Sartre e Dio
In una edizione italiana del 2005, di un testo tedesco non recente, Rupert Neudeck, a proposito di una citazione in Les mots, testo autobiografico che ottenne un Nobel rifiutato, tiene a dire che lo Spirito Santo si trova lì non come “barzelletta” o “caricatura”, ma come eredità nascosta del Sartre “cattolicamente educato”: “Per tutta la sua vita e per tutta la sua oeuvre Sartre non aveva mai potuto rimuovere completamente quest’eredità cristiana”. Le sue radici sono riconosciute nella sua religione cristiana, nelle due versioni del cattolicesimo (i Sartre) e del protestantesimo (gli Schweitzer). Ed inoltre, sempre nel romanzo autobiografico, Sartre aveva scritto: “Avevo bisogno di Dio, mi fu dato, lo ricevetti senza capire che lo cercavo. Non potendo attecchire nel mio cuore, egli ha vegetato in me, poi è morto. Oggi, quando mi si parla di Lui, dico con quel tanto di divertito senza una punta di rimpianto con cui un vecchio vagheggino si rivolge a una vecchia fiamma incontrata per caso: ‘Cinquant’anni fa, senza quel malinteso, senza quell’errore, senza quell’incidente che ci separò, avrebbe potuto esserci qualcosa fra noi”. In Sartre par lui même (1972):
Sartre – La spiegherei dapprima con un fatto, vale a dire che un fanciullo dell’epoca aveva una religione – che era la religione cattolica, per esempio – e che aveva una famiglia molto frantumata dal punto di vista della religione, poiché anzitutto credevano pochissimo gli uni e gli altri – credevano un pochino, il tempo di ascoltare un poco l’organo a Saint-Sulpice o a Notre-Dame, ma in sostanza non molto – e poi aveva ciascuno la propria religione: mio nonno era protestante ma mia nonna era cattolica. Mi madre mi educava nei sentimenti cattolici, il nonno lo aveva permesso, ma egli si faceva beffe di queste cose – in una maniera d’altronde poco importante, non mi sembrava che egli avesse particolarmente ragione – ma semplicemente il fatto cattolico, quando appariva, era contestato. Allora ho perduto la fede completamente verso gli undici anni, o piuttosto mi sono accorto che l’avevo perduta: ero a La Rochelle, attendevo due amichette con cui prendevo il tram per andare al liceo, e per distrarmi mi sono detto: “Toh, Dio non esiste”. È caduto in questo modo e non è mai ritornato. Ed era nei fatti una presa di coscienza di ciò che avevo concepito prima.
Questa premessa all’argomento scelto è d’obbligo perché tra le varie definizioni con le quali è stata più frequentemente etichettata la filosofia di Sartre c’è quella di “esistenzialismo ateo”. Se sulla definizione di esistenzialista Sartre ha manifestato sempre perplessità (ma preferendola costantemente a quella di marxista), dell’ateismo egli ha spesso dichiarato che era strutturale al suo pensiero. Ma la sua filosofia non fa fatto i conti con Dio una volta per tutte, perché sul tema è ritornata più volte.
Nel 1961, aveva dichiarato, rifacendosi a Merleau-Ponty: “Si crede di credere ma non si crede”. La fede, quindi, era intesa come illusione. Era anche l’illusione dell’uomo di diventare Dio, cioè, ma non solo, di realizzare l’immortalità. Potremmo dire che queste sono illusioni kantianamente “trascendentali”, cioè ineliminabili, pur nella consapevolezza della loro erroneità. E Sartre, a questa “passione inutile” farà riferimento sino alle fine della sua esistenza, segnalando i residui attivi che ancora, di quella fede, operano in lui che si era proposto di scrivere la “prima” filosofia atea.
Ma, pur partendo dall’affermazione “Dio non è”, ritorna la domanda, già presente nella sinistra hegeliana, da Feuerbach in poi: “Perché si crede in Dio, se Dio non è?”. La prima risposta di Sartre è che l’uomo pensa Dio perché tende ad essere Dio, cioè soggetto di statuto divino: causa sui. Certamente la fede è una passione non una costruzione razionale. In Sartre, questa passione non è gratuita, in quanto si paga con l’angoscia, con il silenzio, con il vuoto. Ed è dannosa, poiché per inseguirla, il soggetto rinunzia alla propria capacità essenziale, alla costruzione della morale e della storia. Nonostante questi danni, l’uomo non può fare a meno di assumere per sé il punto di vista di Dio, di pensare “come se Dio esistesse”, perché la natura del Dio creduto è la stessa natura dell’uomo, che, però, è specificata dalla contingenza e dalla penuria.
Nel 1974, all’interno di colloqui-interviste con Simone de Beauvoir, la riflessione si concludeva con il tema dell’assenza di Dio. Sembrerebbe come se de Beauvoir avesse voluto chiudere la sua cérémonie des adieux, riprendendo il grand affaire della filosofia sartriana: le cose sono sole, l’uomo è solo come un assoluto. Era questo il compito dell’ateismo materialistico: far vedere la voracità insaziabile dell’immagine divina fabbricata dall’uomo, che è poi l’uomo moltiplicato all’infinito.
Qui si colloca il problema della morale, perché, per Sartre, la certezza, indimostrabile, dell’assenza di Dio apre una domanda che ribalta, ancora una volta, il tema agostiniano: se Dio è, unde malum, e se Dio non è, unde bonum? Il bene di cui si parla non è quello metafisico o fisico, è quello morale. In L’existentialisme est un humanisme si legge che alcuni filosofi laicisti ed atei hanno voluto togliere di mezzo Dio “con la minima spesa”. Alla fine dell’Ottocento, osserva Sartre, hanno ragionato affermando che Dio è un’ipotesi inutile e costosa, e che solo per questo andava eliminata. Ma non si può contemporaneamente rinunziare a Dio e ai valori e, pertanto, per quei pensatori, occorreva dimostrare che quei valori esistono a priori anche in assenza di Dio. “Dostoevskij ha scritto: ‘Se Dio non esiste tutto è permesso’. Ecco il punto di partenza dell’esistenzialismo”. Ma Sartre non è d’accordo perché in ciò consiste la condanna alla libertà. L’uomo è “condannato perché non si è creato da solo, ed è, ciò non di meno, libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quanto fa”.
Sartre, lungo la sua vita, dichiarerà che per sessant’anni non si è più posto il problema e ha ragione se ci riferiamo alla eventuale riproposizione della domanda intorno all’esistenza di Dio come opzione della coscienza. Però la questione-Dio continua ad essere presente in molti scritti e nella sua riflessione. Se in L’Être et le Néant l’ateismo è divenuto la pelle di quella filosofia ed è, pertanto, indiscernibile dalla totalità dell’opera, nei Cahiers pour une morale, scritti tra il 1947 e il 1948, quale debito, rimasto insoluto, con i lettori del saggio ontologico, il tema-Dio è ripreso in maniera frontale.
Quegli appunti presentano una radicalizzazione filosofica dell’ateismo, in maniera organica e articolata come in nessun’altra delle opere sartriane. L’Être et le Néant era stato, infatti, la summa, il manifesto, le discours de la méthode, ma non tutto vi era stato adeguatamente fondato e giustificato. Soprattutto la morale, tanto che della famosa espressione: “Noi siamo condannati a essere liberi”, Sartre dirà che “ciò che significa […] non lo si è mai ben compreso. È non di meno la base della mia morale”. Pochi anni prima della sua morte, avvenuta nel 1980, Sartre riaffermerà che L’Être et le Néant conteneva una esposizione delle ragioni del suo rifiuto dell’esistenza di Dio, ma che quelle non erano le ragioni autentiche del suo ateismo. Il suo ateismo, insomma, era stata l’intuizione degli undici anni e non era riducibile a una discussione di tesi filosofiche sulla possibilità-impossibilità dell’esistenza di Dio.
