Ricordo di Padre Carlo Manziana

Se veramente fratelli,

gli uomini non cantano all’unisono,

ma in armonia

Wystan H Auden

 

Lunedì 2 giugno 1997 moriva Padre Carlo. Nell’anniversario della sua dipartita i Padri della Pace e la CCDC hanno creduto doveroso invitare i bresciani a rileggere la sua testimonianza cristiana, ma «senza frinzoli e con la massima semplicità», come egli amava dire.

L’incontro di questa sera non ha pertanto assolutamente carattere di ufficialità, o pretesa di ricostruzione storica. A darci pubblicazioni degne su Padre Manziana ci penseranno la Morcelliana e il Cedoc, a cui va fin d’ora il nostro ringraziamento per ciò che hanno già in cantiere. Noi qui vogliamo solo dar voce a qualche ricordo personale, prima che vada perduto per sempre. È evidente che oltre gl’interventi annunciati, altri possono a buon diritto prendere la parola. Penso in particolare a due persone oggi presenti, a Stefano Minelli e a Cesare Trebeschi, entrambi amici cari a Padre Carlo.

Prima in chiesa e poi in questa sala ci siamo dati appuntamento per esprimere il nostro affetto e la nostra riconoscenza a Padre Carlo. A veder bene, in questo secolo che volge al tramonto la Pace – con i suoi Caresana, Bvilacqua, Marcolini, Olcese, Manziana e tanti altri – ha dato molto a innumerevoli anime, ma ha dato molto anche alla Città e alla Chiesa. Per questo ci è parso giusto che ad aprire gli interventi fosse il sindaco di Brescia, Mino Martinazzoli, e a concluderli il nostro vescovo mons. Bruno Foresti. Con la loro presenza e con la loro parola, attraverso le loro persone sono infatti la società civile e la comunità ecclesistica che dicono «grazie» a Padre Carlo, che con la sua vita limpida e coraggiosa ci ha mostrato che cosa significhi la libertà dello spirito e l’onore cristiano.

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Il primo incontro con P. Carlo avvenne alla Chiesa della Pace 50 anni fa, il 25 aprile 1948. Il suo primo dono fu un libro, che è un capolavoro, Lo spirito della filosofia medioevale di Gilson. E da allora, se l’incontro con P. Carlo non era casuale, di norma si concludeva, alla Pace come al Centro Sociale, con la consegna di un libro, l’opera che in quel momento gli sembrava dovesse essere letta.

Della sua personalità –  ricca, multiforme e insieme lineare – voglio ricordare un solo aspetto: egli aveva compreso, fino in fondo, che la libertà e la fede in Cristo sono inseparabili, perché non si dà vera libertà spirituale senza libero consenso a Dio e non si può oggi comunicare il Vangelo senza un’attenzione delicata per la libertà delle coscienze. «Provate – diceva P. Bevilacqua – a cancellare dal Vangelo quelle due parole: si vis, se vuoi, e il Vangelo diventerà incomprensibile». Quelli della mia generazione hanno appreso questo vincolo sostanziale tra libertà e Cristo dalla Leggenda del grande inquisitore di Dostoevskij e da maestri che si chiamavano appunto P. Bevilacqua e P. Manziana. In P. Manziana quella persuasione andò formandosi grazie alla spiritualità filippina e alla grande lezione di Newman, ma anche per l’incontro tra l’eredità più alta del cattolicesimo liberale e la consapevolezza della sfida che per la coscienza cristiana rappressentava il paganesimo totalitario del XX secolo.

Un episodio fra i tanti. Nel 1950, in clima ormai di guerra fredda, un gruppo di giovani cattolici di Brescia (Gabriele Calvi, Mauro Laeng, Lino Monchieri, Giovanni Cristini, Franco Nardini e io), pose per la prima volta attraverso le pagine di Adesso, il quindicinale di Don Mazzolari, il problema dell’obiezione di coscienza. Si scatenò allora su di noi una tempesta di accuse: eravamo, agli occhi dei benpensanti, dei vigliacchi venduti al nemico e comunisti mascherati.

