«Notai che in questa affermazione: io penso, dunque sono, non c’è nulla che me ne assicuri la verità eccetto il vedere chiaramente che per pensare bisogna essere: giudicai, quindi, di poter prendere per regola generale che le cose, le quali noi concepiamo in modo del tutto chiaro e distinto, sono tutte vere» (R. Descartes, Discorso sul metodo)
L’UOMO DESCARTES
René Descartes (Cartesio) nacque a La Haye, in Turenna (Francia) il 31 marzo 1596. La madre morì pochi giorni dopo che l’aveva dato alla luce. Tre giorni dopo la nascita ricevette il battesimo (dopo la sua morte, gli si trovò il suo estratto battesimale da lui religiosamente conservato e portato sino in Svezia, come certificato del suo cristianesimo).
Di nobile famiglia, fu iniziato agli studi nel Collegio di La Flèche diretto dai gesuiti, ove trascorse otto anni della sua giovinezza. Dell’educazione gesuitica, avuta in quella che nel Discorso chiamò «una delle più celebri scuole d’Europa» oltre quel corredo di cultura, su cui si è poi venuta esercitando la sua critica demolitrice del sapere tradizionale, gli rimase una «tendenza alla dissimulazione onesta, una prudenza ambigua che spesso si ammanta di stoico riserbo» (Guido De Ruggiero). Questi sono i tratti più antipatici del suo temperamento, ma furono anche i mezzi più efficaci di difesa per compiere cautamente la sua rivoluzione intellettuale.
Nel 1612 lasciò La Flèche per laurearsi in diritto a Poitiers. Dopo ciò incominciò ad agitarlo il problema della vocazione: «Quod vitae sectabor iter» (verso di Ausonio) si chiede per parecchi anni Cartesio. Risoluto a non consultare più che i propri pensieri e a non leggere che «nel gran libro del mondo» si diede a viaggiare. In Olanda studia e apprende il mestiere delle armi agli ordini di Maurizio di Nassau e stringe amicizia con Isacco Beeckman, uomo di grande cultura che doveva esercitare un’influenza decisiva sul suo destino, spronandolo allo studio della fisica.
Pur essendo stato sempre debole di salute gli piacevano gli esercizi fisici e tirava di scherma. Nel 1619 prese servizio nell’esercito del duca di Baviera. Al sopraggiungere dell’inverno si trovava in Germania, fermo in un quartiere dove rimase a meditare sui suoi problemi. «Non trovando conversazione alcuna che mi svagasse, né, per fortuna, preoccupazioni e passioni che mi turbassero, passavo tutto il giorno da solo accanto alla stufa, dove avevo tutto l’agio di intrattenermi con i miei pensieri» (Discorso, II, 1).
La sera del 10 novembre, essendosi Cartesio coricato «tutto pieno di entusiasmo», dominato dal pensiero «d’aver trovato in quel giorno i fondamenti della scienza ammirabile», ebbe tre sogni consecutivi che s’immaginò «non esser venuti se non dall’alto». I primi due li considerò avvisi minacciosi riguardanti la sua vita passata non così innocente innanzi a Dio come appariva dinnanzi gli uomini. Il terzo sogno lo persuase che «lo Spirito di verità aveva voluto aprirgli con esso i tesori di tutte le scienze».
Jacques Maritain ha studiato Le songe de Descartes che ha così interpretato: la «scienza mirabile» di quella notte era la scienza universale che Cartesio si sentiva chiamato a fondare, superando l’idea tradizionale della diversità delle scienze e abbracciando le cose sensibili in una perfetta unità specifica. È il sogno del trionfo universale della chiarezza matematica, flusso della scienza di Dio nel nostro spirito.
Il giorno seguente Cartesio formulava il voto di un pellegrinaggio a Loreto e contava di recarsi a piedi da Venezia al tempio della Santa Casa. Dopo un anno il voto fu soddisfatto, partecipando devotamente anche al giubileo indetto da Urbano III.
Abbandonò le armi, si liberò dall’inclinazione per il gioco e dal difetto di sciupare il suo tempo, concentrandosi negli studi, pur attraverso viaggi (in Germania e in Olanda, a Parigi, a Venezia, in Svizzera), che lo portarono ad intrecciare molteplici relazioni con i dotti più celebri del tempo.
Nel 1628, in un’adunanza a cui partecipavano scienziati e personaggi eminenti, dal padre Marino Mersenne al card. Pierre de Bérulle, un certo signor De Chandouse, medico, propose un sistema per confutare il modo di insegnare filosofia allora in uso. L’unico a tacere fu Cartesio. Vivamente pregato di esprimere il suo giudizio, Cartesio dimostrò come il De Chandouse si era servito del verosimile per far passare per vero ciò che era falso. L’assemblea, sorpresa, gli pose il problema: v’è dunque un metodo infallibile per evitare le sorprese dei sofismi? Cartesio, per tutta risposta, espose il suo metodo.
Il card. Bérulle, suo direttore spirituale, lo impegnò in coscienza a svolgere organicamente il suo disegno: le esortazioni del porporato furono decisive per la sua vocazione. Si rifugiò in Olanda, per ricercare una solitudine perfetta in un paese in cui fosse quasi sconosciuto, spesso passando dall’una all’altra residenza in modo che nessuno degli amici francesi riuscisse a sapere – eccetto padre Mersenne – ove egli si trovasse. Così per una ventina d’anni, mentre il Mersenne gli servì da corrispondente e da informatore.
Dal 1619 al 1628, in questo primo decennio di attività intellettuale, le opere scritte e mai pubblicate sono Regulae ad directionem ingenii e il trattato Le monde, di argomento cosmologico. Le prime incompiute, il secondo in via di pubblicazione quando nel 1633 gli giunse la notizia della condanna di Galileo. Fu questa, forse, la più forte tentazione per la sua fede religiosa. «Confesso – scrive al Mersenne – che se questo sentimento del movimento è falso, tutti i fondamenti della mia filosofia lo sono pure» (qui filosofia significa scienza). Il trattato lo soppresse piuttosto che farlo apparire storpiato o esporlo alla disapprovazione della Chiesa.
Egli però biasimava «coloro che mescolano Aristotele con la Bibbia e vogliono abusare dell’autorità della Chiesa per esercitare le loro passioni; intendo coloro che hanno fatto condannare Galileo e che farebbero condannare anche le mie opinioni, se lo potessero, allo stesso modo». «Io credo che è un applicare la Santa Scrittura a un fine per il quale Dio non l’ha data e per conseguenza un abusarne, quando si vuol dedurne la conoscenza delle verità che non appartengono se non alle scienze umane, e che non servono punto alla nostra salute».
Aderendo alle sollecitazioni degli amici, nel 1637 pubblicava un conciso sommario dei suoi concetti metodologici e dei suoi principi filosofici sotto il titolo celeberrimo di Discours de la méthode («Discorso sul metodo»), come introduzione a tre saggi scientifici che dovevano offrire una esemplificazione pratica della fecondità del metodo: Dioptrique (studio sulle lenti, sull’occhio e descrizione delle esperienze sugli occhi dei buoi), Météores, Gèometrie (riforma dell’algebra, geometria analitica, ecc.). È di questo periodo il suo amore per Helène Jans, dalla quale ebbe Francine, la figlioletta che amò teneramente e che gli morì a soli cinque anni.
Appaiono nel 1641 le Méditationes de prima philosophia, in cui svolge analiticamente le parti metafisiche del Discorso. Spedendo a Mersenne le Méditationes nella loro prima redazione diceva: «Vi invio finalmente il mio scritto di metafisica, al quale non ho messo titolo, per farne di voi il padrino e lasciarvi il potere di battezzarlo. Io credo che la si potrà chiamare Méditationes de prima philosophia poiché io non vi tratto solo di Dio e dell’anima, ma in generale di tutte le prime cose che si possono conoscere filosofando con ordine».
Mersenne presentò l’opera alla Sorbona con dicitura più lunga e meno esatta (Méditationes de prima philosophia, in qua Dei existentia et animae immortalitas demonstratur) per facilitarne l’approvazione (che non venne), ma egli stesso si lamentò con l’amico perché dell’immortalità dell’anima non si discorreva. Nella seconda edizione il titolo venne modificato così: Méditationes sur la philosophie première dans lesquelles ou prouve clairement l’existence de Dieu et la distinction réelle entre l’âme et le corp de l’homme. Con l’aiuto del Mersenne, prima della pubblicazione, Cartesio aveva sottoposto le Méditationes al giudizio dei più rinomati pensatori e teologi del tempo: le obiezioni (tra cui quelle di Hobbes, Antonio Arnauld, Pierre Gassendi) e le risposte di Cartesio costituiscono la voluminosa, interessantissima appendice al libro.
L’intemperanza di un suo scolaro poi apostata del cartesianesimo, Regius, gli procurò dispute coi teologi protestanti; contro altri accusatori francesi scrisse i Principia philosophiae, opera sistematica in quattro libri dedicata alla regina Elisabetta, figlia di Federico V del Palatinato. Nel 1649 diede alle stampe Les passions de l’âme.
Nello stesso anno partì per Stoccolma, in Svezia, cedendo alle insistenze della regina Cristina, alunna molto capricciosa che costringeva l’illustre filosofo a recarsi a corte alle cinque del mattino per le lezioni, nel cuore del rigidissimo inverno. Cartesio, che alloggiava presso l’ambasciatore francese Chanut, la sera del 2 febbraio cominciò ad avvertire i sintomi della polmonite e parlò della morte. Dopo un miglioramento effimero, una nuova crisi. Non poté più parlare, pur conservando per intero la coscienza.
Il padre Viogué, cappellano dell’ambasciata francese, suo nuovo direttore spirituale, ci ha tracciato in due dichiarazioni la vita religiosa del filosofo nei quattro mesi passati in Svezia e, specialmente, la sua morte religiosa. Non potendogli, nel subitaneo aggravamento, somministrargli l’estrema unzione, il padre Vioguè lo pregò di fare qualche segno se intendeva ricevere un’ultima benedizione. L’ammalato alzò gli occhi al cielo in un modo che commosse gli astanti. Dopo la benedizione, mentre recitavano le preghiere per gli agonizzanti, Cartesio spirò. Era l’11 febbraio 1650.
Il suo corpo fu riportato in Francia nel 1667 e sepolto in Parigi nella chiesa di S. Genoveffa, ora Saint-Germain des Prés.
La sola vita di Cartesio un po’ completa data 1691. È stata scritta dal sacerdote Adrien Baillet ed è ispirata dall’idea che Cartesio ebbe un’anima profondamente religiosa. Nonostante le critiche sollevate (sfavorevolissime quelle di Malebranche) sino a pochi decenni fa era l’unica che reggesse.
La tesi di Cartesio «prototipo dello scienziato moderno», per cui le Méditationes sono dovute non a un’anima metafisica ma ad una deviazione imposta dalla condanna di Galileo è sostenuta nella Vie et ouvres de Descartes di Charles Adam (1910). L’Adam narra che Jean Gillot, servitore di Cartesio, divenne professore di ingegneria a Leida; un altro servitore, Gerard von Gutschoven, divenne professore all’Università di Lovanio; e il suo calzolaio divenne astronomo. Tale era l’influenza dello scienziato su chiunque l’avvicinava.
IL METODO E LA SCIENZA
Cos’è il metodo per Cartesio
«Necessaria est methodus ad rerum veritatem investigandam (É necessario un metodo per ricercare la verità)» (Reg. IV). Questa convinzione si formò in Cartesio fin dai primi anni della giovinezza. Un testo degli Inedits, che pare risalga al 1619, ce lo attesta. Cartesio, ancora nel collegio di La Flèche, aspirava ad un metodo d’invenzione che voleva dedurre non da considerazioni astratte, ma dall’osservazione del suo pensiero, quando riusciva in qualche indagine. Risulta che la formazione del metodo di Cartesio è cominciata prestissimo e che egli l’ha elaborato attraverso parecchie redazioni successive. Il sogno del 10 novembre 1619 («cum plenus forem enthousiasmo et mirabilis scientiae fondamenta reperirem – essendo pieno di entusiasmo e trovando i fondamenti di una scienza mirabile») e il frammento autobiografico dell’11 novembre 1620 («coepi intelligere fundamentum inventi mirabilis – comincio a capire i fondamenti di una scoperta mirabile») ce lo confermano.
