Fonte: Seneca. L’immagine della vita a cura di Matteo Perrini, La Nuova Italia, Firenze 1998.
LA CONDIZIONE UMANA
L’espressione “humana condicio”, “condizione umana”, si trova per la prima volta in Cicerone (Tusc. disp. 1, 15), ma entra nella cultura dell’Occidente, in cui avrà una straordinaria risonanza, solo con Seneca, che la usa con insistenza a indicare una sola cosa: l’ambivalenza costitutiva dell’uomo, nel cuore del quale abitano, porta a porta, opposte possibilità. L’uomo è, quindi, l’essere problematico per eccellenza: egli s’interroga su tutto e, quando posa lo sguardo su se stesso, scopre di essere multiforme. “Nemo suum agit, ceteri multiformes sumus”: “nessuno si attiene a un solo ruolo, siamo tutti multiformi”, cioè desiderosi di assumere sembianze diverse. Per questo cambiamo maschera di volta in volta e ce ne mettiamo una opposta a quella che ci siamo appena tolta (Ad Luc. 120, 21-22 passim). Ma come riconoscere il volto dietro la molteplicità delle maschere?
Fin dall’opera prima, la consolazione “Ad Marciam”, Seneca ha scelto per la sua filosofia un punto di partenza difficile: benché avesse a sua disposizione un solido baluardo, il sistema stoico, da cui peraltro non vorrà mai prescindere del tutto, non si è messo al suo riparo per far tacere l’incertezza e il rischio che caratterizzano l’avventura dell’uomo nel cosmo. Egli ha avvertito, più di ogni altro pensatore dell’antichità, l’angoscia che immancabilmente sale dalle profondità dell’essere e le ha dato voce. L’uomo è una creatura che nasce debole, fragile, nuda, priva di difese naturali e bisognosa, più di qualsiasi altra, dell’aiuto altrui. Neppure l’istinto le viene in soccorso, non avendo nell’uomo la sicura determinazione che ha negli animali, dal momento che l’intelligenza sembra fatta apposta per scompigliarlo e renderlo malsicuro. “Quocumque se movit, statim infirmitatis suae conscium”: “in qualunque direzione si muova, l’uomo ha subito coscienza della propria debolezza” (Marc. 11, 4) e la sperimenta a ogni passo, perché non è cosa che possa deporre o consegnare ad altri, portandosi appresso i segni della sua fragilità: l’ignoranza, la malattia, la certezza irrefutabile della morte. Che cosa è, dunque l’uomo? “Un vaso che alla più piccola scossa, al più piccolo movimento va in frantumi. Non ci vuole una grande tempesta per distruggerti: al primo urto, ti sfascerai” (ibid. 11, 3-5). Nell’immensità sconfinata dello spazio, nella serie dei secoli passati e di quelli che verranno, l’uomo non è che un “punctum” (Nat. quaest. 6, 32, 10), un punto impercettibile, e la sua vita, breve come un sospiro, sprofonda in un abisso (abit vita in profundum, Brev. 10, 5).
La finitezza dell’uomo, la sua contingenza radicale, l’improrogabilità della morte sono, dunque, le prime acquisizioni dell’itinerario filosofico di Seneca. Ma l’uomo è un paradosso vivente in quanto è situato ontologicamente al punto di congiunzione della parola con l’inesprimibile, della speranza con la disperazione, dello scacco con l’affermazione vittoriosa, del finito con l’infinito, dell’eroismo magnanimo e della meschinità sordida, del sapere col non sapere, del volere con il disvolere, della razionalità con l’irrazionale che preme in noi e fuori di noi, della vita con la morte. La duplicità dell’uomo si manifesta ovunque, così che diventa inevitabile che ogni domanda sulla sua natura e sulla sua condotta si presenti in forma di dilemma: buono-malvagio, razionale-irrazionale, sociale-antisociale, e così via. Seneca ha avvertito fortemente la presenza del male nella vita dei singoli e nella società; tuttavia, è pur sempre all’uomo, e solo a lui, che è data la possibilità di “trasfigurare” la sua esistenza. Alfonso Traína ha fatto notare che non a caso il verbo “transfigurari”, destinato ad avere tanta fortuna, è un neologismo di Seneca (“Lo stile ‘drammatico’ del filosofo Seneca”, Bologna 19874, p. 61). L’uomo può diventare peggiore di qualsiasi belva (Ad Luc. 103, 2); ma è ben lui che ascende le vette più alte dell’eroismo morale e, ancor più, dell’amore disinteressato, rendendosi simile a Dio. Non siamo che particelle infinitesimali dell’universo; la natura, tuttavia, ci ha generato per essere “spectatores tantis rerum spectaculis”, “spettatori di spettacoli incommensurabili” (Otio 5, 3). La sua fatica sarebbe sprecata se opere tanto grandi, e splendenti di perfezione, facessero mostra di sé in un deserto (ibid. 5, 3). Dio ha voluto, insomma, che noi riconoscessimo la gloria della sua opera e ha immesso in noi un ardente bisogno di conoscenza, vera molla del progresso in ogni campo.
