L’Europa è nel caos? Alcuni dicono di sì. Stasera affermerò che se non ci fosse l’Europa sarebbe un pandemonio. Per convincervi, metterò in luce alcuni tratti specifici della cultura europea: la discussione sull’identità, il dialogo tra lingue diverse, il significato di nazione, di libertà, delle donne e di religione in una società secolare. Terminerò parlandovi del seminario che ho tenuto alla “Casa degli adolescenti” a Parigi per il personale che accompagna i giovani a rischio di radicalizzazione. E proporrò un’analisi dell’attuale crisi di coscienza europea attraverso una trasvalutazione delle culture europee, per usare le parole di Nietzsche, Umwertung aller Werte, una grande risorsa per la rifondazione dell’Europa.
Come cittadina europea di nazionalità francese, bulgara di nascita e americana di adozione, non sono insensibile alla severità dei critici, ma intravedo in loro il desiderio di allevare un’identità e una cultura europee. Nonostante abbiano affrontato una crisi finanziaria, greci, portoghesi e italiani e persino francesi non mettono in dubbio la loro appartenenza a una cultura europea; si “sentono” europei, un sentimento talmente ovvio che il Trattato di Roma non ne fa menzione. Che cosa significa questo sentimento? Ha fatto la sua comparsa sulla scena politica solo ultimamente, ad esempio, attraverso iniziative a sostegno dell’eredità europea, ma questo modo di gestire la cultura manca di prospettiva. Sono convinta che la cultura europea potrebbe essere la strada maestra che porta le nazioni europee verso un’Europa federale. Tuttavia, occorre innanzi tutto rispondere a questa domanda: che cos’è la cultura europea? (1)
Quale identità?
In contrasto con il culto dell’identità, la cultura europea non cessa di rivelare il paradosso per cui l’identità esiste, sia la mia che la nostra, ma è infinitamente costruibile e decostruibile.
Sento questo atteggiamento nelle parole del Dio ebraico: Eyeh asher eyeh (“io sono colui che sono” oppure “io sono quello che sono”) (Esodo 3, 14), ripreso da Gesù (“sono io che ti parlo” oppure “sono io”) (Giovanni 4, 26) come identità senza definizione, che rimanda l’“io” in un eterno ritorno alla sua intima essenza. Lo comprendo in modo diverso, nel dialogo silenzioso dell’io pensante con se stesso, secondo Platone, che è sempre “due in uno” e i cui pensieri non forniscono risposte bensì suddividono le risposte in domande. Nel philia politikè, Aristotele annuncia uno spazio sociale e un progetto politico chiedendo una memoria individuale e una biografia personale. In Sant’Agostino c’è una sola patria, che è il viaggio stesso: in via in patria. Montaigne, nei Saggi, dedicato all’identità polifonica dell’“io”, scrive “Siamo fatti tutti di pezzetti, e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento va per conto suo”. Nel Cogito di Cartesio sentiamo “penso dunque sono”. Ma che cos’è il “pensare”? Lo sento ancora nel Faust di Goethe: “Ich bin der Geist der stetz verneint” (io sono lo spirito che continuamente nega). E nell’analisi infinita di Freud: Wo Es war, soll Ich werden (“dove era l’Es diventerà l’Io”).
Alla domanda “Chi sono io?”, la migliore risposta europea non è la certezza bensì l’amore per il punto di domanda. Dopo aver ceduto ai dogmi incentrati sull’identità, fino al punto della criminalità, ora sta emergendo un “noi” europeo. Sebbene l’Europa sia ricorsa a un comportamento barbaro in passato, qualcosa da ricordare ed esaminare sempre, il fatto che abbia – che abbiamo – analizzato a fondo il suo comportamento, forse le permette di offrire al mondo una comprensione e una pratica di identità come inquietudine interrogativa.