E la prima in ordine di data delle grandi opere filosofiche fu proprio Regulae ad directionem ingenii composta certamente non dopo il 1628. L’opera doveva comprendere tre parti, composte ciascuna di 12 regole: la prima sulle «questioni semplici», la seconda sulle «questioni perfettamente comprese», la terza sulle «questioni imperfettamente comprese». Cartesio si arrestò alla ventunesima regola.
Per Francesco Olgiati (La filosofia di Descartes,Vita e Pensiero, Milano 1937, p. 193) le Regulae sono una brutta copia che servì a preparare, parecchi anni dopo, in seguito ad una lunga maturazione di pensiero, il Discorso sul metodo. Anche in questa opera lo spirito vivificatore è, sin dal principio, la Mathesis universalis; ma innalzandosi dalla fisica matematica alla metafisica, per trovare la spiegazione ultima della realtà studiata dalla scienza, Cartesio concedeva una parte sempre più cospicua a questioni schiettamente filosofiche, infelicemente confuse con questioni di indole didattica e psicologica.
Fra le trattazioni intorno al metodo che all’epoca di Cartesio erano all’ordine del giorno (Leonardo e Galileo, Francisco Sánchez e Francesco Bacone, ecc.) e quelle dei filosofi post-cartesiani, quale posto ha il Discorso sul metodo, quali novità arreca?
Cartesio lo presenta come dedotto dalla storia del suo spirito e non da affermazioni aprioristiche; ma poiché ogni teoria del metodo è in funzione del sistema d’un pensatore, il concetto che Cartesio aveva del metodo è quello stesso che aveva della filosofia. Cartesio non ha mai confuso la scienza con le varie arti e con le tecniche proprie a ciascuna di esse; nelle arti si impone la specializzazione, nella scienza occorre la visione unitaria del tutto. L’unità è la perfezione stessa, la condizione senza di cui non si dà scienza. Il metodo consiste allora in quelle regole «certe e facili» (regulae) atte a farci conseguire una conoscenza teoretica, un magistero e un processo «de toutes les choses que l’homme peut savoir, tant pour la conduite de sa vie que pour la conservation de sa santé e l’invention de toutes les artes (di tutte le cose che l’uomo può sapere sia per condurre la propria vita sia per conservarsi in salute e per l’invenzione di tutte le arti)»: così definisce la filosofia Cartesio nella Lettre di prefazione all’edizione francese dei Principes de Philosophie.
Ma da dove discendono quelle regole? E come si giustificano?
La critica della logica artistotelica e il rigetto della tradizione
a) La ragione è un bene comune a tutti gli uomini; come si spiega allora la diversità delle nostre opinioni? La causa bisogna cercarla nelle condizioni dell’uso della ragione, cioè nella differenza di metodo con cui i pensieri vengono ordinati e collegati, «poiché non basta la buona intelligenza; quel che più conta è di applicarla bene» (Discorso, I, 1).
b) Similmente, perché è sterile la scienza degli antichi? Non perché fossero sprovvisti di ragione, ma perché seguivano un metodo difettoso, quello sillogistico, che Cartesio identificava con la logica di Aristotele.
È un errore diffusissimo vedere nella logica classica soltanto la sillogistica; il giudizio di Cartesio tocca soltanto gli Analitici priori o, tutt’al più, i Topici ed i Sofistici, mentre nel quadro completo della logica aristotelica entrano anche quegli Analitici posteriori nei quali si tratta non più delle leggi del sillogismo, ma dei principi supremi che stanno alla base di ogni ragionamento e che costituiscono come il seme di tutto il sapere. Ma probabilmente la logica aristotelica studiata a La Flèche doveva essere la striminzita logica minor dei manuali della Scuola. Il sillogismo per Cartesio servirebbe piuttosto a spiegare agli altri le cose che già si sanno, o anche a parlare, senza discernimento, di quelle che si ignorano piuttosto che non ad impararle. Non mancano ottimi precetti, ma cavarli fuori è un’impresa simile a quella di trarre una Diana o una Minerva da un blocco di marmo non ancora sbozzato.
Ma la guerra contro la logica aristotelica non poteva fermarsi qui: il cozzo delle due logiche dipende dal cozzo delle metafisiche che le vivificano.
Il rimprovero che Cartesio rivolgeva agli scolastici di non prestare sufficiente attenzione ai problemi, tanto si sentivano sicuri delle loro soluzioni, e gli atti di accusa contro il loro logicismo abusivo e fittizio, il loro verbalismo illimitato che voleva coprire il difetto d’invenzione, l’oblio di ogni ricerca positiva sono fondati. Ma in coloro che pretendono esprimersi ad mentem divi Thomae (secondo il pensiero di san Tommaso) ciò che manca è precisamente lo spirito di quel Dottore, che aveva giudicato sempre l’argomento dell’autorità come il più debole e il meno sicuro. Né d’altra parte è lecito confondere le varie forme e degenerazioni della scolastica con il tomismo autentico di Tommaso, forse ignorato da Cartesio come da gran parte dei pensatori moderni. Dalla memoria è possibile trarre una storia (come aveva detto Bacone), una narrazione di cose udite e lette e conversare con quelli degli altri secoli è come viaggiare, ma alla fine il rischio è che si rimanga «stranieri al proprio paese».
Occorre invece una scienza che si giustifichi da sé, senza bisogno di sussidi esterni, nella certezza ed evidenza intrinseca dei suoi principi. E tale scienza deve essere opera di uno solo perché se è vero che i fatti si scoprono a poco a poco e per mezzo di una vasta collaborazione, un sistema, l’unità sistematica del tutto non può essere colta che da un solo genio: «Non vi è tanta perfezione nelle opere composte di parecchi pezzi e fatte dalle mani di diversi maestri, quanta in quelle lavorate da uno solo. Così si vede che gli edifici che un solo architetto ha iniziato e concluso sogliono essere più belli e meglio ordinati di quelli che molti hanno cercato di riadattare… È disagevole, non lavorando che sulle opere degli altri, fare cose perfette». E così per tutto il primo capitolo della seconda parte dei Discorso. E nel secondo capitolo, con apparente modestia, ci confessa il suo disegno: «Il mio disegno non si è mai esteso al di là di riformare sia i propri pensieri sia di costruire su di un fondamento tutto mio».
Il suo atteggiamento – nota Antonin-Dalmace Sertillanges – richiama quello del Rinascimento, in quanto esso ha di emancipatore a modo suo, ma è più radicale in quanto l’amore per l’antichità qui non c’entra per nulla. L’epoca voleva un rinnovamento radicale e Cartesio sentì in sé il coraggio di riprendere tutto dalla base con l’intento di coordinare gli apporti, con una severità e linearità di ricerca che, ispirandosi alle nuove discipline scolastiche, miravano a bandire ogni astrattismo verbalistico e a dominare il concreto.
Wilhelm Leibniz (Discorso di metafisica, XVII, nota) rivela la fiducia abituale di Cartesio «fondata sulla felice riuscita di qualche meditazione e sulle prove che aveva dell’acutezza del suo ingegno». L’impeto di questa intelligenza che si drizza da sola contro tutta una tradizione millenaria ha qualche cosa di titanico: Hegel lo noterà più tardi, e Pascal rimproverò a Cartesio la sua smisurata presunzione. Cartesio preferisce partire da zero in fisica come in filosofia, ma in quest’ultima tutto ciò è più pericoloso. «Gli inizi assoluti non esistono nel pensiero, come non esistono in natura; non appena vi si pretende, ci si mette in una posizione falsa con tutti gli inconvenienti del sì e del no, degl’imprestiti inconfessati, da cui non si trae ciò che contengono, e dei rifiuti che lasciano posto alle insufficienze dottrinali o all’errore» (Antonin-Dalmace Sertillanges). È così che Leibniz ha parlato dei «saccheggi del signor Descartes» e, nello stesso tempo, s’è potuto concludere con Henri Bergson, che le rassomiglianze e persino le riproduzioni letterali di questa o quella dottrina assumono in lui un significato essenzialmente diverso e, spesso, opposto a quello originario.
La deduzione intuitiva e la matematica universale
1- La matematica universale
L’ideale di una scienza universale, cognizione certa ed evidente che si giustifica da sé e che, superando l’idea tradizionale della diversità delle scienze, abbracciasse tutte le cose conoscibili in una perfetta unità specifica, occupò costantemente la mente di Cartesio. L’esempio di una «conoscenza certa ed evidente, che si giustifica da sé» è offerta solo dalle matematiche. A La Flèche – narra Cartesio nel Discorso (I, 6) – «mi dilettavo soprattutto nelle matematiche per la certezza e l’evidenza delle loro ragioni; ma non vedevo ancora il loro vero uso, e pensando che non servissero che alle arti meccaniche, mi stupivo che, essendo i loro fondamenti così saldi e così solidi, non si fosse edificato nulla di più alto su di esse».
Le matematiche muovono da principi certi ed evidenti e ne traggono conseguenze ugualmente certe con rigorosa deduzione e il sogno del 10 novembre 1619 era il sogno del trionfo universale della chiarezza matematica. Leonardo da Vinci aveva affermato che «nessuna investigazione umana si può chiamare scienza vera, se non passa per la dimostrazione matematica»: quest’intuizione geniale, avvalorata dagli sforzi di Galileo, diventa metodo, il metodo per Cartesio. L’albero del sapere, raffigurato da Cartesio nella prefazione alla edizione francese dei Principi della filosofia (le radici sono costituite dalla metafisica, il tronco dalla fisica, da cui si dipartono i rami della medicina, della meccanica e della morale) non riserba parte alcuna alla matematica, perché questa è l’anima, la linfa vitale di questo albero, cioè appunto il metodo e la logica, il ritmo interiore costruttivo di tutto il sapere. Respingendo la logica antica, Cartesio intendeva sostituirle una logica matematica, elevando le forme logiche proprie della matematica a forme del pensiero in generale, fino ad avere non solo una fisica, ma anche una metafisica ed una medicina matematicamente costrutte.
«Con questa iniziativa Cartesio invita l’umanità a prendere possesso del mondo e a sottometterlo con una potenza sino allora sconosciuta. Si osserverà forse che era pericoloso lanciare un tal movimento e provocare per la frenesia che vi apporta uno sbandamento spirituale, di cui l’umanità, che si pretende arricchita, sarebbe vittima; ma questa osservazione non vale che a vantaggio di un rafforzamento parallelo dei valori morali, essa non può autorizzare un rammarico per i progressi tecnici. Questi hanno il loro valore in sé, e, per di più, sono ottenuti per mezzo di ricerche, le quali non mancano di legami colle verità più alte della metafisica e della morale stessa» (Antonin-Dalmace Sertillanges).
Questo carattere positivo della rivoluzione cartesiana prese però, nella sua radicalità, una indebita estensione ed una esclusività nefasta. «Senza avvedersene, egli è l’einseitig dei tedeschi, cioè unilaterale, univisuale» (Jeanne Mercier). Voler costruire tutto su di un fondamento analogo, se non identico, è un grave errore, che depaupera la ricchezza del reale, dell’umano, come dimostrerà Vico. Il fenomeno, misurato e ridotto in formula quantitativa, è praticamente captato, ma non è per nulla spiegato. L’essenza intelligibile delle cose è ridotta alla loro legge costruttiva, espressa con figure geometriche, e queste con numeri; ci si disinteressa del concetto e di quanto esso contiene d’idealità per rivolgersi unicamente alla misura; si abbandonano la logica e la metafisica per la matematica.
2- Origine e valore delle matematiche
Non bisogna confondere, quando si discorre di Cartesio, la matematica che egli chiama «volgare» e la matematica a lui cara. Cartesio ha coscienza di rappresentare il «nuovo» sia con le sue scoperte (la geometria analitica costituisce una delle sue glorie più grandi, la riforma dell’algebra nella Diottrica, ha dato l’esempio di ciò che deve essere la fisica teorica), sia per la sua concezione della Mathesis universalis, della quale le antiche matematiche sono piuttosto «integumentum, quam partes (involucro, più che parti)», sia per la forma e il contenuto della sua geometria (che comprendeva tutti i rami delle matematiche). Egli ha vinto il triplice vizio delle matematiche del suo tempo: un vizio di limitazione (erano ristrette a pochi campi), un vizio di forma (erano complicate, oscure, confuse), un vizio di sostanza (erano astratte). L’astrattismo delle matematiche Cartesio credette di aver superato quando intuì la sua «fisica matematica», che alla ginnastica mentale degli antichi sostituiva la sua geometria, in cui le deduzioni riguardavano l’esteso, ossia la realtà materiale.
La concezione scientifica e metafisica di Cartesio spiega perché, nel suo sviluppo culturale, il metodo deduttivo sia divenuto da deduzione astratta «deduzione nell’esteso concreto e nella realtà fenomenica dell’idea».
Le idee chiare e distinte delle matematiche hanno un valore teoretico; non ci provengono dai sensi, ma precedono il dato sensibile; se ci provenissero dalla sensazione non sarebbero vere. «Cartesio è lo scienziato che, dietro alle teorie matematiche e ai fenomeni fisici, anela a cogliere il principio unico che regge le une e gli altri, e dal quale si possono dedurre tutte le conseguenze. Con un dono di divinazione meravigliosa – del quale spesso abusa cadendo in errori non lievi – Cartesio sale ad un principio, come ad una vetta da cui dominare con lo sguardo tutta la montagna» (Jacques Chevalier).
Di qui la sua differenza con Galileo. Galileo è un matematico che ha lo spirito portato verso le applicazioni della scienza, di cui pure coglie la connessione con la concezione del mondo e della vita: Cartesio qui è superato da Galileo, ma lo scopo della mentalità scientifica di Cartesio è diverso e più complesso. Egli pretende di costruire un sistema generale e completo che possa sostituire quello di Aristotele. Il suo Standtpunkt è quello della unità: per questo Cartesio ha sempre l’animus del filosofo anche quando parla come scienziato. Per capire Cartesio scienziato e filosofo e la sua originalità nell’uno e nell’altro campo bisogna comprendere in che cosa consiste il suo metodo deduttivo.
3- Il metodo deduttivo
L’idea che lo ha convinto di poter dominare tutto il sapere con un unico metodo matematico è quella dell’intuizione e della deduzione. L’intuizione «non è una fluttuante fede sensibile né un fallace giudizio di un’immaginazione disordinata, ma un concetto della mente pura ed attenta, così facile e così distinto, che non lasci luogo ad alcun dubbio sull’oggetto concepito» (così nella Regulae).
La deduzione è quell’operazione «per quam intelligimus illud omne quod ex quibusdam aliis certo cognitis necessario concluditur (con la quale comprendiamo tutto ciò cui inevitabilmente si arriva come conclusione, grazie ad alcuni altri elementi sicuramente conosciuti)» (op. cit.).
L’intuizione ci fa «vedere» e il suo oggetto sono le naturae purae et simplices, ossia quegli elementi indivisibili del pensiero da cui tutti gli altri possono dedursi. Per oggetti – o naturae – semplici Cartesio intende non solo essenze elementari come l’estensione, il moto, la figura, ma anche rapporti elementari come l’uguaglianza di due proporzioni quando sono uguali ad una terza.
La deduzione ci fa «concludere»; in essa si concepisce un «motus, sive successio quaedam (un movimento, cioè una forma di successione)», «non necessaria est praesens evidentia (non è necessaria una presenza evidente)», «a memoria suam certitudinem quodammodo mutuatur (riceve in cambio dalla memoria in un certo senso la sua certezza)».
Il loro rapporto non è tanto di successione quanto di reciproca implicanza e arricchimento. Il che risulta chiaramente nei quattro precetti del metodo.
Le Regole del metodo e il valore dell’esperienza
Primo precetto: l’evidenza è il primo criterio della verità. «Non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conosci con evidenza esser tale; evitare accuratamente la precipitazione e la prevenzione; non comprendere niente di più, nei miei giudizi, se non quello che si presentasse al mio spirito così chiaramente o distintamente, da non avere alcuna occasione di metterlo in dubbio».
Un’idea è chiara quando «è presente e manifesta ad uno spirito attento»; è distinta quando «è talmente precisa e differente da tutte le altre, che comprende in sé solo ciò che appare in modo manifesto a chi la considera debitamente».
La conoscenza può essere chiara senz’essere distinta (per esempio quando si avverte un forte dolore ma il giudizio è confuso o falso sulla natura di quel che si avverte nella parte lesa), ma può essere distinta, senz’essere chiara. Il segno da cui riconoscere un concetto chiaro e distinto è l’evidenza, l’immediata certificazione della sua verità.
L’evidenza come norma del sapere non è una caratteristica del sistema cartesiano, ma assume un suo particolare significato in esso. Gli scolastici negano una parentela tra la loro evidenza e l’evidenza cartesiana: se il concetto di essere ha un valore oggettivo e se lo stesso valore posseggono i principi metafisici che in esso si risolvono, noi usiamo leggi che sono insieme della conoscenza e dell’essere e queste ci danno non solo ciò che a noi appare vero, ma ciò che è vero.
Invece per Cartesio il giudizio ci dà la verità, quando un’idea appare all’intelletto con evidenza e siamo naturalmente portati a crederla: «non vi è nulla a ricercare di più; noi abbiamo, riguardo a ciò, tutta la certezza che si può ragionevolmente desiderare». Questa certezza non si può averla dalle cose oscure e confuse, non si può averla dalle cose percepite dai sensi.
Secondo precetto: l’analisi, metodo euristico per eccellenza. «Dividere ognuna delle difficoltà, che io esaminassi, in tante particelle quante fosse possibile e richiesto per meglio risolverle». Nelle risposte alle seconde obiezioni, Cartesio così precisava quale dovesse essere l’ordine della dimostrazione. «L’ordine consiste solamente in ciò, che le cose, che sono proposte le prime, debbono essere conosciute senza l’aiuto delle seguenti, e che le seguenti debbono essere disposte in tal modo che esse siano dimostrate dalle sole cose che precedono». «L’analisi mostra la vera via mediante la quale una cosa è stata scoperta e indica come gli effetti dipendano dalla causa… Per conto mio – commenta Cartesio nella risposta dinnanzi citata – io ho seguito solamente la via analitica nelle mie meditazioni, perché essa mi sembra la più vera e la più acconcia per insegnare e per pensare problemi metafisici, in cui la principale difficoltà è di concepire chiaramente e distintamente le prime nozioni, non in sé stesse, ma poiché sembra che esse non s’accordino con parecchi pregiudizi ricevuti per mezzo dei sensi e ai quali siamo abituati sin dall’infanzia».
Terzo precetto: la sintesi o azione organizzatrice e unificatrice del pensiero che ha percorso la via dell’analisi. «Condurre per ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per accedere a poco a poco, come per gradi, alla conoscenza dei più composti, ed anzi supponendo esservi dell’ordine tra quelli che non si precedono naturalmente gli uni gli altri». Processo inverso e complementare dell’analisi che ci permette di ricostruire il composto attraverso la luminosità unificatrice del pensiero. Ha, sull’analisi, pregi prevalentemente espositivi.
Quarto precetto: l’enumerazione o induzione. «Fare dappertutto delle enumerazioni così complete e delle revisioni così generali, da essere certo di nulla omettere». L’enumerazione nel Discorso (chiamata induzione nelle Regulae) consiste nell’utilizzare le varie e successive deduzioni in modo da giungere ad uno sguardo intuitivo del tutto: «illatio ex multis et disjunctis rebus collecta (una sintesi ottenuta da molti e variegati elementi)». Stadio preliminare della deduzione analitica, stadio finale della deduzione sintetica. «Nel contesto delle deduzioni non facilmente si ricorda tutto il cammino percorso e l’omissione di uno solo degli anelli può provocare la rottura di tutta la catena delle conseguenze e infirmare la certezza delle conclusioni. Per ovviare a questa infermità della memoria, bisogna venirle in aiuto con un certo movimento del pensiero, continuo e diligente».
Il metodo matematico e le unilateralità, anche in campo scientifico, di Cartesio gli hanno fatto ingiustamente attribuire un intollerante apriorismo, nemico dell’esperienza, e Voltaire lo accusava persino di aver fatto enormemente ritardare il progresso scientifico. Charles Renouvier, Louis Liard, Octave Hamelin, tra gli altri, hanno confutato questo pregiudizio. Nelle Regulae (V) Cartesio così deride coloro che trascurano l’esperienza: «…son come coloro che, neglectis scalae gradibus vogliono pervenire ad fastigium alicuius aedificii uno saltu». Così fanno anche quei filosofi che «neglectis experimentis, veritatem ex proprio cerebro, quasi Jovis Minervam, orituram putant (trascurando le verifiche, pensano che la verità nascerà dal loro cervello, come Minerva da quello di Giove)». Nell’ultima sezione del Discorso ci parla esplicitamente di esperienza, dopo aver constatato che la deduzione da sola non è sufficiente a raggiungere gli effetti particolari della natura. Un principio particolare nella sua generalità comprende sotto di sé una pluralità di effetti possibili e non può preventivamente indicare quale di essi in atto si realizza.
Occorre perciò un procedimento integrativo, sperimentale, che muova alla constatazione dei fatti nell’ambito dei principi. Rimane vero però che esperienza per Cartesio è tutto ciò che appare al pensiero e, fin quando si constata tale esperienza, tale apparire, non si ha né verità né falsità. È nella valutazione del contenuto dell’esperienza che cominciano i guai. Infatti v’è ciò che appare chiaro e distinto e ciò che è confuso e bisogna spiegar questo con quello: tentativo spesso quanto mai arduo.
L’aporia del doppio inizio della scienza
Cartesio esplicitamente afferma che la metafisica ha preceduto la fisica nell’ordine genetico del pensiero, apprestando a questa i principi fondamentali.
Per Louis Liard, invece, la precedenza spetta alla fisica anche se Cartesio era «tendenzialmente metafisico». Louis Liard ha creduto di poter fondare la sua tesi su dati cronologici sicuri, facendo risalire l’interessamento di Cartesio per la metafisica al 1629. Octave Hamelin ha ricordato come le opere sistematiche di fisica Cartesio le abbia composte dopo il Discorso e le Meditazioni; Cartesio s’interessò prevalentemente di fisica sino al 1629, ma la ricerca del metodo aveva già un intento ed un valore metafisico.
L’elaborazione formale della metafisica fu preceduta dall’interessamento per la fisica, ma questa e la ricerca del metodo contenevano già implicitamente una metafisica, che si venne poi gradualmente esplicando. Ma le ricerche sullo stato psicologico di Cartesio e la genesi storica della sua speculazione non servono a valutare lo spirito animatore del sistema
In qual modo Cartesio unì la fisica alla metafisica? Nella filosofia classica la scienza indagava le cause prossime, la metafisica le cause ultime: in essa la metafisica – scrisse Lucien Laberthonnière – si presentava come il coronamento e il superamento della fisica, la quale del resto aveva uno scopo essenzialmente teoretico e non pratico («conoscenza contemplativa della natura nella stabilità della sua forma»). In Cartesio, invece, è la fisica che perfeziona e corona la metafisica e che ne assicura le basi. La fisica poi non ha uno scopo teoretico, ma quello di dominare i fenomeni, al servizio dell’uomo.
Se il metodo matematico ora descritto è valido, a che il dubbio e il cogito? L’aporia del doppio incominciamento non fu avvertita da Cartesio. In linea di fatto Cartesio intraprende il suo lavoro scientifico affidandosi alle regole del metodo, ma ne avverte il bisogno di una giustificazione razionale in profondità che consenta di veder le radici della fisica stessa nella metafisica. L’aporia del doppio inizio della scienza si chiarisce così come un circolo in cui, geneticamente, il metodo prepara e orienta la ricerca ma viene confermato solo dai risultati di questa, come il fine segue il mezzo, ma è logicamente prima di questo.
IL DUBBIO E IL COGITO
Il procedimento del dubbio
Siamo nell’aula del tribunale. L’accusatore è il dubbio. Cartesio, il giudice, è persuaso che per colpire i rei (opinioni mal sicure o erronee) non è necessario provare che sono tutte false; il che richiederebbe un lavoro infinito. «Ma poiché la ruina delle fondamenta trascina necessariamente con sé tutto il resto dell’edificio, io attaccherò dapprima i principi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano appoggiate».
Si inizia così il processo. I primi imputati sono i sensi. «Qualche volta ho provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai di quelli che ci hanno una volta ingannati».
I sensi si difendono affermando che alcuni dati sono però sicuri. Cartesio: «Sì, ma non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi, per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno. Ed il mio stupore è tale che quasi sarei capace di persuadermi che io dormo».