Allo stesso modo, l’uomo è “avidus veri” e rifugge dalla verità; la sua passione per la verità su certe questioni non esclude il rifiuto ostinato di essa in altre. Egli non vuol essere ingannato, ma è spesso mentitore ed è addirittura “contumace” – termine caro a Seneca – nel non voler far luce soprattutto su se stesso. Noi, infatti, copriamo i nostri vizi e i nostri peccati a noi stessi prima che agli altri, impegnandoci a trovare, di volta in volta, la maschera più idonea a occultare quello che siamo dentro e di apparire così come la cattiva coscienza, le convenienze e gli interessi esigono. Certamente è impossibile non vedere che l’ansia di verità caratterizza le conquiste più alte del cammino umano nella storia; ma vi è in noi anche la capacità terribile, prima ancora che di tradire la verità, di non prenderla neppure in considerazione, mettendola metodicamente tra parentesi. “Nessuno può dirsi felice se è al di fuori della verità” (Vita 5, 2), ammonisce Seneca, né può essere altrimenti: prescindere dalla verità – almeno nella misura in cui è accessibile a noi e si traduce in luce per i nostri passi – equivale, infatti, per l’uomo al massimo di eteronomia, cioè di estraneità al suo io profondo. Si finisce allora per condurre un’esistenza che Heidegger, in “Essere e tempo” (1927), chiamerà “inautentica” e Mounier, nella sua “Introduzione agli esistenzialismi” (1947), “esistenza perduta”.
Seneca ha analizzato in pagine che hanno veramente il sapore della vita, e con uno stile drammatico di grande intensità, sia le situazioni, le scelte e le non-scelte che meglio attestano l’ambivalenza dell’uomo, sia le “figure” fenomenologiche che sono proprie di una vita alienata: l’attivismo inconsulto e l’inerte “guardarsi vivere”; l’omologazione che massifica e tende a ridurre gli “io” a uno zero; la perdita del significato a cui si arriva a forza di guardare le cose e i nostri simili solo con l’occhio di una ragione strumentale, attenta a usare gli esseri e non ad apprezzarne il valore; lo sbriciolamento del nostro tempo, la fuga da se stessi, la vertigine e la nausea del vuoto spirituale. Questi temi ritornano, con accenti diversi e nuovi sviluppi, specialmente in alcuni pensatori: ad esempio, nel maggiore dei Padri della Chiesa, il nordafricano Agostino (354-430); durante l’età cartesiana, in Blaise Pascal (1623-1662); negli scritti del Socrate danese, Soeren Kierkegaard (1813-1855); e, durante il XX secolo, con l’esistenzialismo, l’indirizzo filosofico che ebbe vasta diffusione tra il primo e il secondo dopoguerra, all’incirca tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. Seneca, però, è stato il primo in Occidente a darci su quegli argomenti – che riguardano veramente ogni uomo capace ancora di diventare problema a se stesso – una riflessione tematica, condotta sia attraverso felici colpi di sonda nelle profondità dell’animo umano, sia col far emergere precisi nuclei speculativi di grande rilevanza metafisica e morale. Ed è per questa ragione che Michel Spanneut definisce la filosofia di Seneca “uno stoicismo esistenziale” (“Permanence du stoïcisme: de Zénon à Malraux, Gembloux, Ducolot 1973).
In sintesi: a differenza di quanti prima di lui avevano ridotto l’uomo alle sue miserie o ne avevano esaltato le incomparabili doti, Seneca ha colto congiuntamente, talora nel giro di una stessa frase, sia la miseria sia la grandezza dell’uomo. L’uomo è un problema, i cui dati sono fra loro in rapporto di opposizione e tuttavia intrecciati inestricabilmente. Spetta certamente a lui muoversi fra i poli di un’antinomia reale e a ogni passo misurarsi con le tensioni che ne conseguono; ma egli è impegnato anche a comporre energicamente quelle tensioni nell’unità del suo carattere e della sua personalità. In altri termini, l’ambivalenza è un dato del problema “uomo”, da cui mai si deve prescindere, ma non ne è affatto la soluzione. All’opposto di quanto sosterranno gli esistenzialisti Karl Jaspers e Jean-Paul Sartre, per Seneca il compito dell’esistente non è mantenere i contrari in sé, rischiando di finire nell’inconcludenza o nella schizofrenia. La vita spirituale sorge, infatti, solo dallo sforzo sempre rinnovato di mantenere in piedi una personalità, che sappiamo continuamente minacciata di frammentarsi. E per far questo occorre, in primo luogo, restituire l’uomo alla sua interiorità, perché solo se riconciliato con se stesso e libero, potrà giovare agli altri. La filosofia comincia sempre con l’appello socratico: uomo, svegliati!
“Nulla può farsi senza il tempo”: “nihil sine tempore potest fieri”, scrive epigraficamente Seneca (Ad Luc. 65, 11). Il problema del tempo è, in realtà, uno dei cardini della riflessione metafisica, ed è presente sin dalle origini nella storia del pensiero, così come nella coscienza comune. Per Epicuro il tempo noi lo conosciamo solo come “l’accidