Sono lieto di essere qui a Brescia per alcune circostanze che possono essere occasionali, esteriori, ma che hanno una loro importanza. Un motivo è, per esempio, quello di trovarmi in questa sala intitolata a un uomo che ha avuto una grande parte nella formazione della mia adolescenza, Giulio Bevilacqua.
Io sapevo che era bresciano, ma non sapevo che questo incontro si sarebbe verificato nella sede dei padri filippini e nella sala intitolata a lui; ed è quindi con una certa commozione che vi sono entrato e sto qui parlandovi, cercando di avere il tono che mi è più consentaneo, cioè quello confidenziale.
Ora, pensando a quello che ha rappresentato per me padre Bevilacqua, nei suoi libri – perché io non l’ho mai incontrato e non ero mai capitato a Brescia – e in particolare in un libro, La luce splende nelle tenebre, devo dire l’importanza che un uomo, con il suo pensiero, con le sue intuizioni, soprattutto con le sue proposte cristiane, può avere nel plasmare la coscienza di un giovane, nell’accendere certe intuizioni che sono subito prima della vocazione.
Noi ci incamminiamo, noi facciamo certe scelte perché queste scelte sono profondamente radicate in noi. Ma ad accendere, a svegliare queste vocazioni sono certi incontri, talora casuali, o addirittura fortuiti, o alcune volte addirittura a contraggenio, che noi abbiamo, nel corso della nostra maturazione. Alle volte un incontro, una parola, alle volte un libro; basta questo per accendere qualche cosa, per destarci un interesse che quando diventa pieno, diventa dominante, ci riempie interamente e ci fa fare veramente delle scelte.
Io certo debbo molto alla lettura, ripetuta, di questo volume di padre Bevilacqua che conservo ancora e che è – me lo sono andato a guardare recentemente senza sapere che sarei venuto qui, a parlare in una sala dedicata a lui – continuamente segnato, postillato con matite di diverso colore, tanto era interessato il mio studio e tanto ero desideroso che certe affermazioni, certi pensieri rimanessero, in modo che io li potessi ritrovare subito.
Qualcosa nel mondo matura: c’è questa specie di arcana tela in cui i fili, i poli del passato e dell’avvenire, si ritrovano e si ricongiungono. Devo dire che nei momenti di sconforto (e questi anni ce ne danno motivo abbastanza spesso) è consolante pensare che non si è mai soli e che si può sperare nella solidarietà talvolta occulta, o comunque nascosta, o non esplicita, ma che esiste e che mi fa ripensare sempre a quel mistero meraviglioso, uno dei più belli e più meravigliosi della cattolicità che è il corpo mistico di Cristo, che è la Comunione dei Santi, una delle realtà più straordinarie a cui non si pensa mai abbastanza e nei confronti della quale io vorrei veramente essere in grado – se ne avrò l’ispirazione – di scrivere qualcosa di teatrale.
Il Dio ignoto
Questa solidarietà nascosta, e pur reale, che noi abbiamo tra di noi, tra coloro che accumulano atti e gesti di virtù che vanno a compensare le colpe, i peccati, il male di altri (tutto questo poi rientra in una circolazione più vasta di cui anche i beati, i santi, fanno parte attraverso il corpo di Cristo), attraverso la realtà perenne di Cristo, mi pare una cosa così straordinariamente bella, così straordinariamente consolante e vera da far si che noi non dovremmo mai sentirei isolati, mai sentirei – come talvolta ci sentiamo – tristi e scoraggiati, ma dovremmo avere questa perenne, non immotivata bensì profondamente motivata, speranza che ci fa andare avanti, ci fa credere in noi stessi e negli altri, ci fa stabilire questa solidarietà che è così, viva e palpitante mentre ci guardiamo e, anche senza conoscerei, sappiamo di essere una sorta di unità.
Voi mi direte: “Ma tutto questo, caro amico, che cosa ha a che fare con il teatro?”. Si dà il caso che tutto questo ha a che fare con l’essenza del teatro perché il teatro è questo, è un’azione, una proposta che viene fatta da un luogo come il palcoscenico che è una decina di centimetri più alta del livello della platea; una proposta che viene fatta a un pubblico, ad un’assemblea di gente venuta ad ascoltare, per cui si verifica quel fatto meraviglioso che, dopo un po’ di tempo, partecipando ad una avventura che viene proposta, a personaggi con le loro agitazioni, coi loro sentimenti, con le loro passioni che vengono mostrate nella favola scenica, si viene a stabilire una unità tra palcoscenico e platea. Non si sa davvero se sia solo il palcoscenico a dar vita ad un’azione o se questa azione non passi addirittura nella platea e raccolga la solidarietà da parte degli spettatori.