Si avanzano gli altri imputati: la fisica, l’anatomia, la medicina e tutte le altre scienze che dipendono dalla considerazione delle cose composte, dubbie, incerte. Si avanzano anche la matematica, la geometria e altre scienze di questo genere: esse trattano cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo pensiero se esistano o no in realtà. Ma esse contengono qualcosa di certo e di indubitabile. Infatti, sia che io vegli sia che dorma, tre più due è sempre uguale a cinque. Il giudice è grande amico di questi… imputati.
Tuttavia osserva: «È da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione: se v’è un Dio onnipotente che mi ha creato così come sono nessuno mi assicura che Egli abbia fatto in modo che non vi siano né cielo né terra e che tuttavia io abbia i sentimenti di queste cose? O che ogni cosa sia ma in maniera diversa da come io la vedo? E come io giudico che qualche volta gli altri s’ingannano, anche nelle cose che credono di sapere con la massima certezza, può darsi che Egli abbia voluto ch’io mi inganni tutte le volte che addiziono due più tre. Che se poi si vorrà supporre che l’uomo non proceda dall’Onnipotente, ma o da se stesso o da qualsivoglia altra causa, a maggior ragione si dovrà ammettere la possibilità che l’uomo viva in uno stato di continuo inganno, perché tanto meno l’uomo è perfetto, quanto meno è potente l’autore della natura umana» (il sospetto di un Dieu trompeur).
Ma Cartesio, volendo raggiungere la certezza metafisica, fa un’altra ipotesi: «Io suppongo che vi è, non già un vero Dio, ma un certo cattivo genio (malin génie), non meno astuto e ingannatore che possente, che ha impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi» (dubbio iperbolico).
Il dubbio cartesiano non è scettico ma metodico. Il dubbio è una tattica che giova contro gli empiristi e contro gli scettici. Il dubbio è una tattica utile anche per il proprio sistema filosofico. Essa serve a «far vedere quanto sono ferme e sicure le verità che io propongo in seguito, poiché non possono essere scosse da dubbi così generali e così straordinari».
Per Louis Liard e Victor Brochard si tratta di dubbio reale, ma solo metodico. Jeanne Mercier: è un dubbio vero che spinge lo scetticismo più a fondo di quello che qualsiasi scettico abbia mai pensato di fare. La confutazione dello scetticismo risulta dall’esaurirsi stesso dello scetticismo (Octave Hamelin). Invece per Étienne Gilson si tratta di un dubbio scettico per ciò che è realmente dubbio, dubbio metodico per ciò di cui si concepisce la possibilità astratta di dubitare.
Le interpretazioni divergono anche sull’estensione del dubbio.
Le origini storiche, il significato e le interpretazioni del cogito
Il richiamo ai passi del cogito di Agostino (De libero arbitrio, II, c.3, n.7; De civitate Dei, XI, c.26; Soliloquia, II, c.1; De Trinitate, X, c.19), che per primo l’ha teorizzato, rimarcato da padre Mersenne e da Antonio Arnauld, non devono farci dimenticare il diverso peso teoretico che ha in Cartesio. Chi fa di Cartesio un platonico agostiniano vede nel cogito un’affermazione realistica. Infatti in polemica con gli scettici Agostino aveva notato che si fallor sum, se m’inganno sono. Il dubbio è una forma del pensiero e il pensiero non è concepibile fuori dell’essere, che pertanto viene ribadito dallo stesso dubbio in atto.
Già Pascal aveva difeso l’originalità di Cartesio «… quand’anche l’avesse preso solo dalla lettura di quel grande Santo; poiché so quanta differenza vi sia tra lo scrivere una parola a caso… e lo scorgere in questa parola un seguito mirabile di conseguenze». C’è tuttavia qualche cosa da ridire sulle osservazioni di Pascal. Agostino non ha scritto quella parola (il cogito) per caso, senza farvi una riflessione più lunga e più estesa, dal momento che fonda su questo principio tutta la sua lotta contro gli scettici, la sua teoria della spiritualità dell’anima e dell’essenza di Dio.
Étienne Gilson dichiara impossibile provare una conoscenza diretta di Agostino da parte di Cartesio, il quale pure è tributario almeno della tradizione agostiniana, ma con una marcata originalità.
Da Bertrando Spaventa a Francesco Fiorentino si è messo in evidenza l’affinità di espressioni e passi di Cartesio con Campanella; ma anche qui la metafisica che sottende i due sistemi è totalmente diversa.
Nell’interpretazione idealistica di Hegel, Cartesio concepì il pensare come intelletto astratto (Verstand), ma in lui c’era una grande idea che è il germe dell’idealismo, e cioè che occorre partire dal pensiero, nulla presupponendo ad esso. Il dubbio cartesiano esprime la conquista della soggettività anche se Cartesio tende ad una oggettività irriducibile ad una soggettività pura.
Per Paul Natorp Cartesio è un idealista, perché si propone di scoprire il centro della conoscenza in una legge primordiale della conoscenza stessa: è qui il legame di parentela con Kant.
Ernst Cassirer ritiene che la novità di Cartesio sia data dal fatto che tutto viene costruito dal pensiero col metodo che si vede chiarissimamente nella matematica pura. L’esistere stesso di Dio coincide con l’Idea perfettamente pensata dall’io.
Per Octave Hamelin, Cartesio è il fondatore autentico dell’idealismo moderno, anche se rimane purtroppo imprigionato da abitudini realiste malgrado l’eroismo del suo dubbio. È molto indietro a Kant perché si chiede se oggetti fenomenici abbiano un’altra realtà oltre l’empirica, ma va più lontano del grande filosofo di Königsberg poiché si domanda se vi sono delle cose in sé.
Secondo León Brunschwicg con Cartesio l’umanesimo della scienza discende di nuovo sulla terra dopo Platone, sormontando venti secoli di obbrobrio per la ragione. Nel mio io, res cogitans, v’è un pensiero che non è individuale come l’io; v’è una cogitatio universa, «e questo fatto attesta l’esistenza di una realtà immediatamente e interiormente presente che si caratterizza per la disproporzione con l’imperfetto e il finito della mia individualità».
Anche per Maurice Blanchet, Émile-François-Désiré Bréhier e Charles Adam con il cogito inizia la filosofia moderna; il «dunque sono» complica la filosofia idealista d’una questione oziosa e insolubile, quella dell’esistenza.
Giovanni Gentile ritiene che il pensiero di Cartesio sia unità di pensare ed essere (io e non io), ma non in rapporto dialettico (il cogito è semplice assioma), il cui motivo profondo è quello della soggettività risolutrice dell’antinomia degli universali poiché la concretezza dell’io che pensa coincide con l’universalità del pensiero. La differenza tra Platone e Cartesio è in ciò: il primo muove dalle idee come mondo intelligibile, il secondo dall’idea come attività intelligente; il primo esprime nei termini della matematica le qualità, il secondo la quantità che rende possibile l’intellettualizzazione della realtà alla stregua del più puro meccanicismo.
Infine secondo Guido De Ruggiero il cogito esprime non un atto intellettuale circoscritto, ma la forma generica dell’avvertire, la coscienza. Il significato idealista del cartesianesimo sta appunto nell’aver dimostrato la presenza dell’io cosciente e dell’appercezione in ogni atto conoscitivo. Il cogito è la prima certezza dell’idealismo moderno.
I passi in cui Cartesio parla del cogito sono: Discorso, IV; Seconda Meditazione; Principi, par.7.
Lo schema dell’argomentazione è il seguente: io dubito; ma ciò che mi permette di dubitare non mi permetterà anche di affermare? Sì. Perché? Perché dubitare è pensare e affermare il dubbio è affermare anche il pensiero. «Penso, dunque sono».
Si tratta della prima tra le idee chiare e distinte, alle quali ci si deve affidare per pensare correttamente; e questa idea è privilegiata in quanto s’impone anche nella supposizione dell’errore, dell’illusione, del dubbio. «Avendo notato – scrive Cartesio nel Discorso sul metodo – che non vi è niente in questa affermazione io penso, dunque sono che mi assicuri che io dica la verità, se non che vedo chiarissimamente che per pensare bisogna esistere: giudicai di poter prendere per regola generale che le cose che concepiamo molto chiaramente e distintamente sono tutte vere».
Il cogito è il punto di partenza. Non si sa, prima di ogni riflessione, se qualche cosa esista, né ciò che valga il pensiero, artefice della conoscenza. Bisogna dunque retrocedere sino a quel punto d’arresto inevitabile che è il dubbio stesso considerato come pensiero. Io dubito, dunque penso; cogito, ergo sum!
Il cogito non è pura forma, non è la soggettività pura dell’idealismo trascendente, ma ha un contenuto: il contenuto solo ed esclusivo dell’essere del pensiero.
Le obiezioni che furono mosse al cogito
Il pensiero e la realtà metafisica dell’idea
«Per pensiero – afferma Cartesio nei Principi – intendo tutto ciò che avviene in noi non essendo noi consapevoli, tutto ciò che avviene entro i confini della coscienza. Non solo l’intendere, il volere, l’immaginazione, ma anche il sentire sono quindi pensiero». Nell’anima nostra troviamo fatti psichici caratterizzati dalla nota dell’attività e altri che presentano la nota della passività. L’anima è attiva per la sua volontà, passiva per la sua conoscenza, considerata sotto tutte le sue forme (sensazioni, immagini, ricordi, idee).
Il senso ha il valore di una percezione utilitaria; se mancassimo di essa la nostra azione sarebbe impedita e morremmo. E se è vero che è l’anima che sente e che sentire è pensare, tuttavia io sarei ugualmente un essere pensante anche se non sentissi, di modo che la sensazione non entra a costituire essenzialmente lo spirito. L’anima – per Cartesio – è l’organo che sente, perché quando è immersa in una intensa contemplazione tutto il corpo dimora senza sentimento, anche se ha diversi oggetti che lo toccano. Né a conoscere giovano in maniera essenziale l’immaginazione (cioè applicare il pensiero a figure materiali tracciate nell’organismo ovvero disegnare con la forza del pensiero tali immagini) o la memoria (che nella sua parte meccanica si identifica con l’immaginazione passiva e, in quanto memoria intellettuale, si esercita sempre sul dato delle immagini stesse).
Bisogna rifugiarsi nell’intelletto: lì solo troviamo, non adulterate dai sensi quelle «choses réelles (cose reali)» che precedono il senso, l’immaginazione e la memoria: le idee chiare e distinte. Tra l’essere e il nulla c’è ciò che appare nel pensiero con chiarezza e distinzione, realtà sui generis, fonte di ogni verità e di ogni certezza ulteriore.
L’être obiectif di Cartesio nella definizione corrisponde all’ens rationis degli scolastici, ente che esiste oggettivamente nell’intelletto. Mentre l’ens rationis degli scolastici in senso stretto è costituito da certe relazioni le quali fuori della mente non sono nulla ancorché abbiano il loro fondamento nella realtà, e in senso largo è tutto l’essere in quanto pensato, in Cartesio (e soprattutto nella filosofia moderna) viene a costituire la nuova realtà fenomenica dell’idea.
Oltre questa realtà Cartesio riteneva esistessero Dio e il mondo, e tutta la sua filosofia sarà la descrizione del dramma di un pensatore che trasporta sul piano del suo fenomenismo razionalistico i problemi della metafisica realista.
Restando realistico d’intenzione, continuando cioè a guardare il mondo dell’esistenza e del tempo come il mondo reale, e avendo ciononostante una concezione puramente essenzialista del pensiero, Cartesio era costretto a ripiegare nel solo pensiero, nel mondo delle idee-essenze, che diventano in lui, in quanto oggetti immediatamente raggiunti dalla percezione intellettuale, essenze rappresentate.
E dal fatto che per lui il mondo delle idee ha una sua consistenza ontologica, ma non è tutto il reale, è costretto – per passare al mondo reale e condurre a buon fine l’opus philosophicum – a compiere colpi di forza esistenziali (Jacques Maritain) che né Platone (perché s’allontanava dall’esistenza) né Tommaso (perché ordinava l’intelletto all’esse stesso e non alle sole essenze) avevano conosciuto.
