A Evandro Agazzi, illustre studioso di filosofia della scienza, abbiamo rivolto alcune domande sul rapporto tra scienza e società.
Quali sono i caratteri propri con cui si afferma la scienza moderna? Il sorgere stesso di questa nuova forma di conoscenza non è un’impresa grandiosa, una nuova tappa della liberazione intellettuale dell’uomo?
Lo sviluppo della scienza nell’epoca moderna è stato, da un lato una conseguenza e, dall’altro, un elemento di promozione di quell’attitudine al “libero pensiero” che ha caratterizzato la cultura occidentale da almeno due secoli a questa parte. In aggiunta a questo aspetto che ha reso la scienza una sorta di simbolo della liberazione intellettuale dell’uomo, ne sono comparsi altri meno importanti: ci limitiamo a menzionare il fatto che la scienza ha rappresentato quello che potremmo definire il primo esempio di una “democratizzazione del sapere”. La scienza moderna si manifestò immediatamente come un ambito di conoscenza pubblica, aperta al dibattito e alla critica e tale che ognuno poteva diventare un membro della comunità scientifica senza presupporre alcuna forma di “iniziazione” che non fosse l’acquisizione della competenza professionale necessaria a comprendere gli argomenti in discussione e perseguire le proprie ricerche. Essendo considerata in primo luogo una ricerca instancabile della verità, essa era vista come un tipo di conoscenza disinteressata, sottoposta ad una rigorosa disciplina intellettuale e implicante non solo un paziente lavoro, ma anche certi presupposti etici. Ad esempio, lo scienziato doveva possedere un altissimo livello di onestà intellettuale ed essere pronto a riconoscere i propri errori, ad accettare perfino le opinioni degli avversari qualora esse si fossero rivelate valide scientificamente. L’esempio tipico di scienza applicata era la medicina ed è comprensibile come questo paradigma della scienza utile avesse l’effetto di proiettare una luce positiva sull’intera scienza applicata, attribuendole anche una certa nobiltà etica.
Quando muta il paradigma della scienza liberatrice e diventa drammatica la consapevolezza del rapporto tra scienza e potere?
Questa situazione subì un drastico mutamento verso la metà del nostro secolo a causa di diversi fattori. Il colpo più duro fu l’esplosione della prima bomba atomica, un fatto che mise brutalmente la coscienza morale degli scienziati di fronte al problema del loro coinvolgimento nelle applicazioni delle loro scoperte: per usare un’espressione assai significativa, l’esplosione della prima bomba atomica costituì il “peccato originale” che risvegliò la comunità scientifica dallo stato di innocenza in cui era sinora vissuta. Non è il caso di menzionare i casi ben noti di scienziati che attraversarono vere e proprie crisi morali a causa di quell’evento e che decisero, di conseguenza, di dare un nuovo orientamento alla propria vita. Da un punto di vista puramente teorico, si potrebbe affermare che la costruzione della bomba atomica non costituì in via di principio una novità nella storia della scienza; le scoperte scientifiche, infatti, sono sempre state sfruttate a fini militari e per la produzione di armi sempre più potenti lungo tutta la storia dell’umanità. Tuttavia mai era apparso tanto chiaro in che misura la ricerca scientifica potesse essere direttamente coinvolta e principalmente orientata verso la realizzazione di strumenti di morte così terrificanti. Inoltre, anche prescindendo da casi limite come questo, si accrebbe la consapevolezza che non era più possibile continuare a considerare la libertà, l’indipendenza ed il puro desiderio di conoscenza come le principali caratteristiche della ricerca scientifica. Si comprese che una parte considerevole, forse la più grande, della ricerca scientifica veniva compiuta al servizio di qualche “committente”, e cioè le forze armate, la pubblica amministrazione, il mondo degli affari e dell’industria, dei quali non si poteva certo affermare che fossero molto interessati alla ricerca della verità, quanto piuttosto alla realizzazione di certi scopi pratici. In tal modo gli scienziati “assunti” da simili organismi non potevano evitare di essere compromessi, almeno in una certa misura, nella promozione di quei fini pratici restando di conseguenza, coinvolti nelle responsabilità morali che essi implicavano.
La tesi della “neutralità della scienza”, che negli ultimi lustri ha avuto notevole successo, non è forse una reazione all’uso ideologizzato che da parte di taluni, si è fatto della scienza e di certe preoccupanti applicazioni teconologiche?