Questo in sostanza è il teatro vero. Il titolo di questa mia conversazione sarebbe: “Rifiuto e invocazione a Dio nel teatro contemporaneo”. Postillando il tema dicevo: “Rifiuto esplicito e pubblico di Dio e invocazione più latente e segreta che non esplicita”. Già si vede qual è il mio pensiero, il mio giudizio sulla situazione del teatro attuale nei confronti di Dio, nei confronti di un Dio personale.
Non c’è da stare allegri nel teatro. Quello che di compiuto, di noto vediamo è più che un rifiuto. E’ peggio, è un’assenza di Dio, della preoccupazione di Dio, come se Dio non fosse nemmeno ingombrante, il che sarebbe già qualcosa. Se fosse un rifiuto attivo sarebbe già una presenza di Dio che viene scartata o in qualche modo combattuta, o ostacolata. Mi pare che non ci sia nemmeno questa: Dio è un ospite ignoto, è un ospite spesso indesiderato; addirittura nemmeno indesiderato, è un ospite che non si sa che ci sia. Noi sappiamo che c’è, sappiamo che c’è anche se ignoto. Voi ricorderete tutti quella stupenda scena degli Atti degli apostoli quando Paolo, questa figura che basterebbe da sola a riempire una vita, va, arriva ad Atene, e finalmente riesce a trovarsi di fronte una certa folla, un certo gruppo di ateniesi, tutti raffinati, curiosi ogni volta che qualcuno veniva a proporre un fatto nuovo, e Paolo esordisce così: “Io ho girato, per la Vostra città, e ho avvertito che siete quanto mai esperti nei problemi della religione, al punto che dopo aver dedicato e alzato templi a tutti gli dèi, quindi a tutte le forme di religione in qualche modo incarnate, avete voluto anche elevare un premio al dio ignoto”.
E continua “Io sono qui, invece, per svelare questo ignoto, perché sono qui per testimoniare la realtà di una fede nuova che è la fede in Cristo, il quale è venuto ad annunciarla, ha predicato, si è manifestato, è morto ed è risorto”. Punto fisso della predicazione paolina, è la Resurrezione: “Se Cristo non fosse risorto la nostra fede sarebbe vana” egli dice. E proclama agli Ateniesi: “La prova di quello che Lui è stato come salvatore e redentore è che è risorto”.
A questo punto dalla folla si alza una voce e dice: “In quanto a questo poi ne parleremo domani”. Cioè di fronte all’evento della Resurrezione annunciato da Paolo, ecco che l’uomo raffinato di pensiero, il filosofo sottile, si ribella immediatamente e dice: “No, adesso qui fermiamoci, ne parleremo poi, ci rivediamo fuori, ci rivediamo domani”.
Ora, è un po’ la stessa posizione che il teatro di oggi ha nei confronti di Dio; ne parliamo domani, cioè meglio non parlarne, non c’è, non esiste. Non esiste, eppure c’è. Io annotavo – tanto per fare un quadro delle presenze – dei “no” numerosi e dei rari “sì” in relazione a questa presenza di Dio. Mi accontenterei di questa presenza del nome di Dio, mi accontenterei di questa presenza del dibattito su argomenti che coinvolgono Dio. Sarebbe già una testimonianza, anche se si concludesse con una testimonianza non positiva, basterebbe parlarne.
I no, le negazioni, l’annullamento di Dio è poi, quasi sempre, l’annullamento dell’uomo. Gira e rigira, se è affermata la realtà dell’uomo, dei suoi sentimenti, del suo lavoro, del suo sforzo di ricerca, prima o poi si sbocca in qualcosa che, se non è esplicitamente la certezza di Dio è, in qualche modo, un’anticamera alla realtà di Dio. Io leggo qui dei nomi, leggo Beckett, Adamov, Tardieu, Pintor. Tengo per ultimo Ionesco, a cui non vorrei negare del tutto una intuizione di un qualche cosa che potrebbe portare ad una spiritualità. Comunque, sono alcune delle prime etichette negative nel confronti di Dio.
Quindi qui c’è assenza di Dio. Non solo non c’è invocazione, non c’è nemmeno rifiuto, c’è assenza di Dio. Egli non è in gioco. Nel gioco del teatro, per tutti questi autori, non c’è una presenza che sia quella di Dio. Guardiamo quali sono, invece, le presenze positive.
Ce ne sono, non lo nego: una delle prime è venuta dall’America con un lavoro – pochi di voi lo ricorderanno perché appartiene agli anni della mia giovinezza – che suscitò un successo imprevisto, raro per le scene italiane, La prima legione (The first legion) di M. Clavery il quale fece subito seguire una commedia invece di scarso successo, che credo non sia mai stata rappresentata in Italia, La seconda primavera.
