Intervista di Lucilla Perrini a Sergio Rapetti pubblicata sul Corriere della Sera, 22.10.2014..
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«Vivere o scrivere, Varlam Šalamov» è il titolo della mostra che verrà inaugurata mercoledì 22 alle ore 18, nella sede dell’Università Cattolica. Promossa dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, Memorial Italia e dall’Università Cattolica, la mostra, che rimarrà aperta fino al 7 novembre (lun./ven. ore 9-20, sab. ore 9-13) è l’occasione per conoscere uno dei più grandi scrittori russi, l’autore de I racconti di Kolyma.
Kolyma è un fiume di duemila chilometri nella tundra desolata della Siberia: lì sorgeva "l’ultimo cerchio dell’inferno carcerario" staliniano, il cosiddetto “Auschwitz di ghiaccio”. Le condizioni di vita erano umanamente impossibili, con temperature che superavano i 50° sotto zero, baracche di legno mal riscaldate, una cronica mancanza di vestiti e cibo, orari di lavoro massacranti. Qui Varlam Šalamov (1907-1982), arrestato nel 1937 per «attività antirivoluzionaria trotzkista», visse quasi vent’anni di internamento, e trovò ispirazione per il suo capolavoro, I racconti di Kolyma. Le opere di Šalamov rimasero per lungo tempo sconosciute: censurate in Russia, in Occidente iniziarono a diffondersi e ci si accorse allora della sua grandezza.
Oggi è uno dei grandi scrittori della letteratura russa del Novecento, sia per il suo stile letterario, potente e insieme poetico, sia per il suo progetto di scrittura che concepisce lo scrittore come un nuovo cronista, un testimone che deve farsi carico di quanto accade.
Mercoledì interverranno all’inaugurazione Sergio Rapetti, studioso di Šalamov e Francesca Gori, Presidente di Memorial Italia. Sergio Rapetti, consulente editoriale e traduttore di decine di testi di letteratura e saggistica russa all’epoca del dissenso, ha curato la pubblicazione di V. Šalamov, Alcune mie vite. Documenti segreti e racconti inediti, e tradotto I racconti di Kolyma.
Prof. Rapetti, Varlam Šalamov è uno dei più importanti scrittori russi del XX secolo. Ci racconta il suo itinerario personale e artistico?
«Tralasciando la sua produzione poetica (circa 800 composizioni nell’arco di oltre 40 anni) il suo capolavoro sono I racconti di Kolyma, un grandioso ciclo narrativo di 145 componimenti che colloca Šalamov tra i maggiori prosatori del Novecento. Li scrisse dopo la morte di Stalin, tra il 1954 e il 1972, per diciotto anni, la stessa durata della detenzione di Šalamov tra carcere, deportazione, campi di lavoro forzato e confino. Nel 1938 era iniziata la sua “discesa agli Inferi” nelle miniere e nei cantieri dell’estremo nordest siberiano: è il “forno crematorio bianco”, che aveva inghiottito per denutrizione, malattie, gelo e sfinimento da lavoro milioni di detenuti.
Anche Šalamov era destinato a non tornare e l’ha salvato la morte di Stalin. Poi, nel clima della destalinizzazione e del disgelo letterario chrusceviano, cominciò a scrivere i suoi racconti, che non avevano superato il vaglio della censura, erano finiti relegati nei cassetti delle redazioni e da lì avevano cominciato a circolare nel samizdat. Così, per molto tempo, gli unici a poter accedere senza rischi alla prosa di Šalamov sono stati i lettori russi emigrati e quelli occidentali, grazie a edizioni, sempre parziali, ma sempre più corpose dei racconti. Per Šalamov invece, a causa dei racconti, era iniziata una nuova via crucis fatta di controlli polizieschi, emarginazione, solitudine, indigenza, durata fino alla morte nel 1982. La prima edizione completa dei suoi racconti in Russia è apparsa solo nel 1998».
Roberto Saviano ha affermato che «Varlam Šalamov è stato il più importante scrittore per la mia formazione». Qual è il fascino di questo libro?
«Anzitutto devo precisare che il ciclo dei Racconti di Kolyma da un certo punto in poi ha conosciuto anche in Italia se non tutta la fortuna che meriterebbe, un ampio apprezzamento, e la sua “scoperta” da parte di Saviano ne è una riprova. L’Italia ha anzi giocato un ruolo importante nella sua ulteriore diffusione, con la pubblicazione nel 1999 (un anno dopo l’uscita della versione completa e definitiva in Russia) della loro prima traduzione mondiale integrale per Einaudi. Quanto al fascino che esercitano, ritengo che il lettore, sia egli o meno scrittore, non riesca a sottrarsi a un coinvolgimento profondo che nasce sì dalla loro veridicità, ma una veridicità tutta “šalamoviana”. È un esito ma anche un metodo».
Cosa intende per “veridicità šalamoviana”?