Le idee di Cartesio sono essenze rappresentate, ritratti di essenze che nella terza Meditazione Cartesio chiama idee-quadri: «Le idee sono in me come quadri o immagini che possono scadere dalla perfezione delle cose da cui sono state ricavate, ma che non possono mai contenere nulla di più grande o di più perfetto». L’idea non è più id quo, quello attraverso cui il pensiero raggiunge un oggetto reale interiorizzato dall’atto del conoscere, ma id quod, ciò che il pensiero raggiunge immediatamente, un oggetto intramentale separato dal reale. Queste essenze rappresentate, le idee quadri che il pensiero trova nel suo seno si definiscono perciò come idee innate. Il conoscere si identifica allora con il condurre alla chiara coscienza il sacro deposito.
«Cartesio, pur non sopprimendo affatto il reale – umano, naturale e divino – lo restituiva tuttavia sotto un altro segno e apriva un modo tutto diverso di considerarlo» (Romeo Crippa).
Le idee innate
Quando si tratta dell’essenza, se io dovessi toglierle qualche cosa non avrei più la stessa cosa. Ora, il mio io, se non avesse la facoltà di sentire e di immaginare, rimarrebbe ugualmente: c’è solo il pensiero che mi appartiene in modo che la sua mancanza non mi permetterebbe più di affermare il mio io. «Il pensiero solo non può essere distaccato da me, onde io esisto per tanto tempo per quanto penso».
Lo spirito è, se pensa; e se pensa, è. Il pensiero si identifica con l’anima. Non c’è più un essere che può pensare e può anche non pensare (ad esempio quando dorme), un essere la cui attività non è sempre in atto.
Se la nuova realtà è l’idea, nel pensare l’idea consiste la natura dello spirito e lo spirito pensa sempre. Guai se l’anima per un istante non pensasse: cesserebbe ipso facto di esistere. L’anima umana pensa sempre anche nel seno della madre: appena congiunta al corpo, essa è occupata a percepire e a sentire confusamente le sole idee di dolore, caldo, freddo, solletico e altre simili che nascono dalla sua mescolanza con quel corpo. E tuttavia ha in sé l’idea di Dio, di se stessa e di tutte quelle verità che sono dette conosciute per se stesse, come gli uomini adulti le hanno quando non vi fanno attenzione, poiché non è in seguito con l’età che egli le acquista. L’innatismo è logicamente richiesto da tutta l’ontologia cartesiana.
Pierre Gassendi, pur partendo da diversi presupposti, previene la critica cartesiana di Vico, unitamente agli autori delle seconde obiezioni: conoscere di essere una cosa che pensa non significa sapere che cosa mai è questa cosa che pensa. Si ha la coscienza, ma non la scienza dell’io. Il cogito, puntualizzato nel «che», nell’atto, non può dar ragione del «che cos’è». L’obiezione, acutissima in sé, nel suo valore critico, è valida solo quando si è identificato e superato l’equivoco di base che ispira il fenomenismo razionalista della filosofia cartesiana, il concetto cartesiano di ens e di idea. Cartesio, dal suo punto di vista, risponde invocando le idee innate, facendo un ricco inventario della res cogitans.
Guardando alle idee come a puri fenomeni intelligibili, Cartesio le ha divise in: fattizie (a me ipso factae), finzioni ed invenzioni del mio spirito, quali ad esempio le sirene e le chimere; avventizie, mere inferenze, entità mentali rappresentative dell’oggetto che è fuori dell’io (ad esempio se odo qualche suono, se sento caldo giudico queste sensazioni come provenienti da realtà poste fuori di me). Queste due classi ci danno la molteplicità e di conseguenza non ci conducono alla certezza. Noi tendiamo all’unificazione anche delle idee fattizie e avventizie, formando i cosiddetti universali, ma essi non sono se non nomi che usiamo per pensare tutti gli oggetti simili. Però, per sé, l’universale è un’idea singolare e combacia con l’individuo: l’individuo Socrate è l’universale uomo.
Ma le più importanti sono le idee innate (universali, necessarie, perfette, unificatrici del molteplice): esse costituiscono il fondo e la struttura della sostanza pensante. Psicologicamente l’innatismo di Cartesio è virtuale, in qualche modo, non escludendo il processo acquisitivo delle conoscenze. Il suo significato proprio è invece metafisico. Infatti, se la realtà del nostro spirito è concepita fenomenisticamente, le idee innate sono come la materia costitutiva dell’anima, la cui esistenza senza di esse cadrebbe nell’assurdo. I sensi sono tutt’al più un’occasione per pensare l’una o l’altra cosa.
L’enumerazione delle idee primarie fu tentata a più riprese, ma mancava un sicuro criterio di discriminazione. Tra le nozioni comuni e indubitabili Cartesio pone le idee dei numeri e delle figure, le idee dei rapporti (come quello dell’uguaglianza), l’idea di Dio (così nei Principi); da notare ancora le idee di estensione, movimento, durata, ordine, idee intellettuali che non sono nulla fuori dal pensiero, idee di cose che hanno esistenza in sé e, perfino, l’idea del rapporto necessario tra l’anima e il corpo.
Cartesio giustamente vide nel sensismo il grande ostacolo alla visione metafisica delle cose; in realtà il suo innatismo, in alcuni passaggi attenuato, ma normalmente esasperato, si riduce ancora ad una forma di empirismo perché si limita a contrapporre ad un fenomenismo sensistico un fenomenismo ideistico.
DIO E LA RELIGIONE
L’idea cartesiana di sostanza e di Dio e le tre prove dell’esistenza di Dio
Non è dubbio che si pensi; può sempre essere dubbio che si pensi giusto se non si raggiunge un supremo criterio di verità. Dio è per Cartesio una evidenza immediata non bisognosa di dimostrazione; ma il funzionamento dello spirito, per essere garantito in tutti i suoi passi, nei suoi ricordi, nelle sue complesse costruzioni, ha bisogno di sicurezza. È prezioso trovare in Dio «riconosciuto» la giustificazione sistematica delle verità che ce l’hanno fatto riconoscere.
Ma chi è Dio per Cartesio? È l’Ipsum esse subsistens della filosofia cristiana? Cartesio non parla di sostanza divina, il Dio cartesiano è «une chose qui pense (una cosa che pensa)», «une première Idée (una prima idea)» nella quale «sia contenuta formalmente e di fatto tutta la realtà o perfezione che si trova solo oggettivamente o per rappresentazione nelle altre idee».
Dio è «sostanza perfetta», ma in un senso tutto cartesiano. Poiché Cartesio definisce la sostanza «id quod ita existit, ut nulla alia re indiget ad existendum (ciò che esiste con caratteristiche tali, da non aver bisogno di null’altro per esistere)», Dio è sostanza perfetta in quanto, essendo Idea prima, non ha bisogno di essere spiegata o causata dalle altre; ma il suo essere non consiste in altro se non nell’Idea che appare a se stessa in una chiarezza, in una completezza assoluta e totale. Noi però concepiamo l’infinita perfezione di questa idea innata senza comprenderla. Cartesio insiste nel chiarire questo punto: l’idea che noi abbiamo di Dio è chiara e distinta, ma incompleta. Le prove cartesiane sono tratte dall’idea del perfetto, ma con presentazioni e sfumature diverse. L’idea di Dio è evidente, chiara e distinta sebbene incompleta: la dimostrazione è necessaria solo per dare al pensiero la garanzia suprema della validità del conoscere. Cartesio crede sinceramente di essere il primo che abbia davvero provato l’esistenza di Dio (vedi la risposta a p. Bourdin); si può concedergli che sia stato il primo a dimostrarla in funzione del fenomenismo razionalistico.
1- Prima prova: l’idea di perfetto, considerata nella sua origine
Noi, che siamo imperfetti, abbiamo l’idea del perfetto; di dove viene questa idea? Le occorre una causa proporzionata a ciò che essa è (non nella sua realtà psicologica, che è finita ed imperfetta, ma in ciò che essa rappresenta). Poiché il contenuto dell’idea cresce con le perfezioni dei suoi oggetti, possiamo render conto dell’idea del perfetto, ricorrendo ad un essere che abbia in sé tanta perfezione, quanto l’idea che in noi lo rappresenta.
Il principio della causalità è qui invocato come suscettibile di un’applicazione trascendente; ciò che Alberto Magno e Kant contestano. Per la scolastica «causare» significa «dare l’essere», ed «effetto» sta per «ricevere l’essere». Cartesio trasforma l’antico argomento della causalità, il quale si basava sull’essere che, in quanto diviene, non ha la spiegazione del suo essere, e ricerca la causa di un’essenza «obiectiva», avente una sua realtà oggettiva intramentale. Cartesio va dal fenomeno dell’idea, mediante le leggi dell’idea, alla prima idea. La scolastica va dall’essere, mediante le leggi dell’essere, all’essere super-essenziale. Per la scolastica Dio non è causa di sé perchè non riceve l’essere neppure da se stesso: è l’Essere e lo ha; per Cartesio può diventare causa sui.
2- Seconda prova: l’idea del perfetto, considerata in rapporto a noi
«Voglio considerare se io stesso, che ho quest’idea di Dio, potrei esistere nel caso che non ci fosse Dio. Non sarebbe possibile che io fossi quale sono – cioè che avessi in me l’idea di Dio – se Dio non esistesse veramente. Non è causa di se stesso chi può pensare causa più perfetta di sé, perché se fosse causa di se stesso avrebbe dato a sé tutte le perfezioni di cui ha l’idea». La mia sufficienza a causarmi, farebbe la mia sufficienza a perfezionarmi. Se potessi farmi da me, mi farei perfetto: invece io sono, ma sono imperfetto; dunque, c’è un qualche altro che mi ha fatto: e quest’altro è Dio.
3- Terza prova: l’idea del perfetto, considerata in sé
È la cosiddetta prova ontologica. Cartesio ne parla nel Discorso, parte IV, nelle Meditazioni e nei Principi di filosofia. Il ragionamento è il seguente: in noi vi è l’idea del perfetto; a questa idea è congiunta quella dell’esistenza reale, non meno di quanto l’idea di una valle è congiunta a quella di una montagna, o l’idea di un triangolo a quella dell’eguaglianza dei suoi tre angoli alla somma di due retti; dunque Dio esiste tanto certamente quanto sono certe le verità geometriche e tutte le evidenze dello stesso genere.
Nella Va Meditazione Cartesio commenta: «Ma benché io non possa concepire Dio senza esistenza non più che una montagna senza vallata, tuttavia, come dal solo fatto che concepisco una montagna con una vallata non ne segue che vi sia una qualche montagna nel mondo, così anche, sebbene io concepisca Dio con l’esistenza, sembra che non segua, per questo, che ve ne sia qualcuno che esista. Viceversa, è qui che vi è un sofisma: poiché dal fatto che io non posso concepire una montagna senza vallata ne segue solamente che la montagna e la vallata, sia che esistano sia che non esistano, non si possono in alcun modo separare; mentre dal solo fatto che io non posso concepire Dio senza esistenza, segue che l’esistenza è inseparabile da lui. Non già che il mio pensiero possa fare che la cosa vada così, ma è la necessità dell’esistenza di Dio, che determina il mio pensiero a concepirlo in tal maniera».
Johan de Kater, l’autore delle prime obiezioni, invita Cartesio a prendere atto che l’argomento risaliva ad Anselmo e che era stato confutato da Tommaso.
Cartesio si dichiara d’accordo con Tommaso nel condannare ogni indebito salto dall’ordine logico a quello ontologico e ricorda che tutto discende dalla sua teoria delle idee. E critica anch’egli Anselmo, che gli sembra essersi appoggiato unicamente sul senso della parola Dio (come un essere tale che non si possa concepire di più grande), mentre «ciò che è significato di una parola non sembra per questo essere vero». «Io non argomento – afferma Cartesio – sul significato della parola Dio, ma sulla sua idea» pensata con chiarezza e distinzione, sulla realtà della sua idea in me.
