Un luogo comune continua a gravare più o meno oscuramente sulla coscienza di molti, circola ancora nella polemica di parte e nei manuali, e aduggia opere anche pregevoli quando si scrive su Agostino filosofo della politica. Sant’Agostino – si dice – ha condannato lo Stato in quanto tale, facendo così della politica il dominio del Maligno. Da questo luogo comune taluni si sono spinti fino al punto di attribuire al Cristianesimo stesso il rifiuto pessimistico dello Stato; altri, invece, hanno creduto di dover correggere Agostino con S. Tommaso.
Regna e latrocinia: un paragone da intendere correttamente. Il passo che si suole addurre per documentare il presunto odio di Agostino per lo Stato è il paragone, frammentariamente riferito, tra i regni (regna) e i grandi brigantaggi (mala latrocinia). Il passo va letto però nella sua interezza. «Tolta la giustizia – scrive Agostino – che cosa sono i regni se non grandi brigantaggi? E le bande dei briganti che cosa sono se non piccoli regni? Non sono forse anch’esse un manipolo di uomini, retti dal comando di un capo, legati da un patto sociale, che si dividono la preda secondo la legge accettata da tutti? Se questo flagello con la recluta di nuovi malfattori cresce tanto da occupare paesi, da costruire proprie sedi, da impadronirsi di città e soggiogare i popoli, prende in maniera più evidente il nome di regno; nome che gli viene ormai apertamente conferito non dalla diminuita cupidigia, ma dalla raggiunta impunità» (“De civ. Dei”, IV, 4). Come si vede la frase incriminata include, e proprio nelle prime parole, un’ipotesi di non secondaria importanza: «Tolta la giustizia (remota justitia), che cosa sono i regni, se non grandi brigantaggi (quid sunt regna nisi magna latrocinia)?». Saltare quell’ablativo assoluto significa tradire il senso condizionale del celebre e tutt’altro che retorico paragone. La giustizia è la caratteristica essenziale della legittimità di uno Stato, il suo fondamento. La vita sociale e politica, la società temporale, lo Stato non sono un ordine di realtà condannabile, ma costituiscono il quadro normale in cui si dispiega la condizione umana creata da Dio. È naturale all’uomo la dimensione sociale e politica: a viverla nei suoi vari gradi e momenti egli è spinto «in un certo senso dalle leggi della natura» (quodammodo naturae suae legibus).
Per Agostino, dunque, la società politica non è affatto una specie di male necessario. Si può dire soltanto che dopo il vitium originis le leggi dello Stato hanno acquistato un carattere coercitivo, essendo non spontaneo né facile l’equilibrio fra i diritti e i doveri, fra le esigenze di singoli o di gruppi, da una parte, e le condizioni richieste dal bene comune, dall’altra. San Tommaso ribadisce questa dottrina in termini non meno chiari: «l’uomo è naturalmente un animale socievole, per cui anche in stato di innocenza gli uomini sarebbero vissuti ugualmente in società» (S. Th. Ia IIae, q. 96, a. 4). Occorre lavorare alla umanizzazione e alla razionalizzazione tecnica dell’esercizio del potere, invece di rifugiarsi nei cieli della fantasticheria nel sogno mitologico di una società senza Stato, senza conflitti, senza storia. Agostino non propone mai una via di consolazione utopistica o di evasiva fuga saecoli. Rivedendo con onestà le sue precedenti tesi sul cosiddetto pessimismo politico di Agostino, Sergio Cotta ha riconosciuto che «Agostino non chiude la politica entro l’orizzonte satanocratico, perché anch’egli scorge, con tutta la tradizione greco-romana, la giustificazione più solida e abituale della politica nella socialità dell’uomo». Per Agostino la natura umana è sociale per essenza e la tendenza associativa degli uomini non è solo istintiva e chiusa, come quella degli animali, ma anche razionale e progressiva, essendo orientata ad attuare i valori morali e l’unità della famiglia umana. Per queste profonde ragioni la domus e l’urbs, la famiglia e la società politica, pur avendo una loro consistente realtà specifica e una loro legittimità, non segnano il limite della vita sociale e politica: questa deve aprirsi, di continuo, alla società umana del mondo intero, l’orbis, se non vuole spezzare e pervertire la tensione teleologica impressa dal Creatore alla natura umana. Lo stesso anelito alla città di Dio, la patria universale senza confini ove idealmente scompaiono tutte le differenze che dividono gli uomini, non impedisce, ma include il giusto attaccamento alla patria di questo mondo, né esonera dai doveri verso di essa e verso lo Stato in cui si concreta come organismo politico. Lo Stato che Sant’Agostino respinge con tutta l’anima è quello che si presenti con i caratteri dell’assoluto terreno, con la pretesa di essere fine e valore supremo, l’unico orizzonte della vita umana: è l’antico idolo pagano dello Stato, la concezione che è di fatto alla base del totalitarismo di tutti i tempi. Ma al di là e contro tale perversione, la natura umana domanda allo Stato una società conforme al suo fine. Con i mezzi che gli sono propri, che sono essenzialmente giuridici e non attingono direttamente al piano della coscienza morale, lo Stato deve garantire i diritti dei cittadini ed attuare la giustizia, senza la quale non è possibile, a nessun livello, una vera e stabile pace. La società civile e politica, per Sant’Agostino, non può agire senza esercitare o violare la giustizia: se l’esigenza della giustizia non è soddisfatta, lo Stato non è neutro e indifferente alla moralità, ma è moralmente cattivo. Una legge ingiusta non è legge (lex esse non videtur quae justa non fuerit) e se il danno che ne deriva investe in modo grave la coscienza morale, ad essa si deve resistere: con senso di responsabilità, facendo ricorso normalmente a mezzi pacifici, a metodi di lotta che non moltiplichino il male, pur opponendoglisi con fermezza. Ed è inutile rilevare la straordinaria attualità di questa concezione.
