stesso costituirsi consensuale e contrattuale della società politica sullo stato di natura, al fine di tutelare libertà, autonomia, proprietà dei singoli in condizioni sottratte alla precarietà della società naturale -, ma anche del potere religioso. Così, tra i doveri di ognuno rispetto alla tolleranza, accanto ai doveri dei singoli, degli Stati, del magistrato civile – su cui non possiamo qui insistere nel dettaglio – vi sono i doveri delle Chiese e del clero.

Seguono poi, nella Epistola, ampie considerazioni relative alla tolleranza dei magistrati rispetto al culto, nelle quali si espone la dottrina per cui il magistrato non ha il potere né di imporre, né di proibire pratiche religiose; rispetto ai dogmi, sia speculativi, che in generale non possono essere imposti né proibiti per legge, sia pratici, che vanno in generale tollerati finché non violino il diritto e la proprietà altrui; rispetto alle riunioni religiose, il cui carattere sedizioso –  argomenta Locke – potrebbe essere eliminato dalla tolleranza stessa. La tolleranza si declina, così, in queste pagine, come libertà di coscienza, libertà di culto, libertà di associazione religiosa, con due eccezioni fondamentali: 1) essa non può essere ammessa nei confronti dei cattolici, o «papisti» i quali, per la loro appartenenza alla Chiesa di Roma, diventano automaticamente sudditi di un sovrano straniero, e sono perciò pronti a rovesciare le legittime autorità costituite. 2) Altrettanto, non possono essere tollerati gli atei, che, non credendo in Dio, non riconoscono alcuna autorità e non possono fare giuramenti. Dio e la religione rappresentano per Locke – ed è un pensiero che lo avvicina a Voltaire – il fondamento ultimo delle relazioni fra gli uomini. Negarli equivale ad assecondare e a favorire la dissoluzione della società.

L’approdo dell’Epistola è una sorta di specularità tra prospettiva civile-politica e prospettiva ecclesiale-religiosa: come osserva Viano,

il problema della tolleranza, esaminato dal punto di vista politico, riceveva la medesima soluzione che era emersa nel corso del suo esame dal punto di vista della religione[65].

Dimensione politica e dimensione religiosa, in Locke, si riconoscono unite, nella differenza di ambiti, a partire dal comune principio di libertà che le fonda. Né da parte dello Stato, né delle comunità religiose, è lecito imporre alcunché sul piano della fede. Ogni uomo ha diritto di cercare la verità etico-soterica secondo le proprie convinzioni interiori, inviolabili, non conculcabili da nessun potere esterno. Così, libertà di coscienza sul piano civile e carità sul piano religioso, carattere privato delle comunità religiose sul terreno civile e carattere volontario su quello religioso possono, nella visione lockiana, saldarsi in perfetta coincidenza. I risultati dottrinali ottenuti sin dal Saggio del 1667, e fondamentalmente confermati nella Lettera, si inverano alla luce della nuova interpretazione dell’esperienza di fede, resa aperta alla tolleranza e al principio della libertà:

libertà di ogni uomo – come scrive icasticamente Mario Sina – e in particolare di ogni cristiano di ricercare la verità religiosa, di ascoltare la parola rivelata senza mediazioni forzate, di professare la sua fede, e di comunicarla ai suoi fratelli attraverso lo strumento della convinzione. E’ la libertà di ogni cristiano di scegliere, senza imposizioni, la confessione che in coscienza ritiene più conforme al volere del Salvatore, e di abbandonarla pacificamente quando tale convinzione avesse a venir meno[66].

Sull’ermeneutica del cristianesimo lockiana, sui presupposti religiosi della tolleranza, conviene ora sostare con maggiore attenzione.

  1. Tolleranza, cristianesimo ragionevole ed ermeneutica biblica in Locke

Come bene ha scritto Roland Bainton, Locke fu

uno di quei protestanti in cui i rigori del Calvinismo e la mitezza dell’Erasmianesimo si trovavano in lotta[67].

In effetti, il pensiero religioso di Locke – quale si esprime soprattutto nelle tarde opere scritte tra il 1695 e il 1704, come La  Ragionevolezza del cristianesimo, le Parafrasi e note delle Epistole di S. Paolo ai Galati, ai Corinti, ai Romani, agli Efesini, il Discorso sui miracoli, il Saggio per la comprensione delle Epistole di S. Paolo – rappresenta il portato della lotta tra le due anime additate, quella calvinista e quella erasmiana. Di esse, prima di concentrarci in particolare sulla Ragionevolezza del cristianesimo, occorrerà brevemente ripercorrere il complesso e diuturno intrecciarsi nel Denkweg del filosofo inglese.

Quando, nell’autunno del 1652, il giovane Locke varcava la soglia del Christ Church College di Oxford, immatricolandosi come borsista, via via percorrendo, sino al 1667 (l’anno dell’incontro decisivo con Lord Ashley) vari gradi accademici e ricoprendo diversi incarichi, la temperie culturale e filosofica che dominava la prestigiosa Università era segnata da quel pesante aristotelismo scolastico che non mancò, immediatamente, di suscitare l’avversione di Locke. Ancora a distanza di molti anni, il filosofo ricordava, nelle sue conversazioni confidenziali con Jean Le Clerc, il giovanile disagio legato alla formazione speculativa ricevuta a Oxford:

L’ho sentito con le mie stesse orecchie – scrive Le Clerc nell’Elogio – lamentarsi dei suoi primi studi, in una conversazione che ebbi un giorno con lui a questo proposito; e poiché gli dicevo di aver avuto un professore, seguace della filosofia di Descartes, che era dotato di una grande chiarezza intellettuale, egli mi confidò di non aver avuto una simile fortuna, anche se, come ben si sa, egli non fu cartesiano. Mi confidò pure di aver perso molto tempo all’inizio dei suoi studi, perché a quei tempi a Oxford non si conosceva che un peripatetismo impacciato da parole oscure e da ricerche inutili[68].

Ma Oxford, dove Locke terrà per oltre trent’anni una casa e dove di tanto in tanto, nel corso della sua vita, non mancherà di tornare, non coincise solo con l’aridità di una filosofia dogmatica che, per il futuro autore del Saggio sull’intelletto umano, aveva perso l’anima di ricerca della verità. Quel luogo è infatti segnato, anche, dalle lezioni di ebraico di Edward Pococke, il migliore orientalista inglese del tempo, dagli studi di scienze naturali e di medicina, là intrapresi, dall’incontro con Robert Boyle, del quale Locke fu amico, discepolo e collaboratore. Ed è – quel luogo – altresì segnato dall’eco, che sino là giungeva, dei conflitti di quel drammatico periodo della storia inglese, che aveva visto, nel 1649, la decapitazione di Carlo I, la soppressione della monarchia, la proclamazione della Repubblica di Cromwell, nonché, proprio nel 1653, l’anno di ingresso di Locke a Oxford, la nomina di Cromwell stesso a Lord protettore della Repubblica d’Inghilterra, fino alla fine del Protettorato (1659) e alla restaurazione della monarchia Stuart, nel 1660, ad opera di Carlo II, cui succederà nel 1685 il cattolico duca di York, con il nome di Giacomo II.

Prezioso documento della Stimmung di smarrimento, di sgomento, del giovane Locke di fronte al clima conflittuale, fazioso, violento, che vedeva attorno a sé, è una lettera – databile presumibilmente gennaio 1660 – scritta al padre, puritano convinto e fautore della Repubblica, che svela la radice esistentiva, il bios su cui poggia la successiva meditazione politico-religiosa lockiana:

Le divisioni sono così profonde, le fazioni così violente e i progetti così dannosi, quanto non lo sono mai stati; il loro groviglio poi è così intricato che ci son pochi che sanno cosa forse sia meglio sperare o desiderare … In questo tempo in cui non c’è altra sicurezza contro le passione e le vendette degli uomini se non quella che la forza e il ferro procurano, ho a lungo pensato che la più sicura condizione fosse quella di prendere le armi, cosa che avrei fatto se avessi potuto risolvere il dilemma sotto quale insegna arruolarmi e per quale partito usare quelle armi, e se avessi potuto esser certo di non versare il mio sangue solo per ac­crescere le fortune degli altri uomini e di non macchiarmi di crimini per la loro ambizione di aumentare queste for­tune. Le armi sono l’ultimo ed il peggiore rifugio. La gran­de sventura di questa nazione distrutta e fuori di senno è che le guerre non hanno prodotto nient’altro che guerre e che la spada ha dato lavoro alla spada. Non riesco a pen­sare che il tamburo sia stato suonato una qualche volta per portare pace a questa nazione. Devo confessare che in que­sto stato di cose non so né cosa pensare, né cosa dire. Vor­rei essere in pace e vorrei essere al sicuro: se però non mi è dato di godere di entrambe le cose insieme, quest’ultima cosa certamente deve venir conseguita ad ogni costo. So che non mi si addice, a motivo della mia condizione e a motivo della mia inesperienza, darti consigli; questo solo però mi auguro: che tu non arrischi più la salute e i beni che ti rimangono a vantaggio di uomini ingrati, come sono gli ambiziosi, di uomini mendaci, come sono coloro che si­mulano di essere religiosi, di tiranni, come sono coloro che promettono la libertà[69].

Ma, insieme all’eco delle vicende politiche legate alla rivoluzione inglese, e in attesa di quella “gloriosa” del 1689 ad opera di Guglielmo d’Orange e del Bill of Rights, che segnerà il passaggio dalla monarchia di diritto divino a quella in cui il sovrano trae contrattualmente la propria investitura dal Parlamento, giungeva a Oxford anche quella della speculazione che nella non lontana Cambridge si andava svolgendo intorno al platonismo, ad opera di una scuola, nota appunto come dei Platonici di Cambridge. L’influsso su Locke di alcuni pensatori che ad essa facevano capo – in particolare di Nathanael Culverwell – è evidente soprattutto nei Saggi sulla legge naturale risalenti al 1664. E’ attraverso il Platonismo di Cambridge che si pone, in Locke, il primo decisivo germe erasmiano della sua coscienza etico-religiosa, che si completerà, compenetrandosi con il Latitudinarismo inglese, al tempo dell’esilio olandese e dello studio della teologia arminiana.

Da Culverwell, autore del Discourse of the Ligth of Nature (1652), e poi da altri latitudinari inglesi, come Benjamin Whichcote e, probabilmente in modo indiretto, Ralph Cudworth, Locke recepì l’idea di una legge naturale che, espressione della volontà divina, si manifesta nella nostra retta ragione, senza con ciò – per Culverwell, come per Locke – dover postulare l’esistenza di principi innati, derivando la conoscenza di tale legge, al pari di tutte le altre cognizioni, dall’esperienza sensibile. Il lume naturale che ci consente di conoscere tale legge, infatti, non è facoltà inscritta a priori nei nostri cuori, ma è il prodotto della sinergia tra la facoltà discorsiva e i sensi. Quel lume, in quanto ragione naturale, non è altro che quella «Candle of the Lord» (Candela del Signore) teorizzata da Culverwell e da Wichcote, ed evocata significativamente nella Ragionevolezza del cristianesimo cap. XIV (sul quale sosteremo oltre), nel corso della questione relativa alla salvezza di coloro che non hanno ricevuto la rivelazione del Messia[70].

Abbiamo già sottolineato la crucialità dell’esperienza olandese per il maturarsi del pensiero religioso e della riflessione sulla tolleranza lockiana. E si sono indicati i due pensatori, frequentati da Locke negli anni compresi tra il 1683 e il 1689, a cui va riferito l’influsso principale: si tratta di Philippus van Limborch e di Jean Le Clerc. A ques’ultimo in particolare – conosciuto da Locke attraverso Limborch nell’inverno del 1685-86 – vanno ricondotte molte riflessioni di ermeneutica biblica che il filosofo trasfonderà, in particolare, nella Ragionevolezza del cristianesimo. Nel 1685, Le Clerc aveva scritto, in risposta all’opera di esegesi biblica Histoire critique du Vieux Testament del padre oratoriano Richard Simon, un testo intitolato Sentimens de quelques Théologiens de Hollande, che attirò l’attenzione di Locke, a quel tempo interessato ai problemi concernenti l’ispirazione religiosa e la rivelazione.

Qual era il contenuto centrale del lavoro di Simon, apparso nel 1678, che  può essere considerato una risposta al Tractatus theologico-politicus di Spinoza, già circolante in quegli anni in Francia grazie alla decisiva mediazione di Leibniz[71], e probabilmente conosciuto dallo stesso biblista oratoriano? Esso si addensava attorno alla tesi – comune a Spinoza e al suo metodo storico-critico – dello stato di corruzione testuale delle Sacre Scritture, tesi alla quale Simon rispondeva non destituendo il testo sacro di valore, ma integrandone l’insufficienza mediante il riconoscimento che la Scrittura è, anziché lettera morta e corrotta, espressione di un patrimonio di rivelazione che appartiene non al singolo profeta, compilatore del libro, ma all’intero popolo di Dio, ispirato nella sua interezza e cooperatore in diversi gradi all’opera della Scrittura, dunque alla tradizione ecclesiastica, custode dello Spirito chiamato a vivificare la lettera. Qui, rivelazione, ispirazione e tradizione omnino convertuntur. Se discussa tra gli studiosi è la conoscenza dell’opera spinoziana da parte di Simon, indiscutibile è l’intenzione antiprotestante di questa tesi: con l’affermazione dell’insufficienza del testo biblico in sé considerato, veniva destituito di fondamento il “sola scriptura” luterano e riaffermata l’autorità ispirata della tradizione ecclesiastica come sua essenziale integrazione.

Nondimeno, i rischi che il metodo storico-critico schiudeva erano enormi, come intuì subito Jaques-Bénigne Bossuet, il teologo, vescovo di Meaux e precettore del Delfino di Francia (1627-1704), autore, tra l’altro, del celebre Discours sur l’Historie universelle (1681), acerrimo avversario del biblista oratoriano, di cui cercò di impedire la diffusione delle opere. In effetti, con lo stesso metodo di Simon, a ben altre conclusioni era giunto Spinoza: questi, per uscire dalla petitio principii di chi, per accertare la verità della Scrittura la presuppone, così dando per risolto il problema prima dell’indagine critica, adotta, com’è noto, il principio della «cognitio Scripturae ab eadem sola», ovvero del «ricavare la conoscenza della Scrittura soltanto dalla Scrittura stessa». Questo metodo di azzeramento dei presupposti, questo rasoio di Ockham, originariamente proposto in campo riformato, nella mani di Spinoza si trasforma in mezzo per dimostrare che lo scopo della Scrittura non può essere la conoscenza vera di Dio, in senso filosofico e intellettuale, ma la comunicazione essenziale di un messaggio morale che invita gli uomini all’obbedienza. Entro questi limiti, e solo entro essi, la Bibbia può essere considerata come parola di Dio rivelata: in quanto contiene i precetti di una vera religio universalis, che Spinoza chiama anche «fede cattolica», segnata dal carattere etico, dalla pratica dell’amore verso il prossimo, ormai separata dalla vana religio, superstiziosa, fanatica, e i cui “dogmi” si leggono nel capitolo XIV del Tractatus. E’ noto che la richiesta della libertas philosophandi, cioè della tolleranza, è attinta da Spinoza per questa via, che separando radicalmente filosofia e teologia, poteva concludere che

la fede concede a ognuno la somma libertà di filosofare, in modo che tutti possano pensare ciò che vogliono su qualsiasi cosa senza empietà: essa condanna come eretici e scismatici soltanto coloro che insegnano opinioni per sostenere la ribellione, gli odi, le contese e l’ira, e, al contrario, considera credenti soltanto coloro che, in proporzione alla forza della loro ragione e alle loro possibilità, sostengono la giustizia e la carità[72].

Giungiamo, dopo questa necessaria premessa, alla posizione di Jean Le Clerc, dalla quale attinse, pur criticamente, Locke. Nel confutare Simon, Le Clerc intende rovesciarne la tesi: dove l’oratoriano estendeva l’ispirazione all’intero popolo di Dio e al complessivo traditum ecclesiale, Le Clerc la riduceva al minimo, sia cronologicamente che contenutisticamente. La fedeltà al “sola Scriptura” protestante, in lui significava essenzialmente il riferimento a quei principi minimi salvifici proposti dal testo sacro, che non la tradizione ecclesiale, ma la ragione è chiamata a cogliere, sceverandoli dall’inessenziale.

Un punto cruciale, al di là delle perplessità espresse in alcune note del 1685[73], Locke condivise di questa impostazione: l’impegno a circoscrivere l’ispirazione evitandone ogni arbitraria e pericolosa estensione, al fine di ricondurre il cristianesimo a quella fondamentale conformità alla ragione che lo fa, appunto, «ragionevole». Sin dalle annotazioni diaristiche del 1676[74], risalenti al soggiorno francese, Locke sembra preoccupato di venire a capo del rapporto fede-ragione, nonché dello statuto dell’ispirazione, contro le deviazioni dell’entusiasmo fanatico (Enthusiasm), ovvero della falsa presunzione di comunicare immediatamente con Dio. Sugli stessi temi Locke torna negli appunti dell’aprile 1681 e del febbraio 1682, dove si legge che

l’ispirazione considerata in se stessa non può essere un fondamento per accogliere qualche dottrina non conforme a ragione[75]

o che

una persuasione forte e ferma circa una qualche proposizione riguardante la religione, della quale un uomo non ha nessuna prova sufficiente dalla ragione, ma che egli accoglie come verità introdotta nello spirito in modo straordinario da Dio stesso e come influsso proveniente immediatamente da lui, mi sembra essere fanatismo; essa non può essere per nulla prova o fondamento di certezza e non può in nessun modo essere considerata conoscenza[76].

Il rifiuto del fanatismo della imposizione dogmatica ed ecclesiastica, radicato nella teologia liberale latitudinaria e fatto proprio da Locke, ha il suo analogon in questo rifiuto del «fanatismo della coscienza singola»[77], che – come scrive Locke nel dicembre del 1687 in alcune note occasionate dalla lettura  di un testo sull’ispirazione interiore vicino alla posizione  dei Quaccheri[78] – oltre a rendere inutile la Sacra Scrittura, renderebbe altrettanto pleonastica comunità cristiana e predicazione. Locke nega che sia possibile leggere le Sacre Scritture mediante diretta ispirazione in nome del fatto che esse vanno lette con la ragione. Nel Saggio sull’intelletto umano, Locke ritorna, nel capitolo XIX § 15 del Libro IV, sul tema dell’entusiasmo osservando che

i santi uomini del passato, che hanno ricevuto rivelazioni da Dio, per testimoniare che tali rivelazioni provenivano da Dio non avevano solo la certezza di quella luce interiore nelle loro menti. Essi non erano lasciati unicamente ai loro convincimenti per sapere che tali convincimenti provenivano da Dio, ma avevano segni esterni che li persuadevano a proposito dell’identità dell’autore di quelle rivelazioni. Quando essi dovevano convincere gli altri veniva dato loro il potere per giustificare la verità delle loro missioni ricevute dal cielo e mediante segni visibili potevano garantire la divina autorità del messaggio di cui essi erano vicari sulla terra[79].

Questa riflessione sui temi dell’ispirazione e della rivelazione si salda, negli anni olandesi, con l’approfondimento dell’identità del cristianesimo ragionevole. Qui, determinante appare l’influsso, oltre che della diretta lettura di Epicopio, dell’opera di Philippus van Limborch Theologia christiana. E’ dunque nell’alveo della riflessione arminiana, oltre che nella teologia latitudinaria inlgese, che i motivi teologici ed etici cruciali dell’ermeneutica biblica lockiana trovano il loro fondamento. E’ in tale opera del teologo arminiano, cui sarà dedicata l’Epistola sulla tolleranza, che il filosofo inglese poteva rinvenire la tesi che rappresenta il focus della Ragionevolezza: l’oggetto fondamentale della nostra fede e insieme la condicio sine qua non della nostra salvezza, è che «Jesum esse Christum», ovvero che Gesù di Nazareth è il Messia, il Cristo promesso, il Salvatore inviato da Dio. A questo solo articolo, per Limborch, si può ridurre il contenuto della verità necessaria alla salvezza, minimum in cui tutte le confessioni cristiane possono convergere abbandonando, in nome di esso, lotte e contese teologiche.

Nell’enunciare questa tesi limborchiana, siamo già condotti al cuore della Ragionevolezza del cristianesimo, quale si manifesta nelle Scritture[80],  l’opera pubblicata da Locke nel 1695 che costituisce un trattato di esegesi neo-testamentaria e contiene l’approdo ermeneutico di Locke al problema religioso della natura dell’atto di fede e dell’essenza del cristianesimo. Se tale è infatti il fine della ricerca – la comprensione della religione cristiana nel suo nucleo essenziale – il metodo utilizzato è un’ermeneutica di tipo letteralistico: la severa fedeltà, peculiare eredità della Riforma, al testo scritto, si traduce in Locke in rigoroso letteralismo, nella convinzione che  il Nuovo Testamento sia

una raccolta di scritti destinati da Dio all’istruzione della maggior parte dell’umanità illetterata nella via verso la salvezza; e che pertanto, generalmente, e nei punti essenziali, essi debbano essere intesi nel semplice significato diretto delle parole e delle frasi; nel  modo in cui si può supporre che queste siano state sulle labbra di coloro che le pronunciarono. Essi le usarono conformemente al linguaggio di quel tempo e luogo in cui vissero, senza quei significati dotti, artificiali e forzati che sono stati scovati e loro attribuiti nella maggior parte dei sistemi teologici, in conformità con le nozioni con cui ciascuno di essi è stato allevato[81].

La risposta lockiana al problema dell’essenza della fede cristiana, può essere compendiata in alcune tesi cruciali:

1) l’essenza della fede consiste nel riconoscimento della messianicità di Gesù, inviato da Dio, come promesso nell’Antico Testamento, per la salvezza degli uomini.

2) Questo fondamentale articolo di fede salvifico, in cui occorre credere, questo «Law of Faith» chiede di essere accompagnato da un facere, da un operare in accordo con tale fede. La fede nella messianicità di Gesù, per essere autenticamente esperita, esige dunque il pentimento, che conduce, a sua volta, alla conversione della vita e all’esercizio di una nuova operosità. Opere, dunque, degne del pentimento e conformi alla nuova vita devono seguire l’atto di fede:

Fede e pentimento – scrive Locke – cioè credere che Gesù è il Messia, e una nuova vita dedita al bene, sono le condizioni indispensabili del Nuovo Patto[82].

3) La ragione da sola non è in grado di rinvenire un sistema di regole morali capaci di orientare tutti gli uomini alla salvezza. Alla ragione è stata dunque necessaria la rivelazione cristiana.

4) Così ricondotto al suo articolo fondamentale, il cristianesimo appare una fede del tutto conforme a ragione.

E’ sul terzo e sul quarto punto cruciale che mette conto sostare con qualche considerazione critica.

C’è un capitolo cruciale, nella Ragionevolezza, per comprendere il punto di vista lockiano sul rapporto tra ragione naturale e rivelazione, che, più di altri testi, ci sembra svelare quell’intima lotta tra l’anima calvinista e l’anima liberale-erasmiana che, con Bainton, si è detto combattere nella coscienza religiosa del filosofo inglese. Si tratta, come già annunciato in precedenza, del capitolo XIV, che affronta un tema particolarmente spinoso: che ne è della salvezza di coloro che non hanno ricevuto, né ricevono, l’annuncio della salvezza attraverso il Messia? Quali i vantaggi ha comportato la venuta del Messia alla ragione naturale?

La risposta di Locke contiene innanzitutto un richiamo alla legge naturale che ogni uomo può attingere mediante il retto uso della ragione discorsiva e dei sensi, mediante la «luce di ragione» o «scintilla di natura divina e conoscenza»:

Chi fece uso di questa candela del Signore – scrive Locke -, tanto da scoprire quale fosse il suo dovere, non poté non trovare anche la via alla riconciliazione e al perdono, una volta venuto meno al suo dovere[83].

Se, dunque, la luce naturale, la legge di ragione, o legge di natura, già contiene l’orientamento che la rivelazione evangelica presenta, si pone la questione cruciale circa l’apporto peculiare della rivelazione stessa: si tratta di pura sovrapposizione, di pura conferma, così da poter sostenere che la ragione avrebbe potuto anche da sola guadagnare la salvezza, oppure occorre sostenere l’indispensabilità della rivelazione a fini salvifici? E’ su questo punto, ci pare, che Locke svolge un tentativo di tenere in equilibrio i due fattori suddetti – ragione naturale e Rivelazione – con un punto di vista che l’incipiente Deismo di John Toland – Il Cristianesimo senza misteri è del 1696 – avrebbe di lì a poco travolto.

La soluzione di Locke consiste nel distinguere tra ciò che la ragione, almeno in linea di diritto (de iure) sarebbe in grado di fare, ovvero accedere da sola alle verità religiose fondamentali e riconoscere le leggi morali, e ciò che, storicamente (de facto), è avvenuto. Di fatto, osserva Locke, cioè sul piano storico, nessuno ha mai scritto un libro che esponga, in modo indiscutibile, chiaro, esaustivo, dotato di autoevidenza, la legge di natura, o di ragione. I risultati sinora ottenuti, scrive il filosofo, sono incompleti, mescolati a considerazioni spurie, arbitrarie, carenti dal punto di vista del fondamento e, dunque, della forza vincolante. Due testi cruciali mostrano l’andamento del ragionamento lockiano su questo punto:

Ma in nessun luogo, che io sappia, ci si prese cura della religione naturale nella sua piena estensione, con la forza della ra­gione naturale. Sembrerebbe, dal poco che finora in essa è stato fatto, che sia un compito troppo arduo per la ragione non assistita stabilire la morale in ogni sua parte sulle sue vere fondamenta, con una luce chiara e persuasiva. Ed è per lo meno una via più sicura e più breve, per la comune comprensione e per la maggior parte dell’umanità, che uno chiaramente inviato da Dio, e che viene da lui con visibile autorità, imponga, come re e legislatore, i doveri e richieda l’obbedienza, piuttosto di lasciar che questo si chiarisca in seguito alle lunghe e talora intricate deduzioni della ra­gione. La maggior parte degli uomini né ha tempo a di­sposizione per considerare una tal successione di ragiona­menti, né, per mancanza di educazione e d’uso, ha capacità di giudicarne. Vediamo quanto infruttuosi furono i tentativi dei filosofi in questo senso prima del tempo del nostro Sal­vatore. È ben visibile quanto poco i loro numerosi sistemi raggiunsero la perfezione di una vera e completa moralità[84].

L’esperienza mostra che la conoscenza della mo­rale per semplice luce naturale (per quanto ad essa questa sia pur conveniente) non fa che lenti progressi e poco cam­mino nel mondo. E la ragione di ciò non è diffìcile a tro­varsi nei bisogni degli uomini, nelle loro passioni, nei vizi e negli interessi sbagliati che rivolgono le loro menti in altra direzione: e tanto i capi che deliberano, quanto il greg­ge che segue, non trovano conveniente servirsi di questa strada per gran parte delle loro meditazioni. Qualunque altra poi fosse la causa, è chiaro, di fatto, che la ragione umana non assistita fece difetto agli uomini in questo gran­de e loro proprio compito di moralità. Mai da indiscu­tibili principi, tramite chiare deduzioni, fu tratto un in­tero corpo della «legge di natura». E chi raccoglierà tutte le norme morali dei filosofi e le confronterà con quelle con­tenute nel Nuovo Testamento, troverà che esse non rag­giungono pienamente la morale trasmessa dal nostro Sal­vatore e insegnata dai suoi apostoli, un collegio costituito per la maggior parte da ignoranti, ma ispirati pescatori[85].

E’ fondamentale notare che, come si accennava, Locke ricava questi esiti da un’analisi storica, dunque de facto, la quale non significa che, de iure, la ragione si trovi nell’impossibilità assoluta e strutturale di attingere la verità soterica. Il filosofo osserva che sinora ciò non è accaduto, e fonda in ciò la necessità della Rivelazione.

Tra ragione e Rivelazione cristiana, Locke instaura dunque una sorta di convergenza e di armonia a posteriori, secondo una sintesi che, in qualche modo, come osserva Bernard Cottret[86], richiama quella tomista tra natura e grazia. In questa direzione, La Ragionevolezza del cristianesimo non faceva che confermare il rapporto tra ragione e rivelazione già chiarito nel Saggio sull’intelletto umano (IV, XIX, § 4):

La ragione è una rivelazione naturale, mediante la quale l’eterno Padre della luce e la fonte di tutta la conoscenza comunica al genere umano quella porzione di verità che Egli ha posto entro l’estensione delle loro facoltà naturali: la rivelazione è la ragione naturale estesa a un nuovo insieme di scoperte comunicate immediatamente da Dio e della cui verità si fa garante la ragione mediante le testimonianze e le prove, da essa offerteci, che tali scoperte provengono da Dio[87].

E, andando oltre a questa sintesi tra ragione e rivelazione, il Saggio (IV, XVIII, § 2) allude, addirittura, alla mediazione di Gesù Cristo:

Di conseguenza la ragione, in questo caso, in quanto contraddistinata dalla fede, mi sembra equivalga alla scoperta della certezza o della probabilità di certe proposizioni o verità, alle quali la mente perviene tramite le deduzioni derivate dalle idee che essa ha acquisito con l’uso delle sue facoltà naturali, ossia mediante la sensazione e la riflessione.

D’altra parte la fede è il consenso concesso a una qualsiasi proposizione non ottenuta mediante le deduzioni della ragione, ma sulla base della fiducia accreditata a chi la propone come proveniente da Dio con una qualche maniera di comunicazione che esula dall’ordinario. Questo modo di disvelare agli uomini delle verità è ciò che chiamiamo rivelazione[88].

Tale «comunicazione che esula dall’ordinario» altro non è che la messianicità di Gesù professata nella Ragionevolezza come l’unum necessarium alla salvezza.

Infine, su un punto di questa interpretazione lockiana del cristianesimo mette conto fermarsi: il guadagno che la Rivelazione cristiana ha apportato nel mondo presentando nella sua completezza e purezza la legge naturale, non concerne solo l’al di là, la restaurazione di quell’immortalità andata perduta con la caduta adamitica, ma investe la vita terrena, perciò sociale e politica: se il cristianesimo ha restaurato la pienezza della legge naturale, dei valori razionali dell’uomo, esso è allora all’origine di una nuova cultura e di una nuova civiltà, fondata appunto sulla legge naturale e sulla ragione naturale. Il cristianesimo lockiano presenta, in questo senso, una valenza politica e culturale. Come ha scritto Viano,

Cristo veniva sì a riscattare l’uomo dalla caduta di Adamo, ma veniva anche a portare una nuova civiltà, fondata sul diritto naturale, nella quale le leggi non sono soltanto strumenti di oppressione a favore dei governanti e la religione soltanto un insieme di pratiche superstiziose volte ad assicurare il potere ai sacerdoti. La nuova società, che doveva nascere dalla predicazione cristiana, poteva finalmente conoscere le norme che permettono a tutti i cittadini di avere la propria equa posizione nella convivenza con gli altri, e vedeva riconosciuti quei valori che costituiscono i cardini dell’autentica vita religiosa e sfuggono al controllo e al monopolio dei sacerdoti[89].

Il cristianesimo, in definitiva, in quanto restaurazione della legge naturale, ha immesso nel mondo il principio che fonda sia la comunità religiosa sia quella politica: il principio della libertà, la cui cifra privilegiata è appunto la tolleranza.

  1. Verità, universalità, tolleranza, pluriprospettivismo. Riflessioni conclusive sul nostro tempo

Ha osservato Giacomo Marramao che, nel mondo odierno,

il problema della tolleranza, superato sotto il profilo di una logica verticale dell’autorità, sembra ritornare di attualità nei termini inediti di un’orizzontalità del conflitto interculturale, che minaccia di assumere gli accenti fondamentalistici delle vecchie guerre di religione[90].

In questo spostamento di asse – dalla verticalità all’orizzontalità – la questione della tolleranza tende, nel dibattito attuale, a essere ripensata nei termini di “lotte per il riconoscimento”, di “multiculturalismo” o di “interculturalismo”, oppure di “dialogo interreligioso”. Oggi, all’insorgenza di nuove forme di soggettività – non solo gruppi religiosi o associazioni di interesse, ma anche identità collettive, etniche, culturali – si assomma il riemergere di antichi e nuovi fondamentalismi che mostrano – come sottolinea ancora Marramao[91] – quanto il problema, così densamente dibattuto in età moderna, di riflettere sulla radice dell’intolleranza religiosa non sia relegabile storicisticamente nelle particolari condizioni di un’epoca ormai trascorsa, ma sia drammaticamente attuale.

Un Leitfaden, tuttavia, al di là dei mutamenti intervenuti, lega i dibattiti e le lotte intraprese a partire dal XVI secolo e i problemi legati alla tolleranza che agitano il nostro tempo: Leitfaden che, se colto e seguito, in avanti e à rebours, conduce, ci sembra, a identificare il fondo della questione, o quanto meno uno dei punti nodali del dilemma, sia sul piano religioso che civile-politico: si tratta del rapporto tra universalità e individualità, rapporto sempre pronto, nella storia delle idee, e nella storia tout court, a tradursi in contrapposizione tra universalismo e particolarismo, ma che una riflessione critica deve cercare di condurre a composizione[92].

In effetti, il problema moderno della tolleranza non nasce da altro che dal conflitto accesosi tra un universalismo, politico e religioso, concepito come ordinatio ad unum, come principium unitatis, ereditato dal Medioevo, e il suo disintegrarsi in una molteplicità di res singulares – individui e/o gruppi – che mandando in frantumi la cornice universalistica hanno intrapreso una lotta per rivendicare la loro identità, spesso a loro volta enfatizzandola fino a renderla impermeabile al dialogo e alla comunicazione.

Tutto il pensiero moderno, come accennato in precedenza, ma già tardo- medievale (pensiamo a Duns Scoto, a Ruggero Bacone e, ancor di più, a Guglielmo d’Ockham)[93] potrebbe essere letto come sforzo per sgretolare l’idea di un ordine fisso, rigidamente scandito nei gradi di un essere in sé compiuto, regno di forme eterne, di essenze immutabili, al quale la teologia medioevale aveva saldato l’assolutezza dell’istituzione salvifica – l’Ecclesia una, sancta, universalis – depositum delle sacre verità eterne. Come nei quattro libri dello Speculum majus di Vincenzo di Beauvais[94], in cui natura, scienza, morale e storia si adunano in un ordine gerarchico perfettamente articolato, o nei trattati dionisiani sulle gerarchie celesti ed ecclesiastiche, cielo e terra, Trascendenza e immanenza, storia umana e storia sacra, appaiono mirabilmente congiungersi in una perfetta, solare specularità. Le categorie di taxis e cosmos incardinavano, cementandole, le terse armonie metafisiche, cosmologiche, storiche, che l’uomo medioevale poteva contemplare scolpite in fitta trama simbolica a Chartre, o ascoltare tradotte nel potente, compatto edificio sonoro, retto da rigorose simmetrie matematiche, della Missa Notre Dame di Guillaume de Machaut.

E’ nella crisi di tale universalità metafìsica, politica, religiosa, medievale, che negava spazio al dialogo concreto tra gli uomini, che si fa strada, nell’uomo dell’Umanesimo, una nuova universalità, che si potrebbe, con Konrad Burdach[95], qualificare come “terza”, in quanto nascente dalle ceneri delle due declinanti – quella imperiale e quella ecclesiastica – e il cui locus è lo spirito individuale, l’ideale della formazione dell’uomo (humanitas), e collettivamente, l’idea di nazione. A tale nascente senso dell’individualità la filosofia cartesiana avrebbe offerto quella centralità, fondata sulle sicure leggi innate della coscienza, dalla quale si dipartono, come ha osser­vato E. Troeltsch, le due fondamentali rivoluzioni moderne: quella naturalistica e quella storicistica, entrambe convergenti in un processo di de-cosmologizzazione[96].

Su queste basi, l’uomo moderno, ha come sua mira di rinvenire, in un mondo di res singulares, di individualità, una formula di armonia, che consenta di passare dall’universalità come reductio ad unum a una nuova universalità come ordinatio ad plura, la stessa che Italo Calvino ha espresso scrivendo:

oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima[97].

Leibniz (autore non a caso amato da Calvino), da questo punto di vista, è forse il classico par excellence, il filosofo che ha dato corpo a tale sforzo in senso teoretico, mostrando, anche nelle aporie e nei limiti del suo pensiero, le dimensioni del problema – che sono quelle dei rapporti tra identità e alterità – e le possibili soluzioni. Nella sua Monadologia si trova la configurazione di una molteplicità infinita di monadi unite dallo sfondo dell’Universo, in ciascuna incluso e rispecchiato da una peculiare e irripetibile prospettiva, le quali, per essere senza porte e finestre, colmano la mutua incomunicabilità con l’artificio speculativo dell’aggiustamento estrinseco dell’armonia prestabilita. Così, l’intuito pluriprospettivismo ontologico-metafisico viene prontamente piegato a una tesi – quella appunto dell’armonia prestabilita – che, come ha scritto Piovani

sembra essere inventata prevalentemente per controllare, disciplinare le entificate monadi, in una specie di contrapposizione allo sfuggente monadismo attivamente costruito dalle incontrollabili disarmonie del pensiero moderno[98].