Nel primo si parlava di un convento di gesuiti dove avviene uno strano miracolo, il secondo, La seconda primavera, è un conflitto profondo, anzi approfondito, tra Newman e Manning in cui la conclusione è l’elogio funebre fatto da Manning, avversario, se così posso dire, di Newman, nei confronti proprio di Newman riformatore convertito della chiesa anglicana nei confronti della cattolica.
Testimonianze e silenzi
Poi abbiamo i mostri sacri: Claudel e, più vicino a noi, Eliot. La loro testimonianza è una testimonianza esplicita di un Dio chiaro attraverso una drammaturgia certamente intensa e di grande risonanza. Sono due autori molto importanti, e sono, anche, abbastanza circoscritti. Claudel è certamente un grande scrittore francese, difficilmente accettato da noi più per motivi forse poetici che non per motivi di fede. Eliot ha avuto più ampia circolazione rimanendo però una testimonianza teatrale.
Andiamo avanti, accontentandoci anche delle testimonianze non esplicite, accontentiamoci del trascorrere della presenza di Dio in forme indirette.
Il Lutero di John Osborne è un’opera cui la religione, e quindi Dio, è di casa. Prima della fine di Heinrich Böll certamente è un’opera in cui c’è una circolazione di spirito religioso. O’Neill in Giorni senza fine (Days without end) è un lavoro un po’ macchinoso, un po’ esteriorizzato; è il lavoro della riconversione di O’Neill. che, allontanato dalla fede, ritorna, ritrova la fede.
Io ho molta stima di questo scrittore americano col quale sono entrato in rapporti subito dopo la guerra e di cui ho seguito le sofferenze anche fisiche, finali. E’ un uomo di grandissimo talento drammaturgico, educato alla fede, allontanatosi successivamente da essa, che non sapevamo ancora che avesse, lasciato le tre commedie presentate e recitate “post mortem”, e che mi incaricò di curare la rappresentazione di almeno due commedie, questa che ho citato, Giorni senza fine, e le successive, che poi sono state rappresentate in Italia.
Non escludo nemmeno due commedie di due autori che molti di voi stenterebbero ad includere tra gli autori spiritualisti: Lutero di Osborne, che ho ricordato, ma anche Ricordo con rabbia, una splendida commedia la quale palesa una inquietudine di vita che domanda di essere riempita da qualcosa e, infine, Albee con la sua opera grandemente suggestiva, Chi ha paura di Virginia Woolf?
In quell’inquietudine forsennata c’è la circolazione di qualcosa, c’è per lo meno la richiesta di riempire un vuoto, che io mi permetto di interpretare come un vuoto di Dio. E credo di averci messo davvero tutto quello che ha un minimo di rilievo, di significato. Nel quadro, nel panorama del teatro moderno che voi – come me, stagione per stagione seguite qui, nel vostro teatro, uno dei palcoscenici più esaurienti in cui tutto ciò che si fa in Italia viene annualmente rappresentato – voi vedete bene, voi potete testimoniare se c’è la presenza di Dio, di un afflato religioso, di una speranza in qualche cosa che vada al di là di certi confini di concreto materialismo.
L’attesa dell’uomo
Io non credo di essere stato pessimista o avaro; ho detto le cose come stanno: Dio non c’è, nel teatro, oggi. Eppure io credo che, se si parla tenendo conto dell’altra metà del teatro, cioè del pubblico che aspetta, ci sia una invocazione a Dio.
I personaggi che agiscono sul palcoscenico non lo invocano. I personaggi che parlano secondo la fantasia di un autore, non lo invocano. Certo, lo invocherebbero gli spettatori se potessero alzare la mano e diventare anche loro attori, in una sorta di “happening” che sarebbe molto rivelatore.
Ecco: io mi accontenterei che, accanto a tutti gli interlocutori del mondo borghese che ci ha inondati per anni e anni, per due secoli, di interlocutori a teatro, accanto ai nuovi e più autentici interlocutori moderni che sono quelli del mondo della sofferenza e del lavoro; accanto a questi uomini che sono il quadro, che riempiono il quadro, l’area della nostra società, ci fossero anche gli altri interlocutori, che sono pure presenti nella nostra società e che sono tutti coloro che sperano ancora, che credono ancora nella realtà di qualche cosa d’altro.
Guardate, a questo punto lo non voglio nemmeno dire che credono nella testimonianza di una fede esplicita, cattolica, cristiana. No, mi accontento che il teatro porti, per un bisogno di verità e di compiutezza, per riempire un quadro che deve essere compiuto, una galleria che deve comprendere tutti i rappresentanti, almeno i più notevoli rappresentanti di tutto ciò che si agita nella vita: gli interlocutori che sperano in un qualche cosa d’altro, in un’altra speranza, in un’altra dimensione, in un altro punto cardinale oltre i quattro che guidano la vita reale di oggi.