Quali che siano le insanabili contraddizioni della prova cartesiana dell’esistenza di Dio, un’ispirazione cristiana pure la sorregge: Descartes ha la sua interpretazione personale del signatum est super nos lumen vultus tui, Domine (è impressa su di noi la luce del tuo volto, o Signore) e vi si riferisce appunto per collocare nella luce divina l’origine della nostra idea dell’infinito, questa idea che per Cartesio «è come la marca dell’artigiano impressa sulla sua opera» (Meditazioni filosofiche). «Dunque, analizzando la coscienza, Cartesio si imbatte in un’idea che è in noi ma non da noi, ma che però ci permea profondamente, come il sigillo dell’artefice sul suo manufatto. Ora, se questo è vero, e se è vero che è Dio, perché sommamente perfetto, è anche sommamente verace e immutabile, non dobbiamo allor avere immensa fiducia in noi, nelle nostre facoltà, che sono tutte opere sue? E così la dipendenza dell’uomo da Dio, non porta Cartesio alle conclusioni cui erano pervenute la metafisica e la teologia tradizionale, e cioè al primato di Dio e al valore normativo dei suoi precetti e di quanto rilevato nella Scrittura. L’idea di Dio in noi, come la marca dell’artigiano sulla sua opera, è utilizzata per difendere la positività della realtà umana e, sotto il profilo delle potenze conoscitive, la loro naturale capacità di conoscere il vero e, per quanto concerne il mondo, l’immutabilità delle sue leggi… Così quel Dio, nel cui nome si tentava di bloccare l’espansione del nuovo pensiero scientifico, appare qui come colui che, garantendo le capacità conoscitive delle nostre facoltà, sprona a tale impresa» (Giovanni Reale, Dante Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi).
Jacques Maritain osserva che, dopo il cogito, la prova ontologica è un secondo colpo di forza esistenziale. Si tratta evidentemente di una essenza che esige l’esistenza di un’idea, il cui contenuto è tale che obbliga lo spirito ad affermarne l’esistenza. Jacques Maritain ritiene che questa idea mascheri l’autoaffermazione di un Dio onnipotente esistente «per sua forza propria», per la causalità infinita di se stesso (causa sui). Ma si è ben lontani dall’idea di una causa efficiente, di una esistenza pura, senza essenza; quale sarà, dopo due secoli, il Dio dell’idealismo: un Io puro e senza volto che si pone per la sua propria volontà, ponendo il divenire. L’interpretazione di Jacques Maritain si rifà alle obiezioni mosse da Johan de Kater e da Antonio Arnauld alla definizione di Dio come «causa sui positiva».
Il criterio di certezza e il circolo vizioso
Sia nel Discorso (parte IV) come nelle Meditazioni (III), dopo aver enunciato un primo criterio di verità e certezza (l’idea in quanto è chiara e distinta) ci offre un secondo criterio (Dio in quanto perfetto e infinito). Per affermare Dio occorre la verità e la certezza dell’idea chiara e distinta; per affermare la piena validità di quest’ultima occorre Dio. L’accusa di «circolo vizioso» viene subito mossa a Cartesio dai teologi e filosofi delle seconde obiezioni e da Antonio Arnauld: che un ateo conosca come la somma dei tre angoli di un triangolo equivalga a due retti, da questa verità chiara e distinta non deriva che debba credere all’esistenza di Dio o che abbia bisogno di Dio per accertarla.
Per Cartesio vi è una distinzione tra una proposizione certa e vera, colta «par un simple inspection de l’ésprit (per mezzo di una semplice indagine dello spirito)» come il cogito, e «la certitude et la verité de toute science (la certezza e le verità di tutta la scienza)», ossia cogliere l’unità sistematica, che è l’elemento essenziale della scienza. Quando dello stesso cogito voglio avere una conoscenza perfetta, che mi spieghi la sua origine e il suo valore in funzione del tutto, non posso fare a meno di partire da Dio. Cartesio fa una seconda distinzione tra il momento della conoscenza attuale, in cui vedo con lo sguardo dello spirito la verità dell’idea che allora penso, e la memoria di aver un giorno visto con chiarezza e distinzione un’idea: ora la memoria delle conclusioni ci può ritornare in mente quando non pensiamo più alle ragioni donde le abbiamo tratte. Ma – afferma Cartesio – dopo aver riconosciuto che vi è un Dio e, in seguito di ciò, ho giudicato che tutto quel ch’io concepisco chiaramente e distintamente non può non essere vero, non mi si può portare più nessuna ragione contraria che me lo faccia revocare in dubbio. Un ateo può certamente conoscere che i tre angoli di triangolo sono pari a due angoli retti, ma egli non concepisce ciò in base ad una vera e certa scienza, poiché ogni conoscenza che può essere resa dubbia non dev’essere chiamata scienza.
Nell’Entretien avec Burman e nelle Meditazioni Cartesio afferma: «Cognitio finis non inducit nos in cognitionem ipsius rei. Et hoc est Aristotelis maximum vitium, quod semper a fine argumentatur (La conoscenza del fine non ci porta alla conoscenza della cosa in sé. E questo è il più grande errore di Aristotele, perché costruisce le sue argomentazioni sempre partendo dal fine)». «Omnes Dei fines nos latent et temerarium est in eos involare velle (Tutti i fini di Dio ci sono sconosciuti, ed è temerario voler prenderne possesso)». Dio è infinito ed inattingibili sono per noi i suoi fini, onde è nostro dovere riferire alla causa efficiente quello che si è soliti attribuire alla causa finale.
Quanto a noi: «non è in nessun caso verosimile che tutte le cose siano state fatte per noi in tal modo, che Dio non abbia avuto alcun altro fine creandole».
Wilhelm Leibniz, Étienne Gilson, Lucien Laberthonnière sostengono che sia impossibile parlare di finalismo in Dio così come era pensato dalla metafisica dell’essere. Per Leibniz il ritenere di aver tutto spiegato col movimento e con le sue leggi può far sorgere l’idea che la materia basti a se stessa e che non ci sia bisogno di Dio. Secondo Gilson, mediante il rifiuto a distinguere in Dio l’intelletto dalla volontà, Cartesio volle distruggere sino nella volontà di Dio, cioè nella sua stessa radice, la finalità. Laberthonnière non esita a dire che «eliminando il problema dei fini Cartesio, nel medesimo istante, aveva eliminato il problema morale».
Maurice De Wulf e Lucien Lévy-Bruhl, invece, ritengono che Cartesio non negava che Dio abbia dei fini, ma solo asseriva l’inutilità per noi di indagarli per l’impenetrabilità dei disegni divini.
Come spiegare la posizione cartesiana? Per Cartesio le idee non ci offrono le leggi dell’essere, ma ciò che appare al nostro pensiero: esse sono quelle che sono per volere di Dio e potrebbero essere diverse ed opposte. Il suo fenomenismo non aveva bisogno di negare Dio e i suoi imprescrutabili segreti, essendo Dio esigito dal suo sistema, almeno per spiegare il movimento (la «spintarella» di Pascal!). La finalità, riconosciuta nella preordinazione delle due res per spiegare ogni loro rapporto, invocata per dare ragione delle parti e della loro disposizione, è però dichiarata irraggiungibile a causa dell’infinità di Dio e dell’infinita complessità dell’universo.
La religione
Numerose e contrastanti sono le interpretazioni del rapporto tra la religione e Cartesio: Adrien Baillet nella biografia mette in rilievo la pietà dell’uomo Descartes, Alfred Espinas ne fa l’apologista della chiesa contro libertinismo e scetticismo, mentre Henri Gouhier annacqua le tesi di Alfred Espinas. Gioberti vede in Cartesio un cattolico per tradizione e per paura e nella sua filosofia un’intrinseca incompatibilità con il cristianesimo; Pascal accusa Cartesio di aver voluto fare a meno di Dio ma non d’esserci riuscito, mentre Maxime Leroy si permette di chiamarlo «il filosofo della maschera» con un’insinuazione odiosa.
Lo sviluppo logico del sistema di Cartesio è in Spinoza; di fatto era un credente e ciò dovette suggerirgli il problema delle relazioni tra la filosofia e la religione rivelata. Il Dio cartesiano è il Gran Geometra, «un infini de puissance et non un infini d’amour (un infinito di potenza e non un infinito d’amore)» (Lucien Laberthonnière). La materia della scienza sono le idee chiare, oggetto della fede le «cose oscure», nel senso che non sono da noi contemplate nella loro sovrannaturale chiarezza: la fede è opera di volontà che corrisponde alla grazia.
La filosofia ha un compito negativo in quanto dimostra la sua non ripugnanza per le verità teologiche; un compito positivo in quanto ne dimostra la convenienza. «Anche riguardo alle verità della fede noi dobbiamo percepire qualche ragione che ci persuada che esse sono state rivelate da Dio prima di determinarci a credere».
Per Cartesio il fondamento della fede è il dogma rilevato, che deve essere accettato dalla volontà mossa dalla grazia, e che non esigeva un’elaborazione razionale e teologica. Vi è la congiunzione al vertice di due rette divergenti: non è più la distinzione tomistica tra filosofia e teologia, ma la separazione che condurrà ad una filosofia incomprensiva dei valori della fede.
Nel Discorso Cartesio scrive: «Io riverivo la nostra teologia, ma pensavo che per riuscirvi occorreva qualche straordinaria assistenza dal cielo, essere più che uomo».
RES EXTENSA E RES COGITANS
La dimostrazione filosofica dell’esistenza della materia
Per Cartesio il mondo esterno e il corpo sono certi. «Che vi è un mondo, che gli uomini hanno dei corpi non è stato mai messo in dubbio da nessun uomo di buon senso» (così nell’Abrégé du six Méditations). Cartesio, scienziato moderno «qui quantifie et qui mesure (che quantifica e che misura)», concepiva il mondo ridotto a quantità; ma quando volle passare a una dimostrazione filosofica dell’esistenza della materia, il problema gli si presentò arduo.
La dimostrazione filosofica dell’esistenza della materia avviene in tre passaggi:
a) è possibile l’esistenza delle cose materiali: in quanto oggetto della fisica matematica o geometria cartesiana e in quanto l’idea dell’esteso è innata ed è perciò chiara e distinta;
b) è probabile l’esistenza delle cose materiali in quanto c’è l’immaginazione, la quale è una certa applicazione della facoltà conoscente al corpo che le è presente e che quindi esiste;
c) è certa l’esistenza delle cose materiali poiché Dio non inganna e noi sentiamo un’inclinazione irresistibile a ipostatizzare la materia: la coscienza attesta che l’idea dei corpi viene da Dio stesso.
Ma che cosa è il corpo? Un’estensione diversamente modificata, una danza di particelle senza qualifica di nessuna specie. Tutto è estensione in movimento e l’estensione è la stoffa delle cose. La materia è uguale ad estensione; dove c’è l’esteso non può esserci spazio vuoto. Lo spazio non è finito, né infinito, ma indefinito. Tra tutte le cose che giungono dal mondo esterno attraverso le facoltà sensibili, solo l’estensione si riesce a concepire come chiara e distinta. «Infatti, ogni altra cosa che si può attribuire al corpo presuppone l’estensione ed è soltanto un qualche modo della cosa estesa; come pure tutte le cose che troviamo nella mente, sono soltanto diversi modi di pensare. Così per esempio non si può intendere la figura se non nella cosa estesa, né il moto se non nello spazio esteso; né l’immaginazione o il senso o la volontà si possono intendere se non nella cosa pensante. Ma, per contro, si può intendere l’estensione senza la figura o il movimento, come riesce manifesto a chiunque vi ponga attenzione». Il mondo spirituale è pertanto res cogitans, il mondo materiale è res extensa.
«Non c’è dunque – ribadisce Cartesio nei Principia Philosophiae – che una stessa materia in tutto l’universo, e noi la conosciamo per questo solo, che essa è estesa», e ancora: «La natura della materia o del corpo preso in generale consiste… solo in questo, che è una sostanza estesa in lunghezza, larghezza e profondità… La sua natura consiste in questo soltanto: che essa è una sostanza che ha estensione».
L’estensione è omogenea e, mediante il movimento, giunge a produrre l’eterogeneo, cioè la specificazione naturale. Non c’è che movimento locale, ossia trasporto di un corpo dalle vicinanze di quelli che lo toccano alle vicinanze di altri corpi. Le qualità sensibili (calori, sapori, ecc.) non appartengono (come già per Galileo) ai corpi in quanto tali, ma si formano solo nelle menti: nelle cose vi sono particolari disposizioni della sostanza materiale, da cui le qualità sensibili vengono risvegliate alla coscienza.
Ma come era/è? possibile concepire l’origine del moto in una estensione tutta piena? Cartesio risponde ingegnosamente, sostenendo la simultaneità del moto dei mobili rimpiazzantesi l’un l’altro.
Le leggi universali dell’universo cartesiano sono il principio di conservazione, secondo cui la quantità di moto resta costante, e il principio di inerzia, per cui ogni cambiamento di direzione può avvenire solo attraverso la spinta di altri corpi.