E’ un esempio, quello di Leibniz, delle incertezze e oscillazioni, se non angosce, che il pensiero moderno ha provato di fronte a un universo ormai irrimediabilmente frazionato in multiverso, di cui teme la polverizzazione e l’anarchica (an-arche) assenza di fondamento[99].

Oggi – nella tarda modernità toccataci in sorte – il problema “universale-particolare” si ripropone sotto nuove specie e forme di universalismi olistici e omologanti – pensiamo ai rischi connessi alla globalizzazione – a fronte dei quali sta il moltiplicarsi delle differenze, la frammentazione prodotta da rivendicazioni di identità concepite, in modo altrettanto “olistico”, alla stregua di totalità coerenti e chiuse, di recinti invalicabili e di asfittici localismi che, oltre a ingenerare l’idea relativistica della incommensurabilità – e dunque della intraducibilità e incomunicabilità – tra culture, è fonte di scontri etnici e religiosi[100]. Nuovamente, dunque, nel nostro tempo, globalizzazione e frammentazione ripropongono, sotto rinnovata forma e figura, il problema ereditato dalla modernità del rapporto tra universalismo e particolarismo e, al suo interno, il problema della tolleranza.

Due sole considerazioni ci limitiamo qui a svolgere:

1) Ha ancora valore, intanto, questa nozione? Oppure, come da più parti si sostiene, la tolleranza è espressione di un compromesso adottato nei secoli scorsi per eludere mali maggiori  (repressioni e persecuzioni), che va ormai  trasceso nella direzione additata dagli ideali di giustizia sociale, di libertà culturale, di multiculturalismo, di politiche del riconoscimento a favore di differenze e minoranze ecc.?[101] Già Goethe – che intendeva stigmatizzare, con ciò, l’idea, ancora presente in tanti dibattiti illuministi, di tolleranza come semplice permesso, benevolente concessione  di esistere – osservava:

La tolleranza dovrebbe in verità essere solo un sentimento provvisorio: essa deve portare al riconoscimento. Tollerare significa offendere[102],

non diversamente dal Kant della Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, che criticava «la parola tolleranza, segno di superbia»[103].

Il nostro punto di vista, è che l’idea di tolleranza, se certo necessita di adeguata fondazione, e anche di integrazione nella direzione del pluralismo e pluriprospettivismo (ci sono ragioni deboli e ragioni forti per sostenerla, come si è detto all’inizio), non cessa di possedere un’irrinunciabile validità, costituita dal suo intimo, irriducibile differenziarsi dal relativismo. Ha scritto in questo senso Giovanni Sartori:

Tolleranza non è indifferenza, né presuppone indifferenza. Se siamo indifferenti non siamo interessati: fine del discorso. Nemmeno è vero, come spesso si sostiene, che la tolleranza presuppone un relativismo. Certo, se siamo relativisti siamo aperti a una molteplicità di punti di vista. Ma la tolleranza è tolleranza (lo indica il nome) proprio perché non presuppone una visione relativistica. Chi tollera ha credenze e principi propri, li ritiene veri, e tuttavia concede che altri hanno il diritto di coltivare “credenze sbagliate”. Il punto è importante, perché stabilisce che il tollerare non è, né può essere, illimitato[104].

Ciò non esclude, come aggiunge Sartori, che la tolleranza chieda di essere completata e inverata nel pluralismo o, come preferiamo dire noi, nel pluriprospettivismo. Ma resta – ed è decisivo – che tolleranza e pluralismo (o pluriprospettivismo) si pongono sulla medesima linea di sviluppo che li smarca nettamente dal relativismo, in quanto tali nozioni presuppongono un punto di coagulo e di unità tra i distinti esigendo dialogo e integrazione, negoziazione, non semplice coesistenza e giustapposizione.

Si capisce – scrive infatti Sartori – che tolleranza e pluralismo sono concetti diversi; ma è anche facile capire che sono intrinsecamente connessi. In questo senso: che il pluralismo presuppone la tolleranza, e quindi che un pluralismo intollerante è un falso pluralismo. La differenza è che la tolleranza rispetta valori altrui, mentre il pluralismo afferma un valore proprio. Perché il pluralismo afferma che la diversità o il dissenso sono valori che arricchiscono l’individuo e anche la sua città politica[105].

Da questo punto di vista, non v’è dubbio che occorra trasformare in attiva volontà di comunicazione il senso per lo più negativo incluso nell’area semantica originaria in cui tolerare rinvia al sopportare, al rassegnarsi, al conservare con sforzo, a resistere al peso fiscale o ai rigori della fame, secondo quanto suggeriscono espressioni latine quali «silentium tolerare», oppure «tributa et famen tolerare». Non v’è dubbio, come conferma Virgilio Melchiorre, che occorra tradurre la «tolleranza passiva» in «attitudine positiva»[106]. Ma, aggiunge il filosofo italiano, tale torsione implica un atteggiamento non scettico o relativistico riguardo alla verità, ma un orizzonte comune e unificante:

Chiediamoci dunque – scrive Melchiorre – se e in che misura ci si possa riferire a un comune principio di verità, senza che peraltro ne discenda un principio di intolleranza: una verità che si dia condizione prima della comunicazione e dell’incontro fra diversi linguaggi, diverse culture, diverse tradizioni. Se questa prospettiva sarà praticabile, la via della tolleranza potrà ripararsi dalla menzogna del falso rispetto, dalle inconfessate chiusure e infine da un antagonismo proclive alle prevaricazioni: sarà anzi la via dell’incontro e delle integrazioni che, a un tempo, salvano le rispettive identità[107].

Siamo, dunque, nuovamente condotti dalle parole di Melchiorre di fronte al problema posto in precedenza: è pensabile un’unità, o un’universalità, che non sia ordinatio ad unum, che, senza rinunciare a un orizzonte condiviso,  conservi, valorizzi e non annulli le differenze? E’ concepibile, in altre parole, un punto di equilibrio, una via media tra universalismo totalizzante e relativismo rinserrante, il quale, sostenendo l’incommensurabilità, l’assenza di una comune unità di misura tra religioni, culture, identità, produce indifferenza e alza recinti invalicabili?

2) Rispondere positivamente a questi interrogativi significa, prima ancora che elaborare nuove teorie, riandare, con la memoria culturale, a talune esperienze di pensiero espresse dall’Occidente moderno il quale, qui come in altri ambiti problematici, come la spada di Odino, ha mostrato di saper guarire le ferite da esso stesso prodotte, sia conseguendo risultati storici non più rinunciabili, come le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo che hanno coronato le grandi Rivoluzioni moderne, sia additando vie che sono ancora oggi futuro. Alcune di tali vie sono già state oggetto di trattazione, altre possono essere qui solo alluse: Cusano, Castellion, Locke, Leibniz, Vico, Lessing, Kant, Schleiermacher, la tradizione dello storicismo critico-problematico ottocentesco e novecentesco di Humboldt, Dilthey, Troeltsch, Meinecke, sono alcuni possibili classici della revisione in senso pluriprospettivistico dell’idea di universalità. Revisione che Piovani ha così esemplarmente sintetizzato:

L’universale … vive nella mediazione che l’individuale compie … L’universale vive nell’individuale che ne garantisce l’infinità, perché la logica dell’individualità richiede che l’esistenza individuale non possa cercare di realizzare se stessa senza ubbidire al bisogno d’infinito che reca in sé e di cui fa esemplare attestazione[108].

Così, l’idea cusaniana di universo come contractio e della verità come congettura, la nozione leibniziana di monade che involve in sé l’universo, tesa in un perenne conatus di universalizzazione e in tensione tra identità e alterità, la visione lockiana di pluralità di Chiese, nessuna avocante a sé la pretesa di incarnare la vera Chiesa, e tutte chiamate a rispettarsi reciprocamente a partire da un minimum di principi condivisi, la pluralità schleiermacheriana di Erlebnisse religiosi, la critica troeltschiana all’idea di assolutezza della religione, ripensata nei termini di «maggiore validità»[109], sono alcuni Winke, cenni, che additano una prospettiva di pensiero – concernente la relazione tra universalità e particolarità – con la quale è oggi quanto mai urgente – teoreticamente, eticamente, religiosamente – ristabilire un colloquio critico.

Un dialogo che, soprattutto nel dominio del religioso, non voglia essere paternalistico invito all’ascolto di una verità monoliticamente intesa come regno dell’identico – come, eleaticamente, tautótes che riduce a sé l’eterótes – è chiamato a rinunciare alla pretesa granitica datità, apriorità e staticità dell’universalismo, così come dell’ordine, secondo un modello totalistico fattosi insostenibile a partire dall’età moderna, e a ricalibrare l’uno e l’altro nei termini mobili, elastici, progressivi, di un’universalità sempre ancora da universalizzare, di una condivisione di valori sempre ancora da estendere, di un multiverso aperto, coltivabile e permeabile alla comunicazione[110]. “Universale”, in quest’ottica, diventa sinonimo di “universalizzabile”, così come “ordine” diventa sinonimo di “ordinabile”, entro un moto dell’individualità che si relaziona, in spirito di partnership, con altre individualità in espansione[111].

L’individualità come fonte dell’universalità: non si tratta di una formula astratta, ma dell’invito a congedare, a liquidare rinserranti olismi e a volgere infine lo sguardo alla humana condicio: alla strutturale fìnitudine dell’Existenz, al moto, che da essa sale, verso una filtrazione trascendente di senso che diradi le ombre del negativo che insidiano il reale, sin nella sue radici ultime, fino al riconoscimento della storicità del comprendere, degli sgomentanti problemi implicati nella dinamica, sempre aperta, della valorazione, della condivisione di valori e forme di Sinngebung (dazione di senso). Immane alla prospettiva qui allusa il pensiero – antico e sempre nuovamente da pensare – che le diversità, culturali, religiose, dicano, in linguaggi distinti, ancora e sempre la stessa umanità, e che ciò che può unire, nell’orizzonte della Trascendenza, tutti gli esseri, è l’incontro tra umanità, o esperienza elementare dell’uomo, e religione. Riattingere gli Ursprünge del religioso – là dove natura e soprannatura si legano in un nodo oscuro e insieme luminoso – equivale a riandare a quel punto che connette, in ciascuno, esperienza del male radicale, irredimibile per sforzo umano, invocazione alla Trascendenza, che su quella Grenze si schiude, attingimento di una Parola di senso che redima la realtà e consenta di dire-sì all’esistere.

Su questa elementare “struttura” religiosa, su questo ethos comune a tutte le religioni – poiché comune a ogni homo religiosus – è possibile rinvenire le ragioni di una concordia che consenta di esperire il religioso fuori da fanatismo e intolleranza. Non a caso, è su questa prospettiva che, sin dalle origini della modernità, la più avvertita riflessione filosofica e teologica ha additato la “Regola d’oro” come punto di incontro tra le religioni.

La “Regola d’oro” – ha osservato Domenico Venturelli – può così corrispondere all’esigenza di un minimo di ethos condiviso a livello mondiale. Dovunque essa compare presuppone l’esperienza della sofferenza, dell’ingiustizia, del male: è una regola etica non solo perché informa l’ethos di questa o quella civiltà, ma anche e prima perché è una regola puramente umana; e poiché è puramente umana essa sorge dalle profondità di un’ispirazione religiosa[112].

A dire questo spirito – e la classicità della Sache in esso inscritta – si può ben convocare un pensatore cruciale nella meditazione filosofico-religiosa moderna: il Lessing del poema drammatico teatrale Nathan il saggio, ove l’universalità delle religioni, affrancatasi dalle tutele ecclesiastiche, è affidata all’e­tico, all’umano impegno per la valorazione delle cifre, in una elevazione progres­siva che, nell’Ergebenheit in Gott (devozione a Dio), sa purificare il proprio esclusivistico punto di vista iniziale in un ecumenismo che, lungi dall’essere irenistico frutto di facili compromessi, è sofferto approdo di un percorso pedagogico, di una Entwicklung che è Erziehung e Bildung. Messaggio, questo, che tocca il suo apice nella “favola dei tre anelli”: nessuno può dire a priori, né provare quale sia, dei tre anelli donati dal padre ai figli (alias delle tre religioni positive: ebraismo, islamismo, cristianesimo), quello vero, capace di rendere amabili di fronte agli uomini e a Dio. Non resta, dunque, come suggerisce il giudice ai fratelli venuti a querelarsi, che dimostrare nei fatti, cioè nella vita etica, il fondamento della propria pretesa veritativa:

«Quindi – proseguì il giudice – se non vi contentate di un consiglio in luogo di una sentenza, andatevene! Il mio consiglio però è che voi accettiate la cosa come sta; ciascuno di voi ebbe il suo anello direttamente dal padre, ciascuno di voi lo ritenga per quello vero. E possibile che il padre non abbia voluto tollerar oltre nel suo casato la tirannia di quell’unico anello; è certo ch’egli vi ha amati del pari tutti e tre, poiché non volle umiliarne due per esaltarne un terzo. Sta bene! Emulate or voi quel suo amore incorruttibile e scevro di pregiudizi! gareggiate tra di voi nel mettere in evidenza la virtù dell’anello! assecondate questa virtù colla mitezza, colla sopportazione cordiale, colla carità del prossimo, colla rassegnazione al volere di Dio. E quando le virtù dell’anello si saran manifestate nei figli e nei figli dei figli, fra mille e mill’anni io li invito ad adire questo tribunale. Un uomo più saggio di me vi siederà ed egli pronuncerà la sentenza. Andate…!». Così disse quel giudice modesto[113].