Oggi c’è una retrodatazione che potrebbe porre il problema Sartre-fede in maniera leggermente diversa. Ci si riferisce a una pièce che Sartre scrisse nel 1940, quando era recluso nel campo di concentramento e che affronta in maniera diretta il problema del rapporto uomo-Dio. È la stessa Simone de Beauvoir a descriverci la nascita di Bariona, ou le Fils du tonnerre: “Allo stalag XIID a Trèves dove era prigioniero dall’agosto 1940, Sartre intrattenne rapporti eccellenti con parecchi sacerdoti, in particolare con l’abate Page che, mi si dice, aveva guadagnato la sua simpatia per il suo charme e per il ‘rigore con il quale accordava la sua condotta alle sue convinzioni’”. Secondo una recensione, che Rémy Roure riprese in un articolo del “Figaro Littéraire”, Bariona ottenne un grande successo presso i prigionieri e avrebbe anche provocato la conversione di uno di loro, sconvolto dalla recita “sincera, ardente, bruciante di fede” di Baldassarre-Sartre.
Sono il tema e il privilegio dell’incarnazione a caratterizzare tutto il mistero, che diviene il mistero della sacralità della carne umana: “E guardate, l’angelo ha l’aria interdetta davanti a questi pensieri troppo umani: rimpiange d’esser angelo perché gli angeli, non possono né nascere né soffrire. E questo mattino d’Annunciazione, davanti agli occhi sorpresi di un angelo, è la festa degli uomini, perché è la volta dell’uomo di essere sacro”.
Bariona è già la lotta esplicita tra uomo e Dio, tra le loro due libertà assolute. La libertà è l’unico elemento che non possiamo espungere da noi. Come affermerà in quegli anni, secondo Sartre all’uomo non è tolta alcuna libertà, fuorché una: quella di non essere libero. È questo il tema centrale di Bariona: il Dio fatto uomo. Mistero pari al mistero del concepimento e della maternità, in cui la madre sente, volta per volta, che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo per lei, e che è Dio.
Bariona o il figlio del tuono (1940), campo di concentramento a Treviri: due gesuiti gli chiesero di scrivere una rappresentazione teatrale sul Mistero della Natività. Sartre interpreta Baldassarre:
Ed è un’altra dura prova per una madre avere vergogna di sé e della sua condizione umana davanti al proprio figlio. Ma io penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e sfuggenti, in cui essa sente volta a volta che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo per lei, e che è Dio. Lo guarda e pensa: “Questo Dio è il mio bambino. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi somiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per sé sola. Un Dio così piccolo che si può prendere tra le braccia e coprirlo di baci, un Dio tutto caldo che sorride e che respira, un Dio che si può toccare e che vive”. (Bariona ou le Fils du tonnere, pp. 616-617)
Gli anni che vanno dal 1943 al 1948, anno in cui Sartre abbandona la scrittura degli appunti dei Cahiers pour une morale, sono gli anni del consolidamento dell’ontologia e dell’antropologia atee e, contemporaneamente, del radicamento della fondazione di una morale laica e radicale nelle prospettive. Però, in quegli stessi anni, Sartre non tralascia alcuna occasione per affrontare con la consueta serietà, pur all’interno del suo universo concettuale, le problematiche della religiosità, del sacro, di Dio. Per esempio, ancora nel 1944, Sartre parla del pensiero religioso e afferma che esso rimane anche nei non credenti. Scrive, in quel frangente, Sartre: “L’esistenzialismo non è niente di tutto, se non un certo modo di esaminare le questioni umane rifiutando di dare all’uomo una natura fissata per sempre. Esso andava, altre volte, in Kierkegaard, di pari con la fede religiosa. Oggi, l’esistenzialismo francese tende ad accompagnarsi a una dichiarazione di ateismo, ma ciò non è assolutamente necessario. Tutto quello che posso dire – e senza voler insistere troppo sulle somiglianze – è che esso non si allontana molto dalla concezione dell’uomo che si troverebbe in Marx”.
Ciò che costituisce, negli anni Quaranta, il nesso Sartre-Dio-morale è la convinzione che la Weltanschauung degli atei sia della stessa natura di quella dei credenti. Se è difficile isolare in L’Être et le Néant ciò che è discorso sull’ateismo da ciò che non lo è, si può dire che la nozione di Dio è vista come trasposizione della nozione di Autre. Vi è, certo, la vergogna davanti a Dio, “cioè il riconoscimento della mia objectivité‚ davanti a un soggetto che non può mai divenire oggetto” ed in ciò è la base della alienazione umana, ma vi sono anche la profonda contraddizione e il “perpetuo scacco” implicati nel tentativo di riconoscimento assoluto di Dio come soggetto che non può mai essere oggetto. Il che è poi l’eterna illusione dell’uomo: non essere oggetto, ma pura coscienza.
Allora, la razionalizzazione, non nuova, che Sartre presenta dell’idea di Dio è quella di un essere verso cui la realtà umana tende e che è nel cuore della stessa realtà: Dio è la realtà umana vista come totalità. Per Sartre, insomma, “l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio”. Al di là dei riti e dei miti delle religioni positive, Dio è anzitutto “sensibile al cuore” dell’uomo come chi lo annunzia e lo definisce nel suo progetto ultimo e fondamentale: “Essere uomo, è tendere a essere Dio: o, se si preferisce, l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio”. La domanda sottesa rinvia ancora ad altre questioni: perché l’uomo desidera essere Dio e non si accontenta della propria contingenza? Da dove e perché nasce l’esigenza di diventare Dio?
Siamo, quindi, nella fase di un ateismo non trionfante e glorioso, ma squilibrato ed insicuro, perché la ragione umana è ragione essenzialmente teologica, cioè ragione che funziona come se l’orizzonte umano fosse l’orizzonte divino. Si tratta, allora, di decostruire quella ragione. Sartre non perde occasione per procedere nel suo progetto. Nel 1946, “Il Politecnico” di Elio Vittorini, rivista di una intellettualità vicina al Partito Comunista Italiano (da cui ripetutamente Sartre si dirà attratto, sino alla morte di Palmiro Togliatti), pubblica alcune domande a Sartre e a Simone de Beauvoir e le relative risposte. Gran parte dell’intervista è dedicata al problema religioso. Sartre ha modo di chiarire, ancora una volta, alcuni punti importanti della sua concezione, quando dice che anche l’ateismo è un rapporto con Dio. Afferma che è necessaria una conversione filosofica all’ateismo, ma respinge la critica marxiana della credenza in Dio, in quanto questa, secondo il nostro autore, non è originata dal condizionamento storico e sociale, ma dalla situazione umana: “Per dirlo con una formula, si tratta di rovesciare il mito di Cristo. In Cristo c’è un Dio che si sacrifica perché l’uomo viva; ma in realtà la passione dell’uomo è quella di sacrificarsi perpetuamente perché Dio esista. Sacrificio inutile e dannoso”. È inutile perché non produce salvezza, dannoso perché comporta il sacrificio della libertà umana.
Il sentimento religioso è, però, su quelle premesse, una struttura permanente del progetto umano. Allora, l’uomo è condannato a pensarsi “secondo Dio”, “come se Dio esistesse”? Sartre è convinto che nell’epoca moderna moltissimi uomini si rendono conto che “Dio è morto”; è però anche convinto che non sarà l’ateismo tradizionale quello che potrà salvaguardarci dagli dei. L’umanesimo ateo non sostituisce a Dio miti o altre formule religiose, perché esso è rivolto a espellere i residui religiosi da ogni luogo. Ma è possibile tutto ciò, se la nostra è una ragione “teologica”?
La risposta indiretta è questa: quello sradicamento è possibile, ma produce sofferenza. Un tale ateismo, che pure è segno di emancipazione umana, si paga, però, secondo Sartre, con la solitudine e la disperazione: “Esso è la persuasione che l’uomo è un creatore, e che è abbandonato, solo, sul mondo. L’ateismo non è quindi un allegro ottimismo, ma, nel suo senso più profondo, una disperazione”.
Tutta questa problematica assume il carattere sistematico di una “critique de la raison théologique” che troveremo nei Cahiers pour une morale, dove il problema di Dio è affrontato in maniera tendenzialmente esaustiva. Qui abbiamo la fondazione più radicalmente filosofica dell’ateismo sartriano e il tentativo di una teologia dell’ateismo, partendo da una analisi metastorica della condizione umana. Infatti, l’uomo “si vuole Dio o Natura: oscillazioni. In generale tutt’e due le cose insieme”. L’idea di Dio, come Altro assoluto, genera il Dio mitico, che è il Dio Re o Sovrano o Padrone. La fede cristiana, scrive Sartre, parte appunto dal presupposto che l’uomo si possa vedere con gli occhi di Dio. “Egli [il Capo] è puro sguardo. Il suo sguardo come quello di Dio mi attraversa, dissolve gli accidenti (soggettività) e va all’essenziale. Io sono dunque perpetuamente sotto il suo sguardo, vivo sotto sguardo. Da questi momenti, per lui come per me, la menzogna perde la sua nocività”.
Nel primo dei Cahiers, Sartre dice che ciò che conta nell’homo religiosus non è girare lo sguardo verso Dio, ma è, al contrario, sentirsi guardati da Lui. Così Dio, in quanto tale, è oggetto di una credenza marginale: vi si crede solo quando vi si pensa. Per contro, noi abbiamo l’esperienza perpetua di essere objet-de-regard, perché l’esistenza altrui l’abbiamo nella dimensione originale, presente anche nella condizione di solitudine d’exister sous regard: “Credere in Dio è fare solamente che questo sguardo (che è quello del sovrano) di fatto sia nello stesso tempo un dover-essere. Ora è una falsificazione comoda, poiché lo sguardo per natura è libertà. Dio come il sovrano è il milieu della nostra necessità. Uomini di diritto divino”.
Nel secondo Cahier, Sartre trae da queste sue domande delle risposte. Creando, l’uomo si crea, e da quello che crea apprende ciò che è e così diviene causa sui, ma solo sul piano dell’autosignificazione di se stesso. Sartre cita il mistico tedesco del XVIII secolo Silesius Angelus: Dio ha bisogno di me. Ma il testimone di Dio non è degno di lui, in quanto non può essere un altro Dio. Dio ha creato l’uomo libero e la libertà è infinita. “C’è qui l’idea stessa del rischio. Il rischio di Dio è la libertà dell’uomo, proiezione nell’assoluto del rischio del creatore umano che non crea la libertà dell’Altro ma che crea nella dimensione della libertà dell’Altro”. Il “moralismo” sartriano, inteso solo come ineludibilità di una prospettiva morale, ritorna. Nella cultura dell’uomo borghese Dio è morto e l’Eterno è stato sostituito dall’infinito temporale. Ma la morte di Dio ha aperto all’uomo gli spazi che da solo si era alienato: “Se Dio non esiste, noi dobbiamo da soli decidere del senso dell’Essere”.
Qui il nodo essenziale: anche l’ateismo è una della forme della fede: “La decisiva assenza di fede è una fede incrollabile. Il fatto che un universo senza mito sia una rovina di universo – ridotto al nulla delle cose – privandoci eguaglia la privazione alla rivelazione dell’universo…”. Morto Dio, la definizione dei valori spetta all’uomo, nel suo essere società, e alla Storia: “L’uomo si trova erede della missione del Dio morto: tirare l’Essere dal suo sprofondamento perpetuo nell’assoluto indistinto della notte. Missione infinita. Quando Pascal scrive: il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa, parla da non credente, non da credente. Perché, se Dio esiste, non c’è silenzio, c’è l’armonia delle sfere. Ma se Dio non esiste, allora sì, questo silenzio è spaventoso perché non è né il niente d’essere né l’Essere illuminato dallo sguardo. È il richiamo dell’Essere all’uomo; e già Pascal si suppone come passione, trascinato solo in questi spazi per integrarli al mondo”. La disperazione conseguente all’ateismo deriva da questo sentirsi, in linea con un Pascal credente, vaganti in un infinito ontologicamente ed eticamente insignificante.
La domanda di fondo rimane: qual è il rapporto tra morale, fede e politica?
Nel 1951, Le Diable et le bon Dieu, riprende nello sfondo il tema di Dio e in maniera diretta quello della morale efficace. Il protagonista, Goetz, decide di personificare prima il Male assoluto, poi il Bene assoluto. L’effetto è, comunque, disumano perché tutti e due i percorsi sono intessuti di morte. L’odio come via per l’amore è, qui, la traduzione di un altro nesso concettuale di Sartre: la violenza come via per il Bene e per la giustizia. È stato scritto che questa opera teatrale è una “stupenda allegoria dell’ateismo militante” di Sartre. Le Diable et le bon Dieu è, sì, la commedia del disincanto, della frustrazione derivata dalle pratiche gratuite e velleitarie del Bene e del Male, ma è anche un testo che sancisce l’ineludibilità dell’etica, pure in un universo ateo. Questa etica sarà un’etica duttile nelle strategie e in cui i valori si misurano sui risultati. È Machiavelli contro il machiavellismo. È il Machiavelli che deve coniugarsi col progetto marxiano.