La durata – afferma Cartesio – è l’attributo generico col quale si denomina ciò che continua ad essere; il tempo è una forma particolare di durata, cioè la misura del movimento. Il tempo è quindi considerato nel senso di misura praticamente utile a misurare il movimento; misura relativa alla durata dei movimenti celesti. Come il sistema metrico decimale non aggiunge e non toglie nulla alla realtà pur essendo una convenzione, così il tempo, in quanto misura pratica del movimento, dipende da una nostra scelta.
Osservazioni:
– Si crea un dualismo contro natura tra un pensiero, chiuso in sé ma comprendente persino le sensazioni, ed un esteso astratto chiamato dogmaticamente a render conto di tutto l’universo.
– Henri Bergson ha dimostrato che il ridurre la materia a un’estensione omogenea toglie ogni realtà al moto e lo riconduce ad un sistema di relazioni algebriche puramente soggettivo.
– È capovolgere l’ordine della natura vedere nell’estensione la stoffa delle cose e nella forma sostanziale organizzatrice della materia un’astrazione. Mentre proprio l’estensione, presa così, a parte, è un’astrazione e la sostanza qualificata è il reale stesso.
Il meccanicismo
La concezione della natura di Cartesio è in funzione di una ragione che vuole, mediante modelli teorici, conoscere e dominare il mondo. Si tratta di un rilevante tentativo di unificare la realtà, attraverso una sorta di modello meccanico facilmente padroneggiabile dall’uomo.
Lo sforzo di ridurre tutti i fenomeni naturali alla loro più semplice espressione si fa radicale particolarmente nella sfera della vita organica. Sia il corpo umano che gli organismi animali sono delle macchine e quindi funzionano in base a principi meccanici che ne regolano i moti e le relazioni.
Il corpo è una macchina fabbricata dalla natura in modo da poter compiere da sola diversi movimenti. È come un orologio bene o mal fatto: da ciò deriva che, quando il nostro corpo è ben disposto, procura all’anima una conoscenza esatta, influenzando l’anima secondo le regole che gli sono proprie. La morte si spiega quindi non per la mancanza dell’anima, ma perché qualcuna delle principali parti del corpo si corrompe.
«Suppongo – dice Cartesio nel Trattato sull’uomo – che il corpo non sia altro che una statua o una macchina di terra, formata espressamente da Dio per renderla quanto più possibile simile a noi: e quindi imiti tutte quelle funzioni che si può immaginare procedano dalla materia e dipendano esclusivamente dalle disposizioni degli organi… Vi prego di considerare che queste funzioni conseguono del tutto naturalmente, in questa macchina, dalla semplice disposizione dei suoi organi né più né meno come i movimenti di un orologio o di un qualsiasi altro automa seguono dai suoi contrappesi e dalle sue ruote; di modo che per loro non si deve concepire in questa macchina alcun’anima vegetativa, né sensitiva, né alcun altro principio di movimento e di vita, oltre il suo sangue e i suoi spiriti».
Anche l’animale è estensione in movimento. Gli animali possono avere il sentimento, in quanto dipende dagli organi corporei (ad esempio le palpebre si chiudono meccanicamente anche se sappiamo di scherzare e non vorremmo chiuderle), ma non hanno il sentimento della sensazione e della percezione delle caratteristiche spaziali dell’oggetto (idea di estensione). Cartesio risponde a chi obietta che le bestie possono essere addestrate, che ciò è possibile solo perché si può con qualche cura «cambiare i movimenti del cervello negli animali».
Alcuni osservano che le industrie meravigliose degli animali parrebbero attestare in essi addirittura un’intelligenza. Cartesio nella IV parte del Discorso replica: animali che testimoniano maggior industria di noi in alcune delle loro azioni non ne testimoniano affatto in parecchie altre; se avessero uno spirito in ciò in cui eccellono sarebbero superiori a noi anche in tutto il resto. Ed è perché gli organi corporei hanno bisogno di una particolare disposizione per ogni azione particolare, mentre la ragione è uno strumento universale che può servire in qualunque occasione.
Gli animali inoltre non possono avere la ragione perché la parola è l’unico segno e la sola marca del pensiero nascosto, come si vede anche nei muti e negli stupidi, mentre non si è ancora osservato che un animale sia giunto ad un grado di perfezione da usare il linguaggio; ossia qualcosa che potesse riferirsi al solo pensiero piuttosto che ad un movimento naturale.
Inoltre «dopo l’errore di quelli che negano Dio, non c’è nessuno che maggiormente allontani gli spiriti deboli dal retto cammino delle virtù, come immaginare che l’anima delle bestie sia della stessa natura della nostra e che noi non abbiamo, dopo questa vita, niente da temere o da sperare più che le mosche e le formiche».
Infine – scrive a Morus (Henry More) – «la mia opinione non è tanto crudele per gli animali quanto è favorevole per gli uomini, poiché… li garantisce dal sospetto stesso di delitto, quando mangiano e uccidono gli animali».
Le conseguenze della visione meccanicista della res extensa sono rivoluzionarie. Cade una concezione della natura e un’altra qualitativamente diversa ne prende il posto, come nuovo programma di ricerca. La matematica non è solo la scienza delle relazioni tra i numeri, bensì il modello stesso della realtà fisica.
Il movimento e la quantità sostituiscono i genera e le species della cosmologia tradizionale. Se nella concezione greco-medioevale ogni cosa tende al luogo naturale, cui è ordinata nel quadro di una visione gerarchica, ora le cose non hanno alcuna direzione finalisticamente apprezzabile.
La costruzione del modello quantitativo meccanico con elementi teorici semplici agevola la costruzione di strumenti tecnici con cui si compirà il passaggio dalla conoscenza teorica alla trasformazione del mondo. Da qui prende avvio l’effettiva conversione dello spirito umano dalla theoria alla praxis, dalla scientia contemplativa alla scientia activa. L’ideale programmatico di Bacone, enunciato ma non attuato, di conoscere per dominare il mondo, si avvia con Cartesio alla sua definitiva realizzazione.
L’unione di anima e corpo
L’anima è – come abbiamo visto – il pensiero, la res cogitans; la sua sostanza è nel pensare, i cui modi sono pensieri (psicologicamente distinguibili in sensazioni, immaginazioni, atti di volontà, idee, ricordi, ecc.). Lo spirito non è la parte razionale dell’anima, ma l’anima tutta quanta che pensa.
L’esistenza del mio corpo mi è attestata dalle mie modificazioni e idee oscure, ma la macchina del mio corpo non può essere né animata né spiritualizzata. Lo spirito è inesteso, indivisibile, ha la coscienza della sua permanenza, è indipendente dal corpo nel suo esercizio. Il corpo è esteso, divisibile, muta la sua materia la quale scorre senza posa come l’acqua di un fiume; è materia.
A differenza di tutti gli esseri, l’uomo è colui nel quale si trovano insieme due sostanze nettamente distinte tra loro, la res cogitans e la res extensa.
Cancellato dalla scala ontologica il gradino della realtà biologica, donde e come può venire l’unità dell’anima e del corpo? La soluzione platonica dell’anima nel corpo come un pilota della nave gli ripugna, ma è inevitabile e Cartesio ne identifica persino la cabina di comando nella ghiandola pineale.
Pure Cartesio ripete con insistenza che l’uomo è ens per sé, vera unità, e che l’unione dell’anima col corpo non è «per situm (per posizione)» né per accomodamento. Quel Cartesio che non crede alle forme sostanziali, dichiara che l’anima è la sola forma sostanziale dell’uomo; il torto degli scolastici è quello di vederne ovunque.
Ma come allora far ingranare due realtà così nettamente opposte fra loro? L’unione dell’anima e del corpo è un’idea innata; l’anima e il corpo si pensano come assolutamente distinti, ma si sentono come uno.
L’anima non può creare nel corpo un moto nuovo (lo spirito non è esteso per tutto il corpo), ma può cambiare la direzione di un moto preesistente. Cartesio non pensa che se uno dei due esseri modifica la direzione del moto dell’altro, vuol dire che esso vi apporta una componente.
Secondo Kuno Fischer buona parte della filosofia post-cartesiana dipende da questo suo problema insoluto. Cartesio offre appigli all’occasionalismo, al parallelismo e all’armonia prestabilita.
Sull’immortalità dell’anima Cartesio così scrive nella lettera datata 1 febbraio 1646 alla principessa Elisabetta: «Per ciò che è dello stato dell’anima dopo questa vita, confesso che, con la sola ragione naturale, possiamo ben fare molte congetture ed avere belle speranze, ma non alcuna certezza».
LA MORALE E LA POLITICA
L’affermazione della libertà e la teoria dell’errore
La libertà è un fatto, che deve essere riconosciuto «per la sola esperienza che noi ne abbiamo (par la seule expérience que nous en avons)». La libertà è un’idea innata, nel senso chiaritoci dal fenomenismo cartesiano. Lo spirito non è essere, è pensiero; tra i pensieri c’è la volontà e la libertà: pensiero chiaro e distinto che sperimentiamo come le altre idee, per esempio il cogito.
La pretesa contraddizione notata da Lucien Laberthonnière tra la nozione di libertà come idea innata e come idea avventizia in quanto fatto d’esperienza è perciò inesistente.
La volontà e la libertà sono la «la stessa cosa (meme chose)». La libertà consiste in ciò: che noi possiamo fare una cosa o non farla. Essa è «un potere positivo e reale di determinarsi (une puissance réelle et positive de se determiner)». La libertà implica l’indeterminatezza – nel senso che si può fare o no una certa azione – che rende possibile l’autodeterminazione. Dio ha stabilito la verità e il bene come un re assoluto: verità e bene sono tali perché stabiliti da Dio.
La morale provvisoria
Conseguenza del dubbio metodico, la morale provvisoria se non è scienza, è metodo per potervi giungere: le ragioni della prudenza non contraddicono quelle della scienza.
«Come non basta prima di ricostruire la casa abbatterla, ma è necessario essersi provveduto di qualche altra casa, dove si possa essere comodamente alloggiato durante il tempo che vi si lavorerà, così, per non essere irresoluto nelle mie azioni mentre che la ragione mi obbligasse ad esserlo nei miei giudizi, io mi formai una morale provvisoria». «Per quel che concerne l’uso della vita… io reputo che non bisogna neppure attendere le conoscenze più verosimili, ma che è d’uopo, qualche volta, tra parecchie cose affatto incognite ed incerte, sceglierne una e determinarvisi fino a che non vediamo punto ragioni in contrario».
Quattro sono le regole della morale provvisoria. «La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, osservando costantemente la religione in cui Dio m’ha fatto la grazia di essere istruito fin dall’infanzia e regolandomi in ogni altra cosa secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi». Non è lecito uscire dalla tradizione se non si è raggiunta l’evidenza razionale della necessità d’uscirne. Per essere giudicata la tradizione va intimamente capita.
«La seconda massima era di perseverare nelle mie azioni più fermo e più risoluto che potessi… Imitando in ciò i viaggiatori che, trovandosi smarriti in qualche foresta, non debbono errare girando ora da una parte ora da un’altra e, ancor meno, fermarsi in qualche posto, ma camminare sempre quanto più dritto possono in una sola direzione e non cambiarla mai per futili ragioni». Cartesio è nemico dell’irresolutezza, per superare la quale egli propone il rimedio «di abituarsi a formulare giudizi certi e determinati circa le cose che si presentano, convincendosi che si è compiuto il proprio dovere quando si è fatto ciò che si giudicava meglio, anche se si è giudicato molto male».
In questo contesto egli propone la terza regola, che è «di sforzarmi sempre di vincere piuttosto me stesso che la fortuna e di mutare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo; e in generale di avvezzarmi a credere che nulla c’è che sia interamente in potere nostro, eccetto i nostri pensieri».
La quarta regola consiste nel «fare una rassegna delle diverse occupazioni che fanno gli uomini in questa vita, per cercare di scegliere la migliore; e pensare di impegnare tutta la mia vita a coltivare la mia ragione e a progredire, quanto più potessi, nella conoscenza della verità, seguendo il metodo che m’ero prescritto».
Dall’insieme risulta evidente la direzione dell’etica cartesiana, e cioè la sottomissione lenta e faticosa della volontà alla ragione, quale forza-guida di tutto l’uomo.