Una universalità che, in luogo di essere omologante ordinatio ad unum salga dall’individualità, trova, nel suo moto verso l’universalizzazione, una misura comune alle diversità e capace di valorizzare i distinti. E’ l’etico, da questo punto di vista, non il preteso possesso a priori, il luogo di tale  diversa universalità. E’ nell’etico, e nei robusti fili che lo legano – anche in Kant – allo spazio del religioso, all’imperativo di una Rechtfertigung più che umana, il luogo dell’incontro, della condivisione, del dialogo tra uomini legati dalla ricerca di Dio, anche se divisi da linguaggi e tradizioni. Dialogo che il filosofo Alberto Caracciolo ha definito con le seguenti parole, che bene dicono l’approdo delle nostre riflessioni:

Il dialogo non è polemica e non è apologetica; non nasce dall’idea di aver solo da insegnare; nasce anzi dall’idea che tan­to io quanto l’altro né siamo totalmente nell’errore (anzi già sia­mo in qualche modo nella verità se non altro per questo, che la cerchiamo) né siamo totalmente nella verità; nasce dall’idea che siamo uni, in quanto, ove non fossimo partecipi di un comune logo e non fossimo sulle indicazioni di questo logo sospinti ver­so un’ulteriorità, che è anche ulteriore unità, il dialogo non sareb­be concepibile; ma nasce anche dall’idea, non solo di una diver­sità di partenza, bensì anche di una diversità di arrivo che resta di nuovo partenza. L’imperativo del dialogo non è un imperativo provvisorio o funzionale (mai cioè verrà il momento in cui, instaurata l’unità assoluta, il dialogo avrà perduto la sua possibi­lità e ragion d’essere). Il dialogo media il passaggio da una diver­sità meno autentica a una diversità più autentica[114].

* Per le opere di Locke si è tenuto conto, nel corso del presente lavoro, dell’edizione The Works of John Locke, a new edition corrected, Printed for Th. Tegg, London 1823, 10 voll., rist. anast. Aalen 1963. Le seguenti traduzioni italiane sono citate con le sigle qui indicate: Scritti sulla tolleranza di John Locke, a cura di D. Marconi, Torino 1977 (SST); Scritti etico-religiosi di John Locke, a cura di M. Sina, Torino 2000 (SER); Saggio sull’intelletto umano, a cura di V. Cicero e M.G. D’Amico, Milano 2004 (SIU).

[1] S. Veca, Prefazione a Voltaire, Trattato sulla tolleranza, a cura di L. Bianchi, Milano 2002, pp. V-XXXVI.

[2] Cfr. C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna 1972, in part. p. 167 sgg. Sulla formazione dello Stato moderno, la bibliografia è naturalmente sterminata. Ci limitiamo dunque a rinviare alle seguenti trattazioni generali: G. Solari, La formazione dello Stato moderno, Napoli 1974; E. Cassirer, Il mito dello Stato, trad. it. di C. Pelizzi, Milano 1996; N. Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna 1993 (con ampia bibliografia, pp. 349-366); G.G. Ortu, Lo Stato moderno. Profili storici, Roma-Bari 2001; G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, vol. 1: Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna 1976.       

[3] M. de l’Hospital, Oeuvres complètes, I, Paris 1824, p. 452.  Per una sintetica esposizione del pensiero di de l’Hospital sul tema della tolleranza, cfr. G. Cioppi, La libertà religiosa nel pensiero di Michel de l’Hospital, in AAVV, La libertà religiosa,  a cura di M. Tedeschi, Soveria Mannelli 2002, vol. II, pp. 537-547.

[4] Recepiamo la citazione da H. Kamen, Nascita della tolleranza, trad. it. di G. Bernardi, Milano 1967, pp. 143-145. Sul tema della tolleranza e sui problemi connessi ci limitiamo a ricordare: AAVV, The culture of  Toleration in Diverse Societies, a cura di C. McKinnon e D. Castiglione, Manchester 2003; R. Forst,  Toleranz im Konflikt. Geschichte, Gehalt und Gegenwart eines umstrittenen Begriffs, Frankfurt am Main 2003; AAVV, Les fondements philosophiques de la tolérance en France et en Angleterre au XVII siècle, a cura di Y.C. Zarka, F. Lessay, J. Rogers, 2 voll., Paris 2002; AAVV, La libertà religiosa, 3 voll., cit.; M.L. Lanzillo, Tolleranza, Bologna 2001; F. Lomonaco, Tolleranza. Momenti e percorsi della modernità fino a Voltaire, Napoli 2005; E. Garzón Valdés, Tolleranza, responsabilità e Stato di diritto. Saggi di filosofia morale e politica, a cura di  P. Comanducci e T. Mazzarese, Bologna 2003; P. Sassier, Perché la tolleranza, trad. it. di C. De Nonno, Roma 2000; AAVV, L’intolleranza: uguali e diversi nella storia, a cura di P.C. Bori, Bologna 1986; A. Rotondò, voce “Tolleranza” in L’Illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone e D. Roche, Roma-Bari 1998, pp. 62-78. Ulteriori riferimenti si trovano nelle altre note del presente lavoro.

[5] M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna dalla Riforma protestante a Locke, Torino 1978, pp. 12-13.

[6] Cfr. P. Piovani, Conoscenza storica e coscienza morale, Napoli, 1966, p. 65.

[7] Cfr. Voltaire, Bisogna prender partito ovvero Il principio di azione, in Id., Scritti filosofici, trad. it. di P. Serini, Roma-Bari 1972, vol. II, p. 698.

[8] S. Castellion, Conseil à la France désolée, a cura di M.F. Valkhoff, Genève 1967. Un’accurata analisi e sintesi dell’opera si trova nel classico lavoro di F. Buisson, Sébastien Castellion. Sa vie et son oeuvre (1515-1563), Paris 1892, rist. Nieuwkoop – B. De Graaf 1964, t. II, cap. XX, p. 225 sgg.

[9] W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura. Dal Rinascimento al secolo XVIII, trad. it. di G. Sanna, Firenze 1974, vol. I, p. 100 sgg. Sul concetto di liberalismo religioso, o Liberalität, sul piano teoretico occorre rinviare al pensatore che, in Italia, più di ogni altro ne ha ripensato la tradizione e il contenuto filosofico-religioso, vale a dire Alberto Caracciolo. Tra i suoi studi menzioniamo: La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano 1965 (nuova ed. Genova 2000); Religione ed eticità. Studi di filoso­fìa della religione, Napoli 1971 (nuova ed., Genova, 1999); Pensiero contemporaneo e nichilismo, Napoli 1976; Nichilismo ed etica, Genova 1983; Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e di poetica, Genova 1990. Sul pensiero religioso liberale, in particolare in colui che può esserne considerato l’ideale prosecutore novecentesco, vale a dire Karl Jaspers, ci permettiamo di rinviare al nostro studio Fede filosofica e libertà religiosa. Karl Jaspers nel pensiero religioso liberale, Brescia 1998.

[10] M. D’Arienzo, Libertà di coscienza e tolleranza nel pensiero di Sébastien Castellion, in AAVV, La libertà religiosa, cit., vol. II, p. 535.  Sul problema della tolleranza in Castellion ricordiamo inoltre: : R.M. Jones, Spiritual Reformers in the 16th and 17th Centuries , London 1914 (in part. cap. VI, pp. 88-103); W. Kaegi, Castellio und die Anfänge der Toleranz, Basel 1953; AAVV, Castellioniana. Quatre Études sur Sébastien Castellion et l’idée de tolérance, Leiden 1951; AAVV, Autour de Michel Servet et Sébastien Castellion, a cura di B. Becker, Haarlem 1953; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, a cura di A. Prosperi, Torino 1992-2002 (in part. capp. 12 e 16); R. Bainton, La lotta per la libertà religiosa, trad. it. di F. Medioli Cavara, Bologna 1982 (4 ed.); Id., Sebastian Castellio and the Toleration Controversy of the Sixteenth Century, in Persecution and Liberty. Essays in honor of G.L. Burr, New York 1931, pp. 183-209; H.R. Guggisberg, Sebastian Castellio. Humanist und Verteidiger der religiösen Toleranz, Göttingen 1997; J. Lecler, Storia della tolleranza nel secolo della Riforma, trad. it. di G. Basso, Brescia 2004, vol. I, p. 368 sgg.;  S. Visentin, Introduzione a S. Castellion, La persecuzione degli eretici, a cura di S. Visentin, Torino 1997, pp. VII-LXII; C. Gallicet Calvetti, La tolleranza religiosa in Sebastiano Castellion, antesignano del protestantesimo liberale: presupposti ed aspetti,  in AAVV, La tolleranza religiosa, a cura di M. Sina, Milano 1991, pp. 57-106; C. Gilly, Sebastiano Castellione, l’idea di tolleranza e l’opposizione alla politica di Filippo II, in “Rivista storica italiana”, 1998, CX, pp. 144-165; V. Schmid, Elogio del dubbio in Sebastien Castellion, trad. it. di A.A. Cericola, Manduria-Bari-Roma 2005.

[11] A Leibniz e, in qualche modo, ai problemi allusi, abbiamo dedicato il volume Erudizione e teodicea. Saggio sulla concezione della storia di G.W. Leibniz, Napoli 2004, al quale ci permettiamo di rinviare, anche per i riferimenti bibliografici.

[12] Cfr. Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, a cura di  P.S. Allen e H.M. Allen, Oxford-London 1906-1947, vol. V (1522-1524), pp. 172-192.

[13] R. Otto, Die Anschauung vom heiligen Geiste bei Luther. Eine historisch-dogmatische Untersuchung, Göttingen 1898, p. 45.

[14] A. Gallas, Introduzione a Lutero, Contro i profeti celesti sulle immagini e sul sacramento (1525), in Id., Opere scelte, vol.. 8, Torino 1999, p. 93.

[15] G. Tourn, I protestanti. Una rivoluzione, 1, Dalle origini a Calvino (1517-1564), Torino 1993, pp. 125-126.

[16] Cfr. in part. M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, trad. it. di A. Fraschetti, Roma-Bari 1983.

[17] Cfr. S. Franck, Paradoxa, hrsg. von S. Wollgast, Berlin 1995, p. 22. Sul pensiero di Franck, oltre ai fondamentali studi diltheyani contenuti in L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, già ricordati, rinviamo alle seguenti trattazioni e introduzioni: R.M. Jones, Spiritual Reformers in the 16th and 17th Centuries, cit. (su Franck, cap. 4, pp. 46-63); A. Koyré, Mystiques, spirituels, alchimistes du XVI siècle allemand, Paris 1971, pp. 39-74; J. Lecler, Storia della tolleranza nel secolo della Riforma, cit., vol. I, pp. 195-206; A. Séguenny, Les Spirituels. Philosophie et religion chez les jeunes humanistes allemands au seizième siècle, Baden-Baden – Bouxwiller 2000, pp. 129-237; R. Stadelmann, Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, trad. it. di F. Bassani, Bologna 1978 (in part. p. 148 sgg.; 173 sgg.; 248 sgg.; 305 sgg.); E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, trad. it. di G. Sanna, Firenze 1960, vol. II, pp. 577-580. Su Franck e Castellion, si veda H.R. Guggisberg, Sebastian Franck und Sebastian Castellio. Ein Diskussionsbeitrag, in Sebastian Franck, a cura di J.D. Müller, Wiesbaden 1993, pp. 293-302.

[18] W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, cit., vol. I, p. 107 sgg.

[19] Si veda in proposito il fondamentale studio di E. von Ivánka sull’origine della nozione di apex mentis, o fondo dell’anima, in Platonismo cristiano. Recezione e trasformazione del Platonismo nella Patristica, trad. it. di E. Peroli, Milano 1992, p. 246 sgg.

[20] Steven Ozment, Mysticism and Dissent. Religious Ideology and Social Protest in the Sixteenth Century, New Haven and London, 1973. Su Castellion in part., cfr. pp. 168-202. Su S. Franck, pp. 137-167.   

[21] Si vedano, sul rapporto tra mistica e filologia in Castellion, M. Bracali, Il filologo ispirato. Ratio e Spiritus in Sebastiano Castellione, Milano 2001; S. Visentin, Introduzione a S. Castellion, La persecuzione degli eretici, cit.; E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, cit., pp. 580583. Su Castellion e la mistica, e in part. la Theologia Deutsch, cfr. E. Zambruno, La «Theologia Deutsch» o la via per giungere a Dio. Antropologia e simbolismo teologico, Milano 1991 (2 ed.), cap. 2, pp. 45-64.

[22] Ecco il testo completo del De arte dubitandi: «Poiché la ragione è, per dir così, la figlia stessa di Dio, che è stata prima di tutte le Scritture e di tutte le cerimonie e prima della stessa creazione del mondo, e sempre sarà, anche dopo tutte le Scrit­ture e tutte le cerimonie e dopo che questo mondo sarà mutato e rinnovato, e Dio non può abolirla più di quanto non possa abolire se stesso. La ragione, dico, è un eterno discorso di Dio, molto più antico e certo così delle Scritture come delle cerimonie; secondo essa Dio ha istruito i suoi prima delle cerimonie e del­le Scritture e li istruirà dopo di queste, affinchè ricevano una dottrina veramen­te di origine divina. Secondo questa ragione vissero piamente Abele e Enoc e Noè e Abramo e molti altri, prima delle Scritture di Mosè; e cadute queste in desuetudine, molti finora son vissuti e nell’avvenire vivranno. Secondo questa ragione, Gesù Cristo medesimo, il Figlio del Dio vivente, che in greco è detto Logos, ossia ragione o discorso, che è la stessa cosa (poiché la ragione è quasi un discorso e un linguaggio interiore ed eterno, sempre in noi vivo, della verità), e visse egli stesso e insegnò agli altri e confutò le Scritture e le cerimonie alle quali i Giudei davano maggior peso che alla ragione…» (trad. it. di G. Radetti in S. Castellion, Fede, dubbio e tolleranza. Pagine scelte e tradotte, Firenze 1960, p. 141). Si veda anche la traduzione francese dell’opera di Castellion: De l’art de douter et de croire, d’ignorer et de savoir, a cura di C. Baudouin, Carrière sous Poissy 1996 (il testo citato è a pp. 99-100). Un commento all'”elogio della ragione” castellioniano, e all’intera opera di Castellion De arte dubitandi et sciendi, si trova in C. Gallicet Calvetti, Il Testamento dottrinale di Sebastiano Castellion e l’evoluzione razionalistica del suo pensiero, Milano 2005, in part. cap. 3 e p. 210 sgg. Della stessa studiosa ricordiamo altresì il precedente volume Sebastiano Castellion. Il Riformato umanista contro il riformatore Calvino. Per una lettura filosofico-teologica dei Dialogi IV postumi di Castellion, Milano 1989.

[23] Sulla “Regola d’oro” va ricordato il recente volume collettaneo, La Regola d’oro come etica universale, a cura di C. Vigna e S. Zanardo, Milano 2005. Il medesimo tema è al centro, com’è noto, del dibattito contemporaneo sul dialogo interreligioso, in part. della riflessione del teologo ecumenico Hans Küng e del progetto sul Weltethos. Si veda, in proposito, il volume, anch’esso di recente apparizione, AAVV, Ethos mondiale e globalizzazione, a cura di G. Cunico, K.-J. Kuschel e D. Venturelli, Genova 2005. Sugli stessi temi cfr. anche AAVV, Spazio globale: politica, etica e religione, a cura di G. Cunico e A. Pirni, Reggio Emilia  2005.

[24] S. Castellion, La persecuzione degli eretici, cit., pp. 8-9.

[25] Ivi, p. 15.

[26] Ivi, p. LI.

[27] Rinviamo, sul tema, alla Introduzione e alla Bibliografia contenute in Opere religiose di Nicolò Cusano, a cura di P. Gaia, Torino 1971, pp. 9-112.

[28] Si veda, sul Colloquium Heptaplomeres di Jean Bodin, il recente ampio studio di A. Suggi, Sovranità e armonia. La tolleranza religiosa nel Colloquium Heptaplomeres di Jean Bodin, Roma 2005. Esiste una traduzione italiana dell’opera di Bodin: Colloquium Heptaplomeres. Le sette visioni del mondo, a cura di C. Peri, Milano 2003.

[29] Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Sulla religione. Discorsi alle persone colte che la disprezzano, trad. it. di G. Moretto, in Scritti filosofici di Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, Torino 1998. Di Moretto ricordiamo i seguenti studi su Schleiermacher: Etica e storia in Schleiermacher, Napoli 1979;  Ispirazione e libertà. Saggi su Schleiermacher, Napoli 1986; Etica, Ermeneutica e Religione in Friedrich Schleiermacher, Pescara 2003.

[30] M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Milano 2003 (4 ed.), p. 155.

[31] Cfr. in part. sull’analisi della  modernità, W. Pannenberg, Cristianesimo in un mondo secolarizzato, trad. it. di G. Pontoglio, Brescia 1991, p. 23 sgg.

[32] D. Marconi, Introduzione a  SST, p. 10.

[33] Su Jacopo Aconcio e la sua idea di tolleranza, cfr. in part. Ch. D. O’Malley, Jacopo Aconcio, trad. it. di D. Cantimori, Roma 1955 (sui Satanae Stratagemata, cfr. cap. III, pp. 121-166); P. Rossi, Giacomo Aconcio, Milano 1952 (sulla tolleranza, v. cap. 4, pp. 89-108); AAVV, Jacopo Aconcio. Il pensiero scientifico e l’idea di tolleranza, a cura di P. Giacomoni, L. Dappiano, Trento 2005.

[34] Sul rapporto tra Socinianesimo e tolleranza, cfr. la ricerca di F. Pintacuda De Michelis Socinianesimo e tolleranza nell’età del razionalismo, Firenze 1975. Inoltre: G.J. Kaczynski, La libertà religiosa nel pensiero dei Fratelli polacchi, Torino 1995.

[35] Si veda in proposito il recente volume di G. Fragnito, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna 2005, insieme a quello, della medesima autrice, dal titolo La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna 1997. Inoltre: I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Milano 2000. Per la storia della repressioni degli eretici nel periodo che va dal Concilio lateranense del 1179 al 1230, prima cioè della nascita dell’Inquisizione, cfr. G.G. Merlo, Contro gli eretici. La coercizione all’ortodossia prima dell’Inquisizione, Bologna 1996.

[36] Cfr. H.R. Trevor-Roper, Protestantesimo e trasformazione sociale, trad. it. di L. Trevisani, Roma-Bari 1994 (cfr. in part. il cap. V, Le origini religiose dell’Illuminismo).  Sull’eredità erasmiana rinviamo al volume di S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia (1520-1580), Torino 1987, e agli studi fondamentali di Delio Cantimori sugli Eretici italiani del Cinquecento, cit.

[37] Una utile, sintetica introduzione alla Riforma “radicale” si trova in R. de Mattei, A sinistra di Lutero. Sette e movimenti religiosi nell’Europa del ‘500, Roma 1999. Sul rapporto tra Riforma e politica, ci limitiamo a ricordare i seguenti studi: E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, cit. (in part. vol. II); AAVV, Modernità, politica e protestantesimo, a cura di E. Bein Ricco, Torino 1994; R.H. Bainton, La Riforma protestante, trad. it. di F. Lo Bue, Torino 1958 (capp. 11-12); C. Hill, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del ‘600, trad. it. di E. Basaglia, Torino 1981; M. Walzer, La rivoluzione dei santi, trad. it. Torino 1996;  P. Adamo, La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella Rivoluzione inglese. 1640-1649, Milano 1998; M. Miegge, Capitalismo e modernità. Una lettura protestante, Torino 2005.

[38] Non a caso, dopo la Rivoluzione francese il dibattito sulla tolleranza si spegne, e quindi, in qualche modo, si chiude la crisi che si era aperta in Europa all’indomani della Riforma protestante. Il bilancio che se ne può trarre è che la battaglia moderna per la tolleranza ha rappresentato uno dei fattori decisivi per la costituzione dello Stato moderno come soggetto giuridico dotato di sovranità, retto da una Carta costituzionale, in cui si riflette la trasformazione categoriale suddetta: non più concessione di spazi di tolleranza, ma diritto alla libertà religiosa, o di coscienza, di cui ogni uomo è depositario. E’ G. De Ruggiero a ricordare che la rivendicazione della libertà religiosa rappresenta la prima grande fonte del liberalismo moderno, nella sua classica Storia del liberalismo europeo, Milano 1971, p. 18 sgg. Del resto, già John Stuart Mill nel suo Saggio sulla libertà osservava che è dalla lotta per la tolleranza che sono scaturiti i moderni diritti inalienabili dell’individuo (Saggio sulla libertà, trad. it. di S. Magistretti, Milano 1993, p. 20).

[39] In questo lavoro prendiamo in considerazione il pensiero tollerantistico di Locke limitatamente al periodo che va dal Saggio sulla tolleranza del 1667 alla Lettera sulla tolleranza del 1689. E’ noto che Locke, per rispondere alla polemica aperta da Jonas Proast, scriverà una Seconda (1690), poi una Terza (1692), e infine una Quarta Lettera sulla tolleranza, quest’ultima rimasta incompiuta e pubblicata postuma nel 1706. Questi documenti contengono ulteriori rilevanti sviluppi nella dottrina della tolleranza lockiana. Per la loro presentazione e analisi, rinviamo a SST e alla Introduzione del curatore del volume, Diego Marconi. La letteratura critica su Locke, anche solo in relazione ai temi della tolleranza e della religione, è naturalmente vastissima. Utili per un orientamento fondamentale sono: C.A. Viano, Locke, in Questioni di storiografia filosofica, a cura di V. Mathieu e A. Bausola, Brescia 1975, vol. II, pp. 435-474.  M. Sina, Introduzione a Locke, Roma-Bari 1982, pp. 155-199.

[40] Cfr. SST,  89-90.

[41] C.A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, Torino 1960, p. 305.

[42] Cfr. SST, 91 sgg.

[43] Ivi, p. 97.

[44] Ivi, p. 103.

[45] C.A. Viano, John Locke, cit., p. 307.  Commenta complessivamente Viano a proposito della dottrina contenuta nel Saggio: «Quella esposta ha tutti i tratti di una dottrina della tolleranza liberale e individualistica: il potere politico ha compiti di protezione e di tutela degli interes­si materiali dei membri della società, mentre deve rinunciare ad aiutarli a gua­dagnarsi la vita eterna o anche soltanto una vita moralmente buona. Un minimo di morale va rispettato, quel tanto che serve a tenere insieme la società politica, ma il magistrato deve tollerare anche i vizi, almeno in una certa misura. Le competenze del magistrato sono vincolate dalle sue conoscenze (utili al massi­mo per la tutela dei beni materiali), dalla resistenza che impongono le credenze a chiunque tenti di intervenire su di esse e dalla responsabilità, in nome della quale il magistrato deve poter rispondere di ciò che impone ai propri sudditi. Alla base di tutto ciò si può scorgere il rifiuto della concezione paternalistica del potere politico e una “laicizzazione” della vita pubblica, dal momento che un potere così concepito non può essere esercitato da una chiesa. Insomma, una specie di secolarizzazione ante litteram e una forma di individualismo radicale» (L’individualismo introvabile e la dottrina lockiana della tolleranza, in AAVV, La filosofia politica di Locke, a cura di G.M. Chiodi e R. Gatti, Milano 2005, p. 14.

[46] SST, 121.

[47] Per la vicenda biografica di Locke, si veda in part. M. Cranston, John Locke. A Biography, London 1957.

[48] Ha osservato R. Forst: «Nel corso delle battaglie che opposero le province del nord, in prevalenza protestanti, al governo spagnolo che voleva imporre il cattolicesimo, vennero sviluppati due importanti elementi della lotta per la libertà religiosa, specialmente negli scritti di monarcomachi calvinisti come Duplessis-Mornay: l’idea che il diritto naturale alla libertà religiosa – concepito come dono di Dio – fosse da considerare un diritto politico fondamentale e il principio secondo cui si doveva opporre resistenza ad un re che non rispettasse tale diritto fondamentale, proprio in virtù del senso dei propri doveri politici e religiosi. Un tiranno irrispettoso del diritto di libertà religiosa infrange sia il foedus con Dio che il pactum con il popolo: di conseguenza, la libertà religiosa non è concessa dai governanti, bensì è un diritto naturale dato da Dio, e quindi un requisito fondamentale della giustizia politica. Non ci può essere nessuno Stato legittimo che non ammetta tale diritto. Il risultato rivoluzionario di queste tesi fu la secessione delle province del nord nell’Unione di Utrecht, avvenuta nel 1579 – cosa che portò alla nuova repubblica che nel XVII secolo sarebbe divenuta un esempio di tolleranza» (Id., Tolleranza e democrazia, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 2, 2005, p. 40).  R. Forst ha dedicato alla tolleranza importanti lavori, tra i quali si è già ricordato Toleranz im Konflikt. Geschichte, Gehalt und Gegenwart eines umstrittenen Begriffs, cit.