Ora, non è né simpatico né elegante e tanto meno umile parlare della propria esperienza. Ma io vi posso dire che quando, in Europa e anche in America, è stato proposto il Processo a Gesù, l’intervento, l’invocazione sono stati tali da sorprendere innanzitutto l’autore, proprio perché la quaresima, l’assenza era stata così lunga, che io stesso che pur avevo scritto il Processo a Gesù non pensavo che l’accoglienza a questo personaggio, a questo messaggio, a questa problematica, a questi personaggi evangelici, questo loro riscontro nella società di oggi, Giuda, Pietro, Giovanni, la Maddalena, fosse così intenso e così perentorio.
Quando, nel 1954, proposi tramite il mio amico regista, Orazio Costa, al “Piccolo Teatro della città di Milano” una specie di schema, di sinossi di Processo a Gesù fui lieto, fui contento come autore che il lavoro fosse accolto e che mi si proponesse di portarlo a termine. Ma, insieme, io, Costa e Paolo Grassi pensavamo, con tutta sincerità, che il lavoro sarebbe stato limitato all’interesse di un’élite che si interessava di questi problemi più o meno sottili, più o meno particolari. Mai abbiamo per un momento pensato che il lavoro potesse suscitare un interesse popolare, di quella vastità e di quella continuità.
Era vero che io mi ero sempre battuto per un teatro popolare perché, se il teatro non interessa vasti strati della popolazione, non è teatro, è un’altra cosa; è un salotto in cui si parla di problemi più o meno sottili. Un teatro, per essere veramente tale, deve agitare problemi, sentimenti, passioni universali, che sono alla base di tutti gli uomini.
C’è chi piange e scarica tutto in quella emozione; c’è chi non piange e analizza le proprie sensazioni. Questo però è un altro fatto che appartiene alla singola cultura, alla particolare sensibilità. Ma il teatro, quando è autentico, è popolare, deve esserlo. Ora noi, buttando sul teatro un personaggio come quello di Cristo, non credevamo che questo sarebbe stato un fatto popolare, non ci abbiamo creduto.
E’ stata la realtà stessa, poi, a smentirci. Su questo fatto ci sarebbe da scrivere un libro estremamente significativo, per concludere ad una cosa che si doveva sapere e che non avrebbe dovuto aver bisogno di riconferme, e cioè che il personaggio Cristo, il messaggio Cristo, la realtà evangelica nei suoi personaggi e nelle sue vicende è un fatto attuale come lo fu venti secoli fa.
E’ inspiegabile anche come mai gli autori che vanno, anche e non solo, alla ricerca del successo, scartano, non si interessano, non si occupano di una materia che è così propizia per il successo. Mi diceva un grande regista americano: “Cristo è un personaggio di successo”; lo diceva secondo una mentalità americana, di Hollywood.
E’ vero, e tutte le volte che hanno avvicinato questo personaggio, tale successo non è mancato. Vi cito l’ultima esperienza che viene dall’Inghilterra.
Alla fine dell’estate, al teatro Queen Elisabeth, uno dei più grandi attori inglesi ha recitato il Vangelo secondo San Marco andando solo in palcoscenico, in maniche di camicia con un semplicissimo fondale, un semplice tavolo. Ha alzato dal tavolo un libretto, lo ha mostrato al pubblico e ha detto semplicemente: “Il Vangelo secondo Marco”; e ha letto. La rappresentazione di due ore è consistita soltanto, non esagero, nella lettura di Marco. Evidentemente, la bravura dell’attore ha accentuato emotivamente certe parti, altre in maniera ironica e divertente, con sottilissimi accorgimenti che hanno fatto sorridere il pubblico.
Io ho cercato di far ripetere l’esperimento in Italia, ho cercato quale attore avrebbe avuto, in Italia, la possibilità di fare positivamente una esperienza analoga. Credevo di esserci riuscito perché Tino Buazzelli mi aveva promesso, entusiasta, che avrebbe fatto una serie di recite. Non è poi accaduto niente. Speriamo che qualche cosa di analogo accada con Marco e con qualche altro testo.
Il punto è solo questo: è necessario trovare uomini e artisti che ci credono. Il resto verrà di conseguenza. Onestamente io non posso che dirvi questo; se vi dicessi che presto verrà, non direi una cosa vera.
Siamo in una situazione di pressoché totale carenza: da quel marzo 1955 in cui rappresentai a Milano e feci il giro del mondo con Processo a Gesù io ho continuato a rimanere solo, sono invecchiato da solo desiderando di avere compagnia.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.10.1979 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.