«Delle modalità che aveva individuato per far rivivere la memoria dei milioni di vittime innocenti del Gulag attraverso la propria esperienza, Šalamov ha ragionato in saggi e pagine sparse. Sosteneva che se ogni suo racconto vuole avere la veridicità del documento “l’autore deve indagare il suo materiale con la propria pelle, non solo con l’intelletto, col cuore, ma proprio con ogni poro, ogni nervo”. I dettagli di una situazione, di una vita, devono essere tali da convincere il lettore “come una ferita non rimarginata del cuore”. E perché ciò avvenga, “bisogna far rivivere l’emozione di allora; essa deve tornare ad agire superando vittoriosa il filtro del tempo che passa, delle opinioni che mutano; solo a queste condizioni si può far rivivere la vita”».
Anche questo contribuisce a spiegarci la sua grandezza di scrittore?
«Questo scrupolo sovrumano di voler restituire alla memoria i fatti nel loro accadere corporeo e intimo di allora, nel Gulag, al prezzo di un riaccendersi qui e ora della sofferenza fisica e spirituale, con pianti e grida necessari a rievocarli, è già qualcosa che coinvolge e commuove. Ma Šalamov è anche poeta e la sua prosa migliore ha spesso accenti e accensioni liriche di grande intensità. Quando Solženicyn nel suo famoso Arcipelago Gulag gli rende omaggio dicendo con modestia di avere potuto vedere, nella sua opera, quella realtà “solo da una feritoia”, mentre lo sguardo di Šalamov sullo “spirito spietato dell’Arcipelago e il limite della disperazione umana” era stato dall’ “alto di una torre” rende implicitamente omaggio al suo metodo. Che ha per nerbo l’ispirazione poetica, una “torre” non d’avorio che permette di vedere e dire cose che concernono ogni persona umana di qualsiasi parte del mondo».
Per Šalamov l’esperienza del Gulag è stata negativa sotto tutti i punti di vista. Ciò nonostante in una poesia afferma che “sull’epoca tremenda sono uscito vincitore”. Qual è il senso di queste parole?
«Il senso è quello che ho detto prima: ha vinto l’epoca tremenda praticando strenuamente “poesia e verità”, vivendo una vita testimonianza di fatti non solo “attendibili” ma “significativi”. E tutto ciò gli è sopravvissuto nell’opera poetica e letteraria, è sopravvissuto all’epoca feroce, malgrado le sofferenze di una vita segnata fino alla fine dalla sventura ed è sopravvissuto nel tempo. E poi la sua vittoria ha anche un altro connotato: quando i suoi scritti iniziarono a circolare clandestinamente in Russia e nel mondo, a chi lo definiva letopisec, cioè cronachista della Kolyma (al modo degli annalisti delle cronache antiche), Šalamov replicava “sono il cronachista della mia anima e niente di più”».
Come va intesa l’affermazione di Šalamov che “l’arte esige che vi sia conformità tra l’azione e la parola detta”?
«Šalamov ha sempre detestato i moralizzatori e la loro precettistica, alla quale non conseguono comportamenti adeguati. Per sé, e per sé solo, s’era dato una sorta di tavola della legge cui attenersi in prigionia, fatta di ben 47 punti ma riassumibili in uno solo: “mai sulla pelle degli altri”».
Che immagine hanno i giovani russi del Novecento? Cosa sanno delle repressioni politiche, del Gulag?
«Da parte delle autorità politiche è qualcosa che oggi si tende a oscurare, nella misura in cui intralcia il trionfalismo patriottico grande-russo. Ma i giovani, sono già per conto loro disinteressati nei riguardi delle assurdità che hanno combinato i loro genitori e progenitori e perseguono una vita il più possibile spensierata ed edonistica, grazie all’aumentato tenore di vita nelle città.
Però vorrei aggiungere una pennellata al fosco quadro del “postcomunismo” che ormai si usa dipingere. Da Gorbačëv e soprattutto da El’cin in poi fino a Putin, in Russia si è potuta ricostituire l’unità delle due culture e letterature separate con la violenza da Lenin in poi: quella della metropoli e quella delle emigrazioni (tre nel tempo), sono tornati con i loro libri i grandi filosofi e letterati, continuamente rieditati, sono uscite le opere complete di scrittori e poeti rifiutati dal regime precedente (compreso Šalamov); autorevoli centri di studio indagano fin nei minimi dettagli in opere storiche poderose, con l’apporto di studiosi occidentali, anche italiani, la storia russa e sovietica del XX secolo. Tutto questo c’è già ed è destinato a restare, dando frutti nelle generazioni future.
Ma per l’oggi, anche alla luce di preoccupanti indizi di involuzione autoritaria e revanscista, c’è da temere, che dopo i settant’anni della “caserma ideologica” allestita in Russia fin dal 1917 cali durevolmente sul Paese una torbida e cinica “epoca del disincanto”. Dio non voglia che abbia una durata pari alla precedente».