È possibile ripensare l’eredità europea come un antidoto alle tensioni di identità, sia nostre che di altri. Senza enumerare tutte le fonti di questa identità interrogativa, ricordiamoci che l’interrogativo continuo può trasformarsi in dubbio corrosivo e odio di sé: un’autodistruzione che è ben lontana dall’essere risparmiata all’Europa. D’altro canto, spesso riduciamo questo bagaglio di identità a una tolleranza permissiva degli altri. Ma la tolleranza è solo il grado zero dell’interrogativo; quando non è ridotta alla semplice accoglienza degli altri, li invita a interrogarsi su se stessi e a portare la cultura interrogativa e il dialogo negli incontri che problematizzano tutti i partecipanti. Questo interrogativo reciprocante produce una lucidità infinita che costituisce l’unica condizione della “convivenza”. L’identità così concepita ci può portare a un’identità plurale e al multilinguismo del nuovo cittadino europeo.
La diversità e le sue lingue
“La diversità è il mio motto”, disse Jean de La Fontaine, nella sua “Pâté d’anguille”.(2) L’Europa è un’entità politica che parla tante lingue quanti sono i paesi che la compongono, se non di più. Questo multilinguismo è la base della diversità culturale e deve essere preservato e rispettato insieme al carattere nazionale; deve altresì essere aperto allo scambio, alla commistione e alle contaminazioni (più letteralmente, all’impollinazione incrociata. Si tratta di una novità per gli europei che merita una riflessione.
Dopo l’orrore della Shoah, la borghesia del 19° secolo, come pure i ribelli del 20°, incominciarono ad affrontare una nuova era. Ora la diversità linguistica dell’Europa sta creando individui caleidoscopici in grado di sfidare il bilinguismo dell’inglese “globale”. È possibile? Tutto sembrerebbe dimostrare il contrario. Eppure sta emergendo poco a poco una nuova specie: un soggetto polifonico e un cittadino poliglotta di un’Europa plurinazionale. L’europeo futuro sarà un soggetto singolare, con una psiche intrinsecamente plurale, trilingue, quadrilingue, multilingue? Oppure ci si ridurrà al Globish?
Più che mai lo spazio plurilingue dell’Europa chiede ai francesi di diventare poliglotti, di esplorare la diversità del mondo e di contribuire con la loro singolarità alla comprensione dell’Europa e del mondo. Questo vale per i francesi e per le altre 28 lingue della polifonia europea. È facendo incursioni in altre lingue che nascerà una nuova passione per ognuna di esse, il bulgaro, lo svedese, il danese, il portoghese, etc. Questa passione non assumerà la forma di stella cometa, folclore nostalgico o vestigia accademiche, bensì fungerà da indice di una diversità che risorge.
Emergere dalla depressione nazionale (3)
Il carattere nazionale può passare attraverso una vera e propria depressione, duratura oppure no, proprio come succede agli individui. L’Europa sta perdendo la propria immagine di potenza mondiale e le crisi in ambito finanziario, politico ed esistenziale sono palpabili. Ma questo è successo anche in molte nazioni europee, tra cui anche la Francia e l’Italia, la cui storia è tra le più cospicue.
Quando uno psicanalista cura un paziente depresso, incomincia sostenendone la fiducia in se stesso. In questo modo si stabilisce un rapporto tra i due protagonisti della terapia e le parole proferite diventano ancora una volta fertili, rendendo possibile un’analisi critica della sofferenza. Analogamente una nazione depressa necessita di un’immagine di sé ottimale prima di intraprendere, ad esempio, l’espansione industriale o un ricevimento più aperto degli immigranti. “Le nazioni, come gli uomini, muoiono di impercettibili sgarbi”, scrisse Giraudoux. La scarsa comprensione dell’universalismo e il senso di colpa per il colonialismo hanno portato politici e ideologi a compiere impercettibili sgarbi, spesso travestiti da cosmopolitismo. Essi agiscono con disprezzo arrogante nei confronti della nazione. Aggravano la depressione nazionale e poi le infondono un’esaltazione maniacale, sia nazionalista che xenofoba.
Le nazioni europee sono in attesa di veder emergere l’Europa e l’Europa ha bisogno di culture nazionali fiere e valorizzate, che offrano al mondo la diversità culturale che abbiamo chiesto all’UNESCO di proteggere. La diversità culturale nazionale è l’unico antidoto al male della banalità, che è la nuova versione della banalità del male. Un’Europa federale, così costituita, potrebbe giocare un ruolo importante nella ricerca di un equilibrio multipolare globale.
Due concezioni di libertà
La caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha chiaramente demarcato la differenza tra la cultura europea e la cultura nord-americana. È una questione di due diverse concezioni di libertà declinate dalle democrazie. Diverse, ma complementari, queste due versioni sono ugualmente presenti nelle istituzioni e nei principi internazionali, sia in Europa che in Nord America.
Per riassumere queste due versioni di libertà, vorrei identificare la libertà con “l’autoinizio”. Kant apre la strada a un’apologia della soggettività intraprendente, subordinata alla libertà della Ragione (pura o pratica) e a una Causa (divina o morale).
In questo ordine di pensieri, promosso dal Protestantesimo, la libertà appare come libertà di adattarsi alla logica della causa ed effetto oppure, per citare Hanna Arendt, come un adattamento o “calcolo delle conseguenze” della logica di produzione, scienza o economia. Essere libero significa fare del proprio meglio per trarre beneficio da causa ed effetto, allo scopo di adattarsi ai mercati e ai loro profitti.
Ma esiste un altro modello di libertà, anche questo di stampo europeo. Compare nell’Antica Grecia e si sviluppa con i pre-socratici e attraverso il dialogo socratico. Non subordinata a una causa, questa fondamentale libertà si dispiega nell’essere parlante che presenta e dona se stesso agli altri, come pure a se stesso, e in questo senso viene consegnato e liberato. Questa libertà dell’Essere della Parola, attraverso l’incontro tra “Uno” e l’“Altro”, si iscrive come una domanda infinita in me, prima che la libertà venga imbrigliata in una relazione di causa ed effetto. La poesia, il desiderio e la rivolta sono esperienze privilegiate che rivelano l’incommensurabile (e tuttavia condivisibile) singolarità di ogni uomo e donna.
Si possono vedere i rischi di questo secondo modello fondato sull’atteggiamento interrogativo: ignoranza della realtà economica, isolamento nelle richieste corporativistiche, limitazione della tolleranza, paura di mettere in discussione le richieste e la politica identitaria dei nuovi attori politici e sociali, rifiuto di accettare la sfida a competere a livello globale e ritorno a un comportamento arcaico e alla pigrizia. Ma si possono vedere anche i vantaggi di questo modello, utilizzato dalle culture europee, che non culmina in uno schema bensì in un gusto per la vita umana nella sua singolarità condivisibile.
In questo contesto, l’Europa è ben lungi dall’essere omogenea e unita. Innanzi tutto, è imperativo che la “Vecchia Europa” prenda seriamente le difficoltà economiche ed esistenziali della “Nuova Europa”(4). Ma è anche necessario riconoscere le differenze culturali e, in particolare, le differenze religiose che stanno lacerando i paesi europei dall’interno e che li stanno separando. È urgente imparare a rispettare le differenze (per esempio, l’Europa ortodossa e musulmana, il persistente malessere nei Balcani e il dissesto in Grecia per la crisi finanziaria).
La necessità di credere, il desiderio di sapere
Tra le varie cause dell’attuale crisi ce n’è una che i politici trascurano: si tratta della negazione di quello che io chiamo bisogno pre-religioso, pre-politico di credere inerente i soggetti parlanti, come noi, che si esprime come un “male dell’idealità” specifico dell’adolescente (che sia originario del posto in cui vive o immigrato).
Contrariamente al bambino curioso, giocoso, alla ricerca del piacere, che desidera sapere da dove viene, l’adolescente è più un credente che un ricercatore; ha bisogno di credere negli ideali per andare oltre i suoi genitori, distaccarsi da essi e superarli. (Ho chiamato l’adolescente, un trovatore, un romantico, rivoluzionario, estremista, fondamentalista, difensore del terzo mondo). Ma la delusione inclina questo mal habitus dell’idealità verso la distruzione e l’autodistruzione, attraverso un percorso di esaltazione: abuso di droghe, anoressia, vandalismo e sesso sfrenato da una parte e dogmi fondamentalisti dall’altra. Idealismo e nichilismo, nella forma di una vuota ubriacatura e martirio ricompensato con il paradiso assoluto, procedono mano nella mano in questo male che colpisce gli adolescenti, e può esplodere in certe condizioni nei soggetti più fragili. Assistiamo alla sua attuale manifestazione nei media con la coabitazione dei traffici mafiosi con l’esaltazione jihadista alle nostre porte, in Africa e in Siria.
Se una “malattia dell’idealità” sta scuotendo i nostri giovani e, con loro, il mondo, l’Europa può offrire un rimedio? Quali idee può offrire? Qualsiasi trattamento religioso di questo malessere, angoscia e rivolta si dimostra inefficace di fronte all’aspirazione paradisiaca del credo paradossale e nichilista che possiede l’adolescente disintegrato e desocializzato nel contesto della spietata migrazione globalizzata. Questo fanatico indignato e rifiutato può minacciare anche noi dal nostro interno. Questa è l’immagine che abbiamo della Rivoluzione dei Gelsomini, portata avanti da giovani avidi di libertà e del riconoscimento della dignità individuale, ma che un altro bisogno fanatico di credere sta spegnendo.
L’Europa si trova ad affrontare una prova storica. È in grado di affrontare questa crisi del credo che il coperchio religioso non riesce più a contenere? Il terribile caos del tandem nichilismo-fanatismo, legato alla distruzione della capacità di pensare e associare, affonda le radici in diverse parti del mondo e tocca i fondamenti del legame che esiste tra esseri umani. È l’idea dell’umano, forgiata al crocevia greco-giudaico-cristiano, con il suo innesto dell’Islam, nella sua universalità instabile, sia singolare che condivisibile, che sembra essere minacciata. L’angoscia che paralizza l’Europa in questi tempi decisivi esprime il dubbio davanti a quello che è in gioco. Siamo capaci di mobilizzare tutti i nostri mezzi, giudiziari, economici, educativi, terapeutici, per combattere con un udito affinato e la necessaria formazione e generosità il male dell’idealità che gli adolescenti disincantati (ed altri), in Europa, esprimono così drammaticamente?
Al crocevia della cristianità (cattolica, protestante, ortodossa), del giudaismo e dell’islam, l’Europa è chiamata a stabilire percorsi tra i tre monoteismi, a incominciare con incontri e interpretazioni reciprocanti, ma anche con elucidazioni e trasvalutazioni ispirate alle scienze umane. Inoltre, l’Europa, bastione del secolarismo per due secoli, è il luogo per eccellenza per elucidare la necessità di credere. L’illuminismo, nella sua corsa contro l’oscurantismo, ne ha sottovalutato il potere.
La psicanalisi reinventata
Come possiamo affrontare le mancanze, e magari le incapacità, dell’umanesimo europeo a porre rimedio a queste nuove sfide? L’umanesimo, nato dallo smantellamento del continente teologico, propone una nuova comprensione della civiltà che infligge un malessere; e offre anche modi per assisterla. Vorrei esaminare uno sviluppo che abbiamo testato presso la Casa di Solenn, la Casa degli Adolescenti (Ospedale di Cochin, a Parigi).
Modestamente, un passo per volta, la psicologia si sta reinventando in questo nuovo contesto.
La mia storia personale mi ha reso particolarmente incline alla prospettiva interdisciplinare e mi ha permesso di associare la mia esperienza intellettuale con i sintomi storici di questa memoria iperconessa che ci sta invadendo oggi. Dalla fine degli anni 80, vedo adolescenti nella pratica di psicoterapia analitica e sono interessata alla specifica struttura dell’adolescente che si estende e persiste nell’età adulta: la “malattia dell’idealità”, il bisogno di credere e il desiderio di conoscere. Ho approfondito le mie conoscenze nella storia delle religioni, come pure nella filosofia dell’Illuminismo, ma ho anche studiato la decostruzione del continente religioso, le sue illusioni e i suoi abusi che distruggono la libertà. L’ho fatto tenendo presente la potenzialità inerente di questo taglio netto con la tradizione (secondo Tocqueville e Hannah Arendt), avvenuto nell’eredità greco-giudaico-cristiana e in nessun altro luogo. Freud ci insegna a varcare questo importante, unico evento a monte per analizzarne le pulsioni inconsce e i tranelli: interminabile “Futuro di un’illusione”, trasvalutazione senza fine dei nostri valori. Mi ha colpito la crescita del gangster fundamentalism, in particolare dai kamikaze islamici e dalle decapitazioni precedenti all’11 settembre, e ho curato una mostra sul tema Decapitazioni nell’arte occidentale, al Louvre nel 1998: rappresentazioni-sublimazioni, la Medusa, Davide e Golia, Giuditta e Oloferne, San Giovanni Battista, e la ghigliottina. La mia ricerca è proseguita nel seminario dottorale, “La necessità di credere”, presso l’Université Paris 7, che da allora, cinque anni fa, si è convertito in un seminario congiunto, teorico e clinico, presso la Casa degli Adolescenti. La mia partecipazione nei forum interdisciplinari in cui partecipano filosofi, teologi, scrittori, artisti e naturalmente psicanalisti, mi ha convinto che si stia pervenendo a una nuova antropologia dove la psicanalisi gioca un ruolo unico nel suo genere. A differenza di altri campi delle scienze sociali, la psicanalisi offre più di un’interpretazione: accompagna veramente gli attori e le vittime del trauma.
Souad fu ricoverata per una grave anoressia: una passione fredda mortificata, attacchi di bulimia e prosciuganti accessi di vomito. Lo svincolarsi del sé, nel processo della “malattia dell’idealità” di cui ho parlato prima, è in corso. Questo lento suicidio indirizzato verso la sua famiglia e il mondo ha abolito il tempo prima di metamorfizzarsi in radicalizzazione. I jeans lacerati e l’enorme golf erano scomparsi sotto un burqa. Souad si era murata nel silenzio e non smetteva di navigare in Internet, dove, con i suoi complici ignoti, scambiava e-mail furiose contro la sua famiglia di “apostati, peggiori degli miscredenti” e aveva preparato il suo viaggio “laggiù”, per diventare l’amante dei combattenti poligami, la madre di martiri prolifici o lei stessa un kamikaze.
Una ragazza di poche parole, Souad era diffidente e reticente nei confronti della psicoterapia come molti altri adolescenti, ma ciò nonostante fu colta di sorpresa da una consultazione “psicoterapeutica multiculturale analitica”, con una decina di altri uomini e donne con storie diverse e diverse capacità, che non si interrogavano, non diagnosticavano, né si giudicavano. Affinavano la diversità empatica del loro gruppo: identificazioni plurali e diffuse, famiglie ricomposte, una comunità riparata. Massima prossimità con gli affetti, sensazioni ed eccitamenti frustrati, umiliati, mortificati. Il gruppo psicoterapeutico trovò un linguaggio per il crollo [effondrement] di Souad che cadeva a pezzi e gioiva a morte di questo svincolarsi (jouir à mort). La ragazza che si descriveva come una “mente scientifica”, brava in matematica, fisica e chimica, ma “un disastro in francese e filosofia”, incominciò a trarre piacere nel raccontare storie, giocare con il gruppo e ridere con gli altri e di se stessa.