L’opera sartriana apparentemente più lontana dalla tematica religiosa è proprio la Critique. La radice del discorso è ancora profondamente etica, perché la rivoluzione, per Sartre, si giustifica soltanto all’interno della dialettica tra Bene e Male. Il tema religioso non è esplicitato direttamente, ma è filtrato da quello etico. Leggiamo: “Nel manicheismo della rareté, la violenza è al servizio del Bene, essa stessa è il Bene”.
Nello stesso periodo Sartre si sofferma su un problema che riappare periodicamente alla sua riflessione: quello della immortalità, così come è presentata dal vissuto di un credente e come viene tradotta nella consapevolezza di un ateo. Leggiamo in Les écrivains en personne, del 1960: “Il cristiano, per principio, non teme la morte perché deve morire per cominciare la vera vita. La vita terrena è un periodo di prove per meritare la gloria celeste. Ciò comporta degli obblighi precisi, dei riti da osservare, ci sono dei voti come: obbedienza, castità, povertà. Io prendevo tutto ciò e lo trasferivo sul piano della letteratura: sarei stato misconosciuto per l’intera mia esistenza. Ma avrei meritato la vita eterna per la mia applicazione nello scrivere e per la mia purezza professionale”.
Tra il primo tomo e il secondo tomo della Critique, Sartre si sofferma su un autore che lo aveva condizionato molto, per quanto costituisse il pendant alternativo alla sua concezione dell’esistenza: Kierkegaard. Partecipando, nel 1964, al convegno parigino su Kierkegaard vivant, Sartre aveva quasi fatto il consuntivo non solo dell’attualità del danese, ma di quello che questi aveva rappresentato indirettamente per la formazione del suo pensiero.
Uno dei temi kierkegaardiani su cui Sartre si sofferma maggiormente è il paradosso della storicità, congiunta alla transistoricità, di Cristo. Quella congiunzione è, però, di tutti e in tutti i soggetti. Questo è lo stesso tema del secondo tomo della Critique, ma è anche il tema permanente di come si possa surrogare la nozione cristiana con una parallela nozione laica di immortalità. Scrive Sartre: “E, beninteso, ciò che [Kierkegaard] ha di mira qui è il paradosso scandaloso della nascita e della morte di Dio, della storicità di Gesù. Ma bisogna andare più lontano perché, se la risposta è affermativa, la transistoricità appartiene, allo stesso titolo di Gesù, a Soeren, suo testimone, a noi, nipotini di Soeren. E, come dice egli stesso, noi siamo tutti contemporanei”.
Se Abramo era l’uomo della fede, del dogma, della credenza positiva, anche per l’ateo Sartre il tema del dogma è uno di quelli che non possono essere liquidati. La relazione del ‘64 riaffronta in maniera diretta il problema di Dio. L’idea di Dio è in noi, non è costruzione artificiosa, razionale; essa ci costituisce nel momento in cui esistiamo pensando di divenire Dio: “Occorre tornare a Kierkegaard e interrogarlo come testimone privilegiato. Perché privilegiato? Io penso alla prova cartesiana dell’esistenza di Dio per il fatto che io esisto con l’idea di Dio”.
Concludiamo con domande finali. Quando Dio è diventato non-problema, la sua idea è ininfluente? Sartre conferma, nei colloqui con de Beauvoir, che in lui sono rimasti elementi dell’idea di Dio. Egli non si sente un granello di polvere apparso nel mondo, ma un essere atteso, provocato, prefigurato; si sente un essere che sembra poter derivare solo da un creatore, da una mano creatrice che rinvia a Dio. Naturalmente, Sartre riconosce che l’idea della “creaturalità” non è chiara e precisa, e che entra in funzione ogni volta che pensa a se stesso. È un’idea, egli sottolinea, che contraddice molte altre, però è un’idea che rimane presente, vaga. Dio permane, quindi, anche nel Sartre settantenne, come orizzonte, come illusione trascendentale, come errore inconsapevole ma ineliminabile. Lo stesso impianto morale è riportato alle nozioni di Bene e di Male assoluti ricevute da Sartre con il catechismo. In lui si sovrappongono il moralismo assoluto e la sensazione illusoria di essere “creatura”.