[49] J. Huizinga, La civiltà olandese del Seicento, trad. it. di P. Bernardini Marzolla, Torino 1979.  Focalizzata sull’Olanda del Sei-Settecento è la ricostruzione contenuta nel documentato volumetto di F. Lomonaco, Tolleranza, cit., in part. capp. 3-4.

[50] «Lo spirito di Erasmo – osserva Huizinga – aveva messo radici troppo profonde e pervaso strati troppo larghi perché la dottrina di Calvino potesse facilmente trionfare» (ivi, p. 49).

[51] L. Simonutti, Premessa a Aminianesimo e tolleranza nel Seicento olandese. Il carteggio Ph. van Limborch – J. Le Clerc, Firenze 1984, p.14.  Non a caso, come ricorda Roland Bainton, il nome di Castellion ricorre nella corrispondenza tra Locke e Linborch del 1693, circa l’opportunità di pubblicare l’edizione completa delle sue opere. Ed è lo stesso Bainton a mettere suggestivamente in relazione Locke e Castellion: «Abbastanza stranamente – scrive lo storico inglese nel suo celebre saggio su La lotta per la libertà religiosa – soltanto due uomini nel corso della lotta per libertà religiosa hanno scritto trattati tanto sul problema della libertà quanto sul problema della conoscenza, cercando di metterli in relazione tra di loro. Questi due uomini furono Sebastiano Castellione e John Locke. Per questa ragione è assai interessante scoprire tra i carteggi di Limborch e Locke del 1693 una corrispondenza sulla questione dell’opportunità o meno di pubblicare una edizione completa delle opere di S. Castellione. L’opinione di Locke era che sarebbe stata accolta con molto favore in Inghilterra» (R. Bainton, La lotta per la libertà religiosa, cit., pp. 244-245).

[52] Cfr. SER, pp. 81-142. Contiene un’analisi del concetto di legge naturale lockiano il volume di E. Cassani-Traverso, Liberté et droit naturel dans l’oeuvre de John Locke, Fribourg 1993, in part. cap. 1. Più in generale, sulla tradizione giusnaturalistica, rinviamo allo studio di Y. R. Simon, La tradizione del diritto naturale. Le riflessioni di un filosofo, a cura di F. Di Biasi, Soveria Mannelli 2005, e a B. Tierney, L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico – 1150-1625, trad. it. di V. Ottonelli, Bologna 2002. Si vedano inoltre le classiche analisi di A. Passerin d’Entrèves, La dottrina del diritto naturale, Milano 1980; N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano 1977; G. Fassò, La legge di ragione, Bologna 1966 (2 ed.); Id., Società, legge e ragione, Milano 1974; H. Rommen, L’eterno ritorno del diritto naturale, trad. it. di G. Ambrosetti, Roma 1965.  Una acuta critica al giusnaturalismo classico e un’analisi della sua revisione in età moderna, si trovano in P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, Bari 1961.

[53] Le due versioni della Lettera, e le vicende storiche che hanno accompagnato la loro redazione e pubblicazione, sono raccolte e tradotte, con testo originale a fronte, in J. Locke, Sulla tolleranza e l’unità di Dio, a cura di M. Montuori, Milano 2002.

[54] F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Milano 1992 (2 ed.), p. 66. Dell’illustre maestro del pensiero giuridico italiano, ricordiamo altresì, sullo stesso tema, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna 1992.

 [55] SST, 131.

[56] Ib.

[57] Ivi, p. 134.

[58] Ivi, p. 135.

[59] Ivi, p. 141.

[60] Cfr. P. Cambou, Le discours démonstratif lockien dans la Lettre sur la tolérance et le discours narratif voltairien dans le Traité sur la tolérance, in AAVV, Traité sur la tolérance. Voltaire, a cura di J.-L. Tritter, Paris 1999, pp. 63-81.

[61] Mette conto, altresì, sottolineare, come ha fatto Giacomo Marramao, che mentre l’argomento “latitudinario” relativo alla essenzializzazione etica della vita religiosa viene da Locke immediatamente, deduttivamente, declinato nella dottrina della divisione delle sfere, civile e ecclesiale, con la conseguente limitazione del diritto alla tolleranza, da cui vengono esclusi sia i «papisti», in quanto sudditi di un sovrano straniero, sia gli «atei», quello stesso argomento in Voltaire viene trasvalutato, inverato, alla luce dell’esperienza storica concreta e, aggiungiamo noi, della religione naturale, del teismo, che consente di riconoscere un nucleo comune che si cela dietro tutte le confessioni e religioni storiche.  «E’ grazie a una contestualizzazione storico-pragmatica, e non a un astratto criterio logico – conclude Marramao – che Voltaire può ravvisare la sola possibile soluzione al problema della tolleranza nella promozione e nel mantenimento di un ampio assetto “pluralistico” di credenze» (Lo specchio orientale. Voltaire e le radici dell’intolleranza, in Id., Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino 2003, p. 198).

[62] SST, 138.

[63] Ivi, p. 140.

[64] C.A. Viano, John Locke, cit., p. 399.

[65] Ivi, p. 408.

[66] M. Sina, Il cammino di Locke verso la dottrina della tolleranza religiosa, in AAVV, La tolleranza  religiosa, cit., pp. 217-218.

[67] R. Bainton, La lotta per la libertà religiosa, cit., p. 236.

[68] J. Le Clerc, Elogio [storico] del  defunto signor Locke, in SER, 737-738.

[69] Citiamo il documento nella traduzione fattane da M. Sina nella Introduzione a J. Locke, Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Sina, Milano 1979, pp. 12-13.

[70] Sul Platonismo di Cambridge e sul suo influsso su Locke, è fondamentale l’ampio lavoro di M. Sina L’avvento della ragione. «Reason» e «above Reason» dal razionalismo teologico inglese al deismo, Milano 1976, in part. cap. secondo e quinto. Ricordiamo inoltre: E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge, trad. it. di R. Salvini, Firenze 1947; B. Willey, La cultura inglese del Seicento e Settecento, trad. it. di A. Dal Farra, Bologna 1975, in part. capp. VII-XII; C. Motzo Dentice di Accadia, Preilluminismo e deismo in Inghilterra, Napoli 1970; A. Sabetti, Deismo e teismo nell’Inghilterra dei secoli XVII e XVIII, Napoli 1969.

[71] Si veda sulla ricezione francese del Tractatus theologico-politicus spinoziano il fondamentale lavoro di P. Vernière, Spinoza et la pensée française avant la Révolution, Paris 1954, in part. vol. I cap. III. Sulla ricezione di Locke in Francia cfr. Jorn Schosler, John Locke et les philosophes français. La critique des idées innées en France au dix-huitième siècle, Oxford 1997.

[72] B. Spinoza, Tractatus theologico-politicus, a cura di A. Dini, Milano 1999, pp. 489-91. Sull’ermeneutica biblica tra il ‘500 e il ‘600 rinviamo a AAVV, Le temps des Réformes et la Bible, a cura di G. Bedoulelle – B. Roussel, Paris 1989, vol. 5 dell’opera Bible de tous les temps, 8 voll. (cfr. in part. il cap. 37, La Bible et la tolérance, pp. 657-676, di G. Cheymol). Inoltre: H. Graf Reventlow, Storia dell’interpretazione biblica. Dall’Illuminismo fino ai nostri giorni, vol. 4, trad. it. di E. Gatti, Casale Monf. (Al) 2004 (su Locke, pp. 65-82); P. Lombardi, La Bibbia contesa. Tra umanesimo e razionalismo, Firenze 1992.

[73] Cfr. De Sacrae Scripturae Authoritate, in  SER, 196-200.

[74] Cfr. ivi, p. 182-190.

[75] Ivi, p. 191.

[76] Ivi, p. 193.

[77] Cfr. C.A. Viano, John Locke, cit., p. 290 sgg.

[78] Cfr. An inward inspiration or revelation, in J. Locke, SER, 201-206.

[79] Cfr. E. Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, trad. it. di G. Cantillo, Napoli 1985, vol. I, p. 141 sgg. Sullo storico e teologo liberale ricordiamo in particolare la monografia di G. Cantillo, Ernst Troeltsch, Napoli 1979, e la più recente Introduzione a Troeltsch, Roma-Bari 2004.

[79] I. Calvino, Lezioni americane, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano 2001 (3 ed.), vol. I, p. 726.

[79] P. Piovani, Oggettivazione etica e assenzialismo, a cura di F. Tessitore, Napoli 1981, pp. 106-107. Analogamente, scrive il pensatore napoletano: «Il pluralismo moderno non fa in  tempo a conoscersi quale è, che già è timoroso del suo stesso essere pluralistico, già nega la fiducia alla capacità dell’individuo di vivere e convivere: non ha ancora infranto il mondo unitario e gerarchico del Medio Evo e già paventa di essere obbligato a vivere in un universo perennemente frazionato: invece di esaltare i pregi d’una convivenza polimorfa, si lascia prendere da un vero incubo della «polverizzazione», disconoscendo così la sua origine e la sua natura, alle quali tuttavia rimane legato, costretto com’è a portarne a compimento, più o meno consapevolmente, più o meno contraddittoriamente, gli impliciti programmi» (Id., Giusnaturalismo ed etica moderna, cit., pp.108-109).

[80] J. Locke, The Reasonableness of Christianity, as deliver’d in the Scriptures, Printed for A. and J. Churchill, London 1695. Si veda dell’opera l’edizione critica: The Reasonableness of Christianity, as as deliver’d in the Scriptures, a cura di J.C. Higgins-Biddle, Oxford 1999.

[81]  SER, 286-287.

[82] Ivi, p. 379.

[83] Ivi, p. 404.

[84] Ivi, p. 410.

[85] Ivi, p. 411.

[86] «Proprio come la sintesi tomista riposava sull’equilibrio della natura e della grazia, il cristianesimo lockiano enuncia a posteriori la convergenza della ragione e della rivelazione» (B. Cottret, Il Cristo dei Lumi. Gesù da Newton a Voltaire (1660-1760), trad. it. di I. Pampararo, Brescia 1992, p. 59).

[87] SIU, 1317-19.

[88] Ivi, p. 1299-1301.

[89] C.A. Viano, John Locke, cit., pp. 382-383.

[90] G. Marramao, Passaggio a Occidente, cit., p. 201.

[91] Ivi, p. 195.

[92] Sul suddetto conflitto nell’ambito della storia della filosofia, e in part. della filosofia del diritto, cfr. P. Piovani, Linee di una filosofia del diritto, Padova 1968. Per i termini essenziali del vasto dibattito sull’universalismo nella filosofia politica contemporanea, rinviamo a S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, trad. it. di A.R. Dicuonzo, Bologna 2005, in part. cap. 1. L’intento delle brevi riflessioni che seguono, che esigerebbero, naturalmente, ben altri approfondimenti, è di circoscrivere il problema dell’universalità al dominio del religioso, nonostante la consapevolezza delle tangenze tra tale dominio e quello politico.

[93] Sul declino del pensiero medioevale, cfr. il fondamentale studio di E. Garin, La crisi del pensiero medievale, in Id., Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Roma-Bari 1984, pp. 13-45. Inoltre, si veda R. Stadelmann, Il declino del Medioevo, cit.

[94] Cfr. V. di Beauvais, Speculum majus, Douai 1624, 4 voll.

[95]  Cfr. K. Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo. Due dissertazioni sui fonda­menti della cultura e dell’arte della parola moderna, trad. it. di D. Cantimori, Firenze, 1986, in part. p. 115.

96 SIU, 1331.

[97] I. Calvino, Lezioni americane, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano 2001 (3 ed.), vol. I, p. 726.