Padre Carlo e Franco Salvi vollero invece che se ne discutesse alla Fuci e la riunione, a cui partecipò anche la parte del mondo cattolico politicamente impegnata, fu quanto mai tempestosa. Uscimmo dalla saletta della Fuci addirittura verso le 14, ma ancora lì, al portone di via Pace, i più animosi, che poi erano i più anziani, cominciarono ad apostrofarmi pesantemente e a strattonarmi. Padre Carlo allora non ci vide più: intervenne con grande energia e si fece di colpo silenzio. «Avete dimenticato che la nostra fede si affermò nei primi secoli come un’eroica obiezione di coscienza? E può un discepolo di Cristo essere di meno della pagana Antigone?».

Padre Carlo rammentava insistentemente di non cedere alla tentazione di trasformare la Chiesa in una chiesuola, a strumento di qualcosa d’altro che non sia l’annuncio della salvezza, vanificando così il dinamismo del Vangelo e l’apertura universale che è propria del cattolicesimo. Le cose opinabili devono rimanere tali e non essere trasformate in articoli aggiuntivi del Simbolo apostolico. È questo un errore che si paga caro perché allora chi deve fare da tramite tra le coscienze e Dio, diviene di fatto un ostacolo, un diaframma. La verità più alta è inclusiva, infatti, e non esclusiva. Guai perciò a trasformare di continuo – come fa l’integralismo – l’et et, l’haec facere et illa non omittere del Vangelo in perentori aut-aut, in meccanismi di esclusione verso gli altri. Certamente le alternative di fondo ci sono perché occorre musurarsi con esse nei momenti decisivi, e devono esserci estremamente chiare, ma per tutto il resto occorre instancabilmente adoperarsi a costruire punti di incontro e ponti tra gli uomini di buona volontà e tra gli stessi cristiani, cercando convergenze feconde di beni sui valori che, immessi nel mondo dall’annuncio evangelico, costituiscono una direzione di marcia e una speranza per tutti.

Concludo, confidandovi un secondo ricordo. Io ho sempre avvertito la grandezza propriamente religiosa di P. Carlo e ad essa mi sono inchinato: ogni colloquio a due, nell’arco di cinquant’anni, si è sempre concluso con la richiesta, da parte mia, della sua benedizione, che ricevevo in ginocchio. Ma è stata proprio quella certezza interiore che mi ha spinto, quando ero da lui interpellato, a dirgli proprio tutto quello che pensavo e anche a dissentire da lui sull’una o sull’altra vautazione. E in certi casi il dissenso l’ho espresso senza mezzi termini, senza attenuazioni di sorta. In uno degli ultimi inconri gli chiesi perdono di essermi comportato con lui come non osavo fare neppure con un figlio, temendone la suscettibilità o il risentimento. Padre Carlo mi guardò allora negli occhi, mi sorrise e mi disse: «Tu non lo sai, ma in questo momento mi stai facendo il regalo più bello. Tu eri così libero con me perché avevi capito che io non ero solo il tuo padre spirituale, ma un amico».

Lo sappiamo tutti, Padre Carlo ebbe un senso straordinariamente alto delle episcopalis sarcina, ma sbaglierebbe grossolanamente chi pensasse che quell’ufficio, che lo elevava a successore degli Apostoli, potesse indurlo a misconoscere la priorità assoluta del comandamento fondamentale, quello dell’amore, che si manifesta in primo luogo come attenzione delicata alla dignità delle persone e amicizia magnanime nei loro confronti.

No, cari amici, non è affatto un caso che Padre Carlo, ordinato vescovo, si sia presentato ai fedeli della diocesi di Crema con le parole stesse di Agostino: «Se mi incute timore l’essere per voi, mi consola l’essere con voi. Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome d’ufficio, questi di grazie. Quello occasione di pericolo, questo di salvezza» (Sermo 340, 1).

Nota: Testo rivisto dall’Autore.