La “critica della ragione teologica”, che era esposta nei Cahiers, non era orientata a sostituire le vécu di un’assenza di Dio, intraducibile in dimostrazioni e concetti filosofici. L’ateismo rimane una opzione totale nei confronti del mondo. Nello stesso momento in cui lo afferma, però, e sono passati oltre trent’anni dall’opera ontologica, Sartre non ha remore nel dichiarare che gli rimangono dei residui di quella fede in Dio che era il bersaglio forte e qualificante del suo programma intellettuale. È, indirettamente e anche provocatoriamente, l’attestazione di una insufficienza di una critica della “illusione” teologica, come di ogni critica filosoficistica che voglia eliminare ciò che è riconosciuto come elemento costitutivo della coscienza del soggetto.
Infine, le interviste concesse da Sartre a Benny Lévy per “Le Nouvel Observateur” e che apparvero pochi giorni prima della morte del filosofo, se per molti critici non furono autentiche, propria per l’apparente novità dei temi e dei lessici morali, costituiscono la continuità di un pensiero che recupera e rilegge positivamente i temi della speranza e della fraternità.
Sartre, in quei colloqui, ribadisce che l’uomo desidera esser Dio, cioè causa di se stesso. Senza ambiguità, Sartre è esplicito. Il ricondursi al desiderio di essere Dio, cioè di essere causa sui, comporta la coscienza di trovarsi all’interno della tradizione che va dal cristianesimo a Hegel, anche se Sartre dichiara di tentare il superamento dei fini e dei confini del cristianesimo.
Per tutto questo, il filosofo che, più degli altri, nei primi anni di diffusione del suo pensiero in occidente, fu accusato di perversione e di immoralismo, può essere letto come colui che più di tanti, inseriti in orizzonti eticistici, ha cercato di scorgere i fondamenti di una morale-senza Dio, visto che l’ateismo, che è fede, cioè certezza indimostrabile razionalmente, alternativa alla fede positiva in un Dio, rendeva ancora più urgente e doverosa la costruzione di una morale.
Nelle interviste tanto discusse che Sartre, prima di morire, concesse a Lévy, i due concetti tornano. Non a caso il titolo messo dalla redazione della rivista che le pubblicò fu L’espoir maintenant. Ritorna o emerge anche il tema della fraternità: «Sartre – Io penso che le persone dovrebbero avere o possono avere o hanno un certo rapporto primario che è il rapporto di fraternità. B. Lévy – Perché il rapporto di fraternità è il primo? Siamo tutti figli di uno stesso padre? Sartre – No, ma il rapporto familiare è primo in relazione a ogni altro rapporto. B. Lévy – Si forma una sola famiglia? Sartre – In una certa maniera, si forma una sola famiglia».
Potrà sorprendere che l’ultimo Sartre riprenda categorie che erano tipiche della tradizione cristiana, come solidarietà e fraternità, ma esse vanno lette come una ulteriore secolarizzazione degli anni Sessanta e Settanta: quella di un marxismo dogmatico, intransigente, dottrinale. Non è, ancora una volta, nel suo sviluppo nodale, un tentativo di épater les bourgeois, ma la continuità di un pensiero che era cresciuto su se stesso. I temi ripresi dalla formazione cristiana, che qualcuno ha riferito ad una senilità del pensatore di cui ha voluto difendere l’immagine, sono reperibili lungo tutto il percorso teoretico sartriano. L’ateismo crea un vuoto che bisogna colmare: quello di una nuova etica “soggettiva” (non “individualistica”) nella quale i valori forti del singolo e della comunità siano fondati in un universo nel quale l’illusione trascendentale di essere “creature” di un Dio, pur nella sua ineliminabile erroneità, lascia in eredità all’uomo il compito di portare nella Histoire una morale efficace.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 5.4.2013 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.