[98] P. Piovani, Oggettivazione etica e assenzialismo, a cura di F. Tessitore, Napoli 1981, pp. 106-107. Analogamente, scrive il pensatore napoletano: «Il pluralismo moderno non fa in  tempo a conoscersi quale è, che già è timoroso del suo stesso essere pluralistico, già nega la fiducia alla capacità dell’individuo di vivere e convivere: non ha ancora infranto il mondo unitario e gerarchico del Medio Evo e già paventa di essere obbligato a vivere in un universo perennemente frazionato: invece di esaltare i pregi d’una convivenza polimorfa, si lascia prendere da un vero incubo della «polverizzazione», disconoscendo così la sua origine e la sua natura, alle quali tuttavia rimane legato, costretto com’è a portarne a compimento, più o meno consapevolmente, più o meno contraddittoriamente, gli impliciti programmi» (Id., Giusnaturalismo ed etica moderna, cit., pp.108-109).

[99] Emblematici, in questo senso, suonano i  versi di John Donne nella Anatomia del mondo. Mondo ormai abbandonato da bellezza e armonia e del quale perciò, simile a un cadavere, è possibile fare una anatomia, dissezionandolo e, anche, decomponendolo nei suoi atomi incapaci, ormai, di tenere insieme l’edificio unitario:                             “E la nuova filosofia mette tutto in dubbio,

l’elemento del fuoco è affatto estinto;

il sole è perduto, e la terra; e nessun ingegno umano

può indicare all’uomo dove andarlo a cercare.

E liberamente gli uomini confessano che questo mondo è finito,

dato che nei pianeti e nel firmamento

ne cercano tanti di nuovi; essi vedono che questo

si è di nuovo frantumato nei suoi atomi.

E’ tutto in pezzi, scomparsa è ogni coesione,

ogni equa distribuzione, ogni rapporto: sovrano, suddito, padre,

figlio, son cose dimenticate»

(J. Donne, Anatomia del mondo, trad. it. di G. Melchiori, in Liriche sacre e profane. Anatomia del mondo. Duello della morte, Milano 1992, p. 113).

[100] Sull’identità culturale, e sull’esigenza di pensarla come struttura aperta e non chiusa, cfr. M. Aime, Eccessi di culture, Torino 2004. Ha densamente riflettuto sul tema dell’identità nella società contemporanea Z. Bauman, di cui ricordiamo: La società dell’incertezza, trad. it. Bologna 1999; Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Roma-Bari 2003. Sul piano storico e teoretico, in relazione al medesimo problema, segnaliamo due volumi recenti: R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano 2002; E. Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, Genova 2004.

[101] Sottolinea le ambivalenze della nozione di tolleranza, insieme alla loro storia, R. Forst in Tolleranza e democrazia, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 2, 2005, pp. 35-49.

[102] J.W. Goethe, Massime e riflessioni, a cura di S. Giametta, Milano 1992, p. 166.

[103] I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, in Id., Scritti sul criticismo, a cura di G. De Flaviis, Roma-Bari 1991, p. 10.

[104] G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano 2002, pp. 37-38. Riprende le affermazioni di Sartori M. Aime in Eccessi di culture, cit., p. 65 sgg.

[105] Ivi, p. 19.

[106] V. Melchiorre, Quale dialogo? Quale tolleranza?, in AAVV, Per un dialogo interculturale, a cura di V. Cesareo, Milano 2001, p. 5. Ha scritto, nella stessa direzione, rilevando, a suo modo, le ambivalenze del concetto di tolleranza, il filosofo e storico polacco Leszek Kolakowski: «Se pensiamo alla tolleranza come aspetto di un sistema giuridico, essa in realtà equivale all’indifferenza; è un concetto negativo che definisce i confini entro i quali la legge non impone specifici modi di comportamento: si assume che vi siamo aree in cui gli individui possono comportarsi come vogliono. La tolleranza come atteggiamento di individui o di gruppo può significare qualcos’altro: il desiderio attivo di comunicazione non ostile con persone che pensano differentemente da noi e la percezione che il loro modo di pensare può radicarsi nella buona volontà; e questa percezione implica la nostra disponibilità di discutere di problemi comuni in spirito di apertura, di conseguenza la capacità di guardare con un certo scetticismo alle nostre stesse opinioni» (Id., E’ concepibile una tolleranza cristiana?, in AAVV, L’intolleranza: uguali e diversi nella storia, cit., p. 228). Di Kolakowski occorre ricordare almeno, per le relazioni con il i temi trattati nel presente lavoro, l’ampia e fondamentale ricerca dal titolo, nella trad. francese di A. Posner, Chrétiens sans Église. La conscience religieuse et le lien confessionnel au XVII siècle, Paris 1987 (2 ed.).

[107]  Ivi, pp. 5-6.

[108] P. Piovani, Conoscenza storica e coscienza morale, cit., p. 179. Scrive Piovani nella stessa direzione: «Se l’universo non è che universalizzazione, viene meno ogni possibilità di farne una specie di magazzino di valori: per la nuova, esigente dinamicità, il valore non può essere che valorazione»  (Id., Oggettivazione etica e assenzialismo, cit., p. 121). Rinviamo, sull’antitesi tra universalismo giusnaturalistico e principio di individualità storicistico alla Prefazione di F. Meinecke a Die Entstehung des Historismus, trad. it. Le origini dello storicismo, a cura  di M. Biscione, C. Gundolf, G. Zamboni, Firenze 1973, pp. IX-XVI.  Sarà il celebre confronto tra Meinecke e Croce, sul finire degli anni trenta, a conferire allo Historismus critico-problematico piena consapevolezza storiografica del suo costituire una linea di pensiero peculiare, distinta da quella hegeliana. Nel corso di tale Streit, la storicizzazione dello storicismo della meineckeana Entstehung des Historismus avrebbe incontrato la reazione critica di Croce (cfr. B. Croce, Lo storicismo e la sua storia, ne La storia come pensiero e come azione, Bari 1966, pp. 53-72), cui Meinecke replicherà nel saggio intitolato Contributo alla storia delle origini dello storicismo e dell’idea di indivi­dualità di Schleiermacher (cfr. F. Meinecke, Contributo alla storia dell’origine dello storicismo e dell’idea di individualità di Schleiermacher, in Senso storico e significato della storia, trad. it. di M.T. Mandalari, Napoli, 1980, pp. 105-124). Il sigillo finale a questa disputa lo avrebbe posto Croce recensendo il volumetto meineckeano del ’39 e chiarendo l’incomponibile alternativa tra storicismo come «principio di vita» e storicismo come «principio di scienza» (F. Meinecke, Senso storico e significato della storia, cit., p. 128). Ha osservato F. Tessitore a proposito dell’affermazione, strutturale nello Historismus, del principio di individualità, che non è anarchico relativismo: «Questa scelta che è meineckianamente quella di Humboldt, di Schleiermacher e dei loro prosecutori, caratterizza a mio avviso fin dalle origini lo storicismo come rifiuto della metafi­sica, come anti-ontologia, senza che il radicale rifiuto comporti necessariamente l’anarchia relativistica o la perdita del fondamento, giacché il senso è nel divenire stesso, di cui e in cui proprio la caducità esprime il significato, cioé l’inesauribile produttività della vita storica» (Id., Introduzione allo storicismo, Roma-Bari 1991, p. 10).

[109] L’allusione è in particolare, all’opera di E. Troeltsch, L’assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, trad. it. di A. Caracciolo, Napoli, 1968.

[110] Una versione culturale di ciò che si è chiamato “universalismo olistico” o apriorico, è certo il modello di universalismo “etnocentrico” di cui l’Occidente è stato, sin dalla scoperte geografiche, così come ancor oggi, portatore. Esso nasce dalla convinzione – appunto apriorica – che il modello culturale occidentale differisca radicalmente dagli altri e, naturalmente, sia superiore. E’ in base a tale modello universalistico che si perviene alla omologazione planetaria delle identità culturali sulla base di quella occidentale. Altro, è, invece, pensare che nella diversità delle culture riposi una identità profonda radicata nell’humanitas, e che sia possibile dialogare e incontrarsi in base ad essa. Seyla Benhabib, nel volume già ricordato sulla Rivendicazione dell’identità culturale, fornisce alcuni esempi illuminanti di ciò a cui si vuole alludere: «L’idea che l’universalismo sia etnocentrico – scrive – presuppone spesso anche una visione omolo­gante delle altre culture e civiltà, delle quali si trascurano quegli elementi che non solo potrebbero essere perfettamente com­patibili con la scoperta occidentale dell’universalismo, ma che potrebbero persino costituirne l’origine. Si consideri un episodio verificatosi nel momento di ascesa della cultura rinascimentale. In Occidente, dopo la divisione dell’impero romano nel 393 d.C. e il declino della sua parte occidentale nel 476 d.C., la filosofia greca, in particolare il pensiero di Platone e Aristotele, caddero nel dimenticatoio. E’ risaputo che furono i filosofi arabi ed ebrei del Medioevo, Ibn Sina (Avicenna), Ibn Rushd (Averroè) e Ibn Gabirol (Avicebron), a mantenere viva la tradizione classica. Nel tredicesimo secolo, in Anatolia, il poeta Yunus Emre sviluppò una forma di neoplatonismo mistico che anticipava non solo elementi del­l’umanesimo rinascimentale, ma anche le filosofie panteistiche del diciannovesimo secolo. Nella visione di Emre, l’uomo è posto al centro di una catena divina dell’essere di complessità, bellezza e perfezione crescenti: perveniamo alla pienezza delle nostre capacità spirituali nel momento in cui partecipiamo, attraverso i nostri intelletti, dell’ordine divino delle forme. Emre, uno dei grandi poeti mistici dell’islam, coniugò la dottrina platonica delle forme con l’ontologia aristotelica. L’affermazione di Galileo, diversi secoli più tardi, secondo cui il libro della natura è scritto in caratteri matematici, ha molto in comune con il convincimento di Emre che l’universo sia un’intelligibile, ordinata gerarchia di forme» (Id., La rivendicazione dell’identità culturale, cit., pp. 47-48).

[111] Sul problema di una revisione e ridefinizione dell’universalismo nel dominio della religione cristiana e della concezione della Chiesa, cfr. le acute considerazioni di V. Sainati, Cristianesimo e pluralismo religioso, in AAVV, Il pluralismo religioso. Una prospettiva interdisciplinare, a cura di A.. Fabris e M. Gronchi, Cinisello Balsamo (Mi) 1998, pp. 55-73. Inoltre: A. Fabris, Tre domande su Dio, Roma-Bari 1998; Id., Etica della comunicazione interculturale, Lugano 2004, in part. p. 57 sgg.

[112] D. Venturelli, Contributo filosofico al “progetto per un ethos mondiale“, in AAAVV, Ethos mondiale e globalizzazione, cit., p. 262.

[113] G.E. Lessing, Nathan il saggio, in Id., Minna di Barnhelm – Emilia Galotti – Nathan il saggio, trad. it. B. Allason, Milano 1990, pp. 251-252. Difficile, in questo contesto, non ricordare anche il celebre testo di Eine Duplik: «Non la verità di cui un uomo si crede o è in possesso, ma il sincero sforzo per giungervi, determina il valore del singolo … Se Dio tenesse nella sua mano destra tutta la verità e nella sinistra il solo eterno impulso verso la verità … io mi precipiterei umilmente alla sua sinistra e direi: concedimi questa, o Padre! La verità pura è soltanto per te» (G.E. Lessing, Una controreplica, in Id., Religione e libertà, a cura di G. Ghia, Brescia 2000, p. 33). Su Lessing ci limitamo a ricordare: G. Pons, Gotthold  Ephraïm Lessing et le christianisme, Paris 1964; G. Cunico, Da Lessing a Kant, Genova 1992; G. Ghia, Da Reimarus a Nathan. Lessing e la disputa sui frammenti. Una cronistoria, in “Humanitas”, 2, 2000, pp. 250-263. Sulla religione di Lessing, e in particolare su Nathan il saggio, rinviamo anche a H. Küng, La religione nel processo dell’illuminismo, in H. Küng-W. Jens, Poesia e religione, trad. it. di R. Garaventa, Genova 1989, pp. 75-90. Mette conto ricordare altresì, per finezza interpretativa e rilievo storico, i due interventi su Lessing di Thomas Mann (Discorso su Lessing; In memoria di Lessing) contenuti in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di A. Landolfi, Milano 1997, rispettivamente alle pp. 5-22; 23-29.

[114] A. Caracciolo, Religione ed eticità. Studi di filosofia della religione, Genova 1999, p. 72. Una ricerca del concetto di verità nella direzione del pluriprospettivismo è quella contenuta nel volume collettaneo II problema dell’errore nelle concezioni pluriprospettivistiche della verità, a cura di A. Caracciolo, Genova 1987. Sul piano ermeneutico, va ricordato il classico volume di L. Pareyson, Verità e interpretazione, Torino 1982 (3 ed.).

NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 17.2.2006 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.