Ritrovando la connessione con la lingua francese, domando nella lingua gli impulsi e le sensazioni di sofferenza, trovando le parole per farli esistere, per disfare e rifare, per condividerli: la lingua, la letteratura, la poesia, il teatro riempirono l’assenza di significato e annullarono il nichilismo.
Roland Barthes scrisse che se si trova significato nella pienezza di una lingua, “il vuoto divino non è più minaccioso”. Io direi anche che se si trova significato nella pienezza di una lingua, il fondamentalismo divino non è più minaccioso. Souad non c’è ancora arrivata. Si è rimessa i suoi jeans. Sarà un lungo viaggio. Ma quante ragazze non avranno questa opportunità di essere riconosciute, ascoltate e sostenute, come Souad?
Una cultura dei diritti della donna
Dal tempo dell’Illuminismo alle suffragette, senza dimenticare donne come Marie Curie, Rosa Luxembourg, Simone de Beauvoir e Simon Weil, l’emancipazione delle donne attraverso la creatività e la lotta per i diritti politici, economici e sociali offre un’arena unificante per la diversità nazionale, religiosa e politica tra cittadini europei. Questo tratto distintivo della cultura europea è di ispirazione anche per la cultura e l’emancipazione delle donne. Recentemente, il premio Simone de Beauvoir per la Libertà delle donne è stato assegnato alla giovane pakistana Malala Yousafzai, gravemente ferita dai Talebani per aver sostenuto il diritto all’istruzione delle ragazze nel suo blog.
Vorrei terminare con alcune osservazioni generali. Contrastando i due mostri del nostro tempo, l’economia che ha legato le mani alla politica e la minaccia di distruzione ecologica, lo spazio culturale europeo può offrire una risposta audace. E forse si tratta dell’unica risposta che prende seriamente la complessità della condizione umana, ivi comprese le lezioni della storia e i rischi della libertà.
Sono troppo ottimista? Preferirei dire che sono una pessimista energica. Per mettere in evidenza il carattere, la storia, le difficoltà e le potenzialità della cultura europea, immaginiamo due iniziative concrete: ad esempio l’organizzazione di un Forum europeo sul tema “La cultura europea esiste”, con la partecipazione di eminenti intellettuali, artisti e scrittori dei 28 paesi, che rappresentino uno caleidoscopio linguistico, culturale e religioso. L’idea sarebbe che in questo ensemble plurale e problematico, che è l’Unione Europea, si riflettesse sulla storia e sugli eventi d’attualità e si sollevassero interrogativi intorno alla sua originalità, vulnerabilità e vantaggi. Questo Forum potrebbe portare alla creazione di un’Accademia o un’Università di Culture europee, magari persino di una Federazione di culture europee, che potrebbe servire da trampolino o precursore di una Federazione politica. Il multilinguismo sarebbe un protagonista di questo sogno.
Che forum come quello di stasera possano dare avvio ad altre iniziative ed energie, come le vostre.
Traduzione di Marina Clelia Fracchia della conferenza tenuta a Brescia in lingua inglese il 21.10.2017 su iniziativa dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
Note:
1 Questo testo è stato in larga parte ripreso da un discorso tenuto al simposio internazionale “Europa o Chaos”, al Théâtre du Rond-point des Champs Elysées, il 28 gennaio 2013.
2 Cf. “Diversité c’est ma devise” (Diversità è il mio motto) In Pulsions du temps, di J. Kristeva, 601. Fayard, 2013.
3 Cf. “Existe-t-il une culture européenne?” (“Esiste una cultura europea?”) e “Le message culturel français” (“Il messaggio culturale francese”), in Pulsions du temps, di J. Kristeva, 601 e 635. Fayard, 2013.
4 Secondo la conversa espressione usata dal Ministro della Difesa statunitense, Donald Rumsfeld, durante gli scontri diplomatici sulla guerra dell’Iraq.