Quale fu l’inizio della decadenza delle istituzioni romane del periodo repubblicano? E da quali elementi inferirlo? L’opinione prevalente tra gli storici risponde così: dal momento in cui alcune personalità di grande rilievo e larga disponibilità di mezzi cominciarono a prevaricare sulla res publica, cioè sulla generalità dei concittadini, per il proprio vantaggio personale. Di solito l’inizio di questo tipo di crisi viene collocato nel passaggio dalla repubblica all’impero ma alcuni studiosi come Mario Attilio Levi ritenevano di dover anticipare molto le date. Il debordare politico e lo strapotere economico di Publio Scipione, detto l’Africano maggiore, sarebbero il primo segnale negativo in questo senso. Era accaduto che dopo il vittorioso conflitto con la Siria del re Antioco, conclusosi con la pace di Amapea del 188 a.C., Roma aveva assunto il controllo di parte dei vasti e ricchi territori di quella monarchia: in pratica, si assicurava il dominio sull’Egeo e sulle città asiatiche confinanti, dopo aver vinto pochi anni prima la potenza africana di Cartagine. Publio Cornelio Scipione era l’artefice di entrambi i successi e, a torto o ragione, si sentiva investito di una supremazia politica anche nei confronti dei concittadini, che derivava da indubbi meriti militari. Però erano sorti molti sospetti su di lui, a proposito della sparizione di una indennità di tre milioni di denari versati dal re Antioco. Si aggiungeva il fatto che a Locri un governatore militare, sostenuto proprio da Scipione, aveva provocato molto malcontento nella popolazione e, nel disordine locale, era stato saccheggiato il tesoro (poi scomparso) del tempio della dea Persefone. Per la somma di questi motivi, due tribuni della plebe, entrambi di nome Petilio perché cugini, avevano osato denunciare l’Africano con una serie di imputazioni: ne nacque uno scandalo enorme, perché nessuno si sarebbe immaginato che l’uomo più potente di Roma potesse essere investito da un’indagine giudiziaria. Si delinearono anche due orientamenti opposti in materia: da una parte c’erano i numerosi sostenitori di Scipione, che accusavano i tribuni e il popolo di ingratitudine, visti i meriti politico-militari dell’imputato. Dall’altra parte, gli avversari sostenevano che a Roma nessuno doveva essere al di sopra della legge e che il fondamento di uguaglianza per cui tutti i cittadini, anche quelli più potenti, potevano essere citati in tribunale, era una garanzia per la stessa libertà dei Romani: sarebbe stato un principio pericoloso il fatto che un cittadino non accettasse un pronunciamento giudiziario su di lui. Il giorno del processo, alle accuse già previste, i tribuni aggiunsero anche la sospetta circostanza per cui il figlio di Scipione, preso prigioniero durante la guerra dal re Antioco, era stato restituito senza il pagamento di alcun riscatto: in cambio di che cosa, si chiedevano. La risposta dell’Africano fu un discorso abilissimo e sconcertante insieme: non disse nulla a proposito dei capi d’imputazione, ma spostò l’attenzione sul fatto che quello era il giorno anniversario della sua vittoria di diciotto anni prima contro Annibale. Perciò, sosteneva, era giusto pensare ad altro: rendere onore agli dei e festeggiare adeguatamente l’avvenimento. Detto questo, Scipione lasciò il foro dove era in corso il dibattimento e col seguito dei sostenitori si avviò verso il Campidoglio, per celebrare il rito religioso, lasciando esterrefatti gli accusatori e il banditore che inutilmente lo richiamavano al processo. Lo storico Livio, che narra la vicenda, racconta che in quel momento la massa dei presenti era così incantata dalle sue parole, che lo accompagnava con manifestazioni di adulazione ed esultanza. Tanta esibizione di prestigio personale e di insofferenza per le leggi doveva però rivolgersi ben presto a scapito di Scipione. Quella stessa opinione pubblica, che lo aveva acclamato nel giorno in cui aveva calpestato la dignità del tribunale, cominciò presto a voltargli le spalle. Il processo doveva essere rifatto e Scipione avvertiva progressivamente il crearsi di un’atmosfera di ostilità intorno alla sua persona; decise allora di ritirarsi in un suo podere in Campania, nella città di Literno, dal quale non si mosse neanche il giorno in cui venne di nuovo citato in giudizio. Il tribunale finse di accettare come valida una giustificazione dell’assenza per malattia e un tribuno propose una sorta di amnistia in nome dei meriti del passato. Non venne presa alcuna decisione ufficiale e Scipione fu lasciato nella sua casa a Literno, dalla quale non prese più parte alla vita politica.
Giornale di Brescia, 5.10.2003.