Il presunto «corto circuito». Il rapporto tra morale e diritto. L’altra accusa mossa di solito ad Agostino è quella di «corto circuito». Nella sua incoercibile aspirazione all’Assoluto egli tende – si dice – a cancellare o quantomeno a non riconoscere appieno – come fa intendere San Tommaso – l’autonomia delle cose create, la distinzione degli ambiti, la specificità dei metodi. Mi è francamente impossibile condividere un giudizio del genere, anche se fatto proprio da studiosi che sono, per altri motivi, molto rispettabili quali Romano Guardini, Dominique Chenu o Wolfhart Pannenberg.
A confutazione di quest’altro luogo comune, assai più sottile del primo, fermiamoci un attimo ad indagare una precisa questione di filosofia politica: il rapporto tra morale e diritto. Ci si aspetterebbe in Agostino, secondo quanto suggerisce il modulo interpretativo del «corto circuito», una contrazione violenta della politica e del diritto nella morale. Ma le cose stanno del tutto diversamente. Secondo Agostino i mezzi che sono propri dello Stato, come s’è detto, sono e rimangono essenzialmente giuridici e non attengono direttamente al piano della coscienza morale. Agostino, mentre sottolinea la doverosa, progressiva connessione tra diritto positivo e legge naturale, ne coglie la differenza, mettendo in luce il carattere di medietà della legge giuridica. Ci si consenta un’altra citazione diretta davvero illuminante tratta dal “De libero arbitrio”. «Evodio: Mi sembra che la legge temporale permetta giustamente alcune cose che la legge della provvidenza punisce. Ciò perché quella prende in considerazione solo ciò che è necessario e sufficiente a conciliare la pace sociale degli uomini. Agostino: Approvo e lodo questa tua distinzione riguardante la legge positiva che, pur essendo imperfetta, confida di sublimarsi in un ordine etico superiore (fidentem et sublimia quaedam petentem). La legge temporale, quella per mezzo della quale si reggono gli Stati, rettamente conduce e lascia impunite molte cose che la divina provvidenza punisce. E ciò è giusto: né per il fatto che non comanda tutto ciò che dovrebbe, secondo la morale, si deve dire che siano riprovevoli quelle cose che comanda» (1, 5).
Questa chiarezza di impostazione sarà ribadita in termini pressoché identici da Tommaso d’Aquino. Anche per lui, infatti, il rapporto tra morale e diritto è dominato dallo stesso principio: «Ai fanciulli si lasciano fare molte cose che si puniscono o si condannano in un adulto. Similmente si devono permettere a uomini non progrediti nella vita virtuosa molte cose che non sono da tollerare in uomini buoni e saggi» (S. TH. Ia IIae, q. 96, a. 2). Contro le astrattezze e le intolleranze di ogni angusto moralismo, Agostino e Tommaso concordano nel giudicare le leggi umane fatte per una moltitudine costituita in maggior parte da uomini tutt’altro che perfetti in virtù; perciò la legge umana non proibisce ogni specie di vizio, da cui i virtuosi si astengono, ma solo i più gravi, da cui è possibile che si astenga la maggior parte del popolo, e specialmente quelli che recano danno agli altri e che renderebbero impossibile l’ordinata convivenza nella società. Non si può essere buoni per decreto-legge o per decisione di un’assemblea. Il diritto positivo deve, invece, lasciare inviolata la sfera della vita privata e della coscienza, perché lì, dove il diritto si ritrae, sono chiamati ad operare fattori squisitamente interiori quali la morale, l’educazione, l’appello della religione a un ordine di vita infinitamente più alto. Non si può, non si deve imporre con la forza e con la coazione ciò che dev’essere conquista della libertà morale. Su questo problema Kant penserà allo stesso modo: anche per lui il diritto attinge dall’etica il suo principio regolatore, ma ne resta pur sempre distinto, pur costituendo la preparazione e insieme la garanzia esteriore del libero svolgimento di essa. Tale spontanea, forse inconsapevole, concordanza di idee e di aspirazioni del filosofo di Königsberg con i due più grandi pensatori cristiani ha per noi un alto significato.
Nuova Secondaria, 15 novembre 1988.