La scienza deve mantenersi fedele ai suoi criteri “interni”, come ad esempio il totale rispetto della verità e il carattere pubblico dei risultati conseguiti. Il rispetto integrale della verità fu messo in dubbio, poiché non tutta la verità, rivelata dalla ricerca scientifica, poteva essere comunicata (i “segreti” militari e industriali costituiscono le forme più comuni di tale limitazione). Ma, in certi casi, si può verificare persino una “manipolazione” della verità, specialmente quando si usano prove scientifiche insufficienti o molto parziali per propagandare certi prodotti, sottolineando in modo eccessivo i loro meriti e minimizzando l’impatto dei loro aspetti negativi. Oppure quando vengono promossi interessi specifici di vario tipo(economici, politici, ideologici) nascondendoli sotto un’apparente veste di imparzialità scientifica. Quanto ai limiti posti al carattere pubblico della conoscenza scientifica, è chiaro che il fatto stesso di mantenere segreti buona parte dei risultati della ricerca scientifica implica necessariamente che essa venga effettuata entro circoli ristretti, permeati da un certo qual carattere “iniziatico”, spesso sospettosi l’uno dell’altro e gelosi dei successi conseguiti dai gruppi rivali. Queste degenerazioni sono state notate e talvolta enfatizzate nel corso delle polemiche sulla cosiddetta “neutralità della scienza” che hanno avuto durante gli ultimi decenni. La maggior parte di tali critiche era ispirata da evidenti motivazioni ideologiche e politiche, miranti a presentare la scienza alla stregua di “serva del potere” e conforme all’ordine sociale del capitalismo e alla sua ideologia. Eppure si debbono riconoscere alcuni risultati positivi conseguiti da queste critiche, in quanto esse servirono a far raggiungere una concezione meno idealizzata della scienza intesa come “attività umana”, la quale può restare piuttosto lontana da quell’aspetto di ricerca incondizionata della verità.”
Prima della rivoluzione industriale la ricerca scientifica era eminentemente il frutto di una vocazione personale; oggi essa è anche un prodotto sociale. La società ha l’obbligo di assicurare le condizioni che rendano possibile il suo progresso; ma cosa chiede in cambio alla scienza?
La risposta facile e sbagliata fatta oggi proprio da molti, sarebbe questa: stabiliamo un controllo sociale completo sulla scienza in modo che, mediante una pianificazione ben organizzata alla ricerca scientifica, risulti possibile dirigerla verso la soluzione di problemi socialmente rilevanti. Questo modo di risolvere il conflitto non può non suscitare una miriade di perplessità. Tanto per cominciare la realizzazione concreta di una simile pianificazione potrebbe essere veramente efficace solo se si attribuisse al potere pubblico il compito di portarla a termine; ma in tal caso l’innocuo concetto di “controllo sociale” della scienza si trasformerebbe automaticamente in quello, assai meno innocuo di “controllo politico”, e quest’ultimo non può essere equivalente al primo. In effetti il controllo più efficace della scienza è sempre stato ottenuto dai regimi totalitari. Ma anche nel caso dei regimi democratici, non v’è dubbio che il controllo politico applicato a qualsiasi sfera della vita sociale significa inevitabilmente, almeno in una certa misura, la sottomissione a valutazione di parte, il pericolo di intromissioni ideologiche,la lotta preconcetta contro gli avversari politici. Se accettassimo l’idea di un controllo sociale della scienza inteso come una pianificazione totale della ricerca, al punto da renderla completamente dipendente da certi fini che si vogliono raggiungere, dovremmo pure accettare alcune conseguenze piuttosto sgradite. In primo luogo l’eliminazione pratica della libertà della scienza. In secondo luogo, se ammettessimo che la ricerca scientifica deve essere “orientata verso certi fini” non potremmo evitare la seguente domanda: “Chi determinerà tali fini?”. Qualunque limite imposto alla scienza non dovrebbe mai essere tale da eliminare la sua libertà. Nessun diritto umano fondamentale può essere totalmente soppresso. Ma in aggiunta a questa importantissima ragione di principio, un’altra ragione di uguale importanza ci obbliga a sostenere che lo sviluppo scientifico ha bisogno di essere fecondato da una buona dose di genuina creatività personale; essa non può essere prodotta su ordinazione di qualche ente o istituzione. La creatività è piuttosto la conseguenza di un atteggiamento di curiosità intellettuale di fronte a problemi che stimolano l’attenzione di un ricercatore e pongono una sfida alle sue capacità inventive. Ciò significa che la scienza non potrebbe continuare a fiorire in assenza di un’atmosfera di libertà e senza la possibilità di sentirsi autorizzata a compiere certe indagini per puro desiderio di conoscenza, e cioè perché esse sono intellettualmente interessanti. È interesse della società preservare la creatività, l’iniziativa personale, l’atteggiamento critico, la libertà dello spirito come caratteristiche distintive dei suoi membri. Tali qualità, infatti, costituiscono energie preziose che possono essere usate in diversi campi. Pertanto se la scienza in quanto tale incoraggia tutte queste caratteristiche, essa sta già ripagando la società in modo adeguato. Ma, oltre ciò, occorre anche tener conto del fatto che la ricerca orientata verso fini precisi è pienamente giustificata, e sarebbe altamente auspicabile solo se fosse sempre più finalizzata al soddisfacimento dei diritti umani fondamentali. Gli stessi scienziati devono conservare il diritto di avere voce in capitolo per quanto riguarda la determinazione dei fini della ricerca. Ovviamente non si può intendere questo in modo ingenuo, ma piuttosto nel senso che la comunità scientifica dovrebbe essere sempre più coinvolta nella discussione e nella determinazione della struttura della società; dovrebbe in altre parole avere un ruolo importante almeno nella specificazione di quei fini che, oltre a rivestire un interesse generale per la società, sono anche tali da presupporre l’applicazione di conoscenze scientifiche avanzate o di sofisticate tecnologie. In secondo luogo, l’assenza di imposizione dovrebbe essere il giusto modo di fare appello alla scienza perché si faccia carico dei bisogni della società.
Giornale di Brescia, 4.3.1986. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Evandro Agazzi su “Natura e limiti del sapere scientifico, il dibattito epistemologico dopo Popper”.