Il problema morale e le passioni
Il Trattato delle passioni (1649) vuole darci una fisica delle passioni, giacché la morale non spunta che sul tronco della fisica, così come la medicina, arte ausiliaria indispensabile alla morale, in quanto «se è possibile trovare qualche mezzo che renda comunemente gli uomini più saggi e più abili, io credo che è nella medicina che si debba cercarlo».
In ogni accadimento vi sono due aspetti: un’azione, in rapporto a colui che fa che accada; una passione, in rapporto al soggetto a cui accade.
Il rapporto azione-passione ci porta ad esaminare quello tra l’anima e il corpo: l’agente nelle sue volizioni è l’anima.
Di queste alcune terminano nell’anima stessa (così ad esempio quando vogliamo amare Dio o applicare il pensiero a oggetti immateriali), altre terminano nel nostro corpo (ad esempio quando dal fatto solo che abbiamo volontà di camminare segue che le nostre gambe si muovono).
Le passioni (chiamate anche «percezioni, sentimenti, emozioni») o perturbazioni trasmesse mediante l’agitarsi di spiriti animali dal corpo nell’anima provengono dagli oggetti esterni con l’intermediario degli organi (ad es. le sensazioni che riferiamo immediatamente agli oggetti: diciamo di sentire la campana e non i movimenti che vengono da una campana), altre sono localizzate nel nostro corpo (la fame, la sete, il dolore, il calore), altre infine si presentano senza un’apparente causa prossima, eppure sono mediate dal corpo.
In queste ultime l’attività dell’anima è così preponderante da caratterizzare la passione in maniera del tutto differente dalle prime passioni fisiologiche. Quali sono? La chiave dell’enumerazione è nel nostro atteggiamento dinnanzi alla perturbazione, non essendo gli oggetti – infiniti – la causa delle passioni.
Sei sono le passioni fondamentali, primarie: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza; tutte le altre dipendono dalla combinazione di queste.
L’indagine condotta da Cartesio si dilunga sulle condizioni o concomitanze organiche delle passioni, di cui cerca pure di fissare la fisionomia psicologica.
Espressioni di un gioco fisio-psichico le passioni rendono avvertita l’anima di ciò che nuoce o giova al corpo: bisogna dominarle, non sopprimerle, rivolgendo la nostra attenzione su idee contrarie a quelle che la passione rappresenta.
E poiché le passioni ci inducono all’azione per mezzo dei desideri che esse suscitano, l’educazione dei desideri è indispensabile: generosità, confidenza nella Provvidenza, desiderio limitato a ciò che dipende da noi.
La morale di Cartesio prelude ad una più vasta interpretazione razionalistica della vita morale.
Cartesio non fu mai propugnatore dell’individualismo, ma dei diritti universali della ragione; fu alieno da ogni interesse ai problemi di una nuova struttura politica e sociale della società. Cartesio, esprimendo il suo giudizio sul Principe, condannò le usurpazioni e non è affatto machiavellico se ammonisce il sovrano a premunirsi da eventuali defezioni degli alleati; se mette in evidenza che i problemi del giusto e dell’ingiusto hanno confini diversi quando si tratta di decidere del bene dello Stato. Cartesio non fu propugnatore dell’assolutismo: non ha mai sostituito alla giustizia l’utile del tiranno.
Le interpretazioni su questo aspetto del pensiero di Cartesio sono quanto mai divergenti. I razionalisti del XIX secolo vedono in Cartesio un avversario dell’autorità, per cui il cogito prepara la rivoluzione francese (Victor Cousin, Louis Liard, Octave Hamelin, Maxime Leroy). Paul Janet vede in Cartesio il partigiano del «demi-machiavelisme», mentre Lucien Laberthonnière un assertore dell’assolutismo statale.
NICOLAS MALEBRANCHE
In Nicolas Malebranche (1638-1715) la prospettiva razionalistica cartesiana priva di orizzonti religiosi è piegata alla celebrazione teocentrica del mondo. In qual modo?
Quando, a ventisei anni, lesse l’opera postuma di Cartesio Trattato sull’uomo, Malebranche trovò in esso una spiegazione meccanicistica non solo delle funzioni organiche, ma anche delle funzioni che appartengono all’anima in quanto unita al corpo (passioni, emozioni, sentimenti, sensazioni, memoria). Agli occhi di Malebranche il meccanicismo, eliminando l’anima sensitiva e vegetativa, rifiutando il dinamismo delle forme sostanziali – cioè l’eredità aristotelica della scolastica – era destinato a mettere in rilievo la spiritualità dell’anima considerata nella sua essenza e nelle sue funzioni più proprie.
Per Malebranche l’esclusione delle cause seconde concepite nel loro dinamismo spontaneo vinceva le influenze animistiche e panteistiche che Aristotele aveva introdotto nella filosofia cristiana. In tal modo il meccanicismo conduceva ad esaltare la Causa Prima e a fondare un rinnovato teocentrismo.
La posizione storica della filosofia di Malebranche si può pertanto definire nei termini seguenti:
– Malebranche vuol mettere il cartesianesimo sotto l’egida di Agostino, precursore del cogito; ma la sua tesi ontologista non è che un’infedele interpretazione dell’agostinismo ripensata sul piano del razionalismo cartesiano;
– la filosofia di Malebranche si sforza di pensare la fede cristiana in funzione di un razionalismo che si ispira da un lato alla tradizione platonica (la fede in Dio e la teoria della visione) e dall’altro alle concezioni fondamentali della scienza moderna (il concetto scientifico di «legge» domina la teoria delle cause occasionali e si attua come principio dell’uniformità dell’azione divina estesa persino al regno della grazia).
Dall’innatismo cartesiano all’ontologismo
a) Ideismo. Malebranche accetta il principio fondamentale del cartesianesimo per cui l’oggetto immediato della conoscenza è l’idea. L’uomo non conosce direttamente e di per se stesso gli oggetti che sono posti fuori di lui: li conosce solo per il tramite delle idee. «Vediamo il sole, le stelle e una infinità di oggetti fuori di noi e non è verosimile che l’anima esca dal corpo e vada per così dire a spasso nei cieli per contemplarvi tutti questi oggetti». L’oggetto immediato del nostro spirito, quando per esempio vede il sole, non è il sole, ma qualche cosa che è intimamente unita all’anima, ciò che si chiama idea. La presenza dell’idea, dunque, è necessaria affinché ci sia conoscenza, mentre non è necessaria l’esistenza dell’oggetto «fuori». Le idee ci sono necessarie per conoscere i corpi fuori di noi, ma non per conoscere noi stessi o le altre realtà spirituali: non abbiamo un’idea dell’anima, e per questo la conoscenza che abbiamo dell’anima è più imperfetta di quella che abbiamo dei corpi. Le idee sono «esseri reali», spirituali, assai differenti e superiori rispetto ai corpi che rappresentano. Qual è l’origine delle idee in noi?
b) La visione in Dio. Le idee sono inderivabili dalle cose sensibili che rappresentano, altrimenti da ciò che è oscuro si farebbe derivare l’unica realtà che ci è data come evidente. Sarebbe come voler trarre dal meno il più. L’assoluta eterogeneità di materia e spirito rende assurdo un passaggio dall’una all’altra realtà. E se l’astrazione aristotelico-tomistica è falsa, l’ipotesi innatistica è insufficiente. L’innatismo fa del pensiero umano o un contenente delle idee o un’attività esplicatrice dei suoi contenuti. Le nostre idee sono eterne, immutabili, necessarie: non possono trovarsi – neppure allo stato di idee innate – in uno spirito finito, individuale, contingente. Le idee sono in Dio, e noi le vediamo in Dio. Dio contiene in sé le idee di tutte le cose: egli è strettamente unito alle anime nostre con la sua presenza, sì che si può dire che Dio è il luogo degli spiriti, come lo spazio è il luogo dei corpi. La presenza di Dio è costitutiva del nostro pensiero («nous ne sommes jamais sans penser a l’être – noi non siamo senza pensare all’essere ») e l’ontologismo è proprio la teoria secondo cui la conoscenza di Dio per intuizione a priori o visione è la condizione di possibilità di ogni altra conoscenza.
Si osservi però:
– l’asserzione che la validità del nostro conoscere possa fondarsi soltanto nella partecipazione alla Ragione universale divina non elimina la pluralità dei soggetti finiti (Malebranche si oppone a Spinoza, come Gioberti si opporrà all’idealismo tedesco);
– l’anima umana vede direttamente nelle idee di Dio le cause di tutte le cose e la visione che noi abbiamo in Dio è l’unica forza della nostra ragione e fonte del nostro conoscere: ma la visione in Dio se è diretta è anche parziale. Noi non vediamo Dio in se stesso, ma solo nel suo rapporto con le creature materiali.
Malebranche scivola nel panteismo?
L’unicità della causa pare sinonimo di unicità della sostanza. Tuttavia la creatura sussiste, è solo occasione, ma non è «modo» dell’unica sostanza.
La visione in Dio non è per Malebranche visione di Dio. Per Malebranche il contatto con l’Infinito non è mai compiuto possesso, ma avvertimento proporzionato alla nostra capacità di intuizione.
Antonio Arnauld vedeva il panteismo spinoziano come lo sbocco logico della dottrina dell’estensione intelligibile. La distinzione tra l’estensione dei corpi e l’estensione intelligibile (in cui sia Dio che l’uomo conoscono i corpi) non riesce plausibile. Insistendo – come Malebranche fa – sulla distinzione e primalità dell’estensione intelligibile bisogna concludere o nel panteismo o nell’acosmismo: nel panteismo, ponendo i corpi nell’essenza stessa di Dio come suo attributo – ed è la soluzione di Spinoza; nell’acosmismo, dissolvendo la realtà del mondo finito.
Malebranche respinse come «atroce» l’accusa di spinozismo e nel Colloquio VIII precisò: «Dio non è l’infinità in estensione: è l’Infinito e basta» e l’estensione intelligibile è distinta da Dio. L’accusa di acosmismo non ci sembra però che possa essere evitata.
Malebranche e Cartesio
Che cosa c’è di cartesiano in Malebranche? Da Cartesio Malebranche accoglie e sviluppa il primato dell’idea, il meccanicismo, il dualismo ontologico, la tesi della ateoreticità dell’errore.
Malebranche si distacca però da Cartesio in altre decisive tesi:
«Quando Cartesio aveva ridotto la materia ad estensione aveva ammesso anche che le parti di una materia così concepita potessero agire le une sulle altre, meccanicamente. Ma la pura estensione non può produrre un effetto d’urto: le leggi della trasmissione del movimento attraverso l’urto, perfettamente chiare se considerate come puri rapporti matematici, diventano incomprensibili se si vuole attribuire a un corpo il potere occulto di mettere in moto l’altro. Il fenomeno fondamentale, con cui tendiamo a spiegare tutti gli altri – e che troviamo del tutto naturale solo per la sua frequenza – in realtà non si spiega esso stesso.
Ancor meno si spiegherebbe che i movimenti, in un’estensione fatta di meri rapporti meccanici, determinino sensazioni, come ritengono coloro che attribuiscono alle cose materiali la capacità di produrre le modificazioni che hanno luogo nella nostra sostanza pensante. Oppure che un atto spirituale, quale una volizione, possa determinare il movimento di un corpo. In questo caso c’è un’eterogeneità così radicale tra la pretesa causa e l’effetto, da rendere palmare la necessità di un intervento divino per farli corrispondere.
Senonché, ricorrendo a Dio, l’occasionalismo rendeva vieppiù evidenti le insufficienze dell’impostazione cartesiana, che richiedeva un continuo miracolo, sia pure attuato secondo regole costanti. Ciò indurrà molti a rifiutare il cartesianesimo: o superando la dualità di estensione e pensiero, con l’attribuire entrambi direttamente a Dio (Spinoza); o reintroducendo nella materia certe proprietà distinte dall’estensione, che permettano ai corpi di agire, se non metafisicamente sugli spiriti, almeno fisicamente sugli altri corpi (Wilhelm Leibniz); oppure negando senz’altro ogni realtà alla materia, ormai incapace d’agire (George Berkeley); o, ancora, ammettendo che quei collegamenti tra i fenomeni che noi attribuiamo a una causalità e sostanzialità della materia, siano invece nessi soggettivi, dovuti all’abitudine di trovare tali fenomeni associati (David Hume)» (Vittorio Mathieu, op.cit., pp. 446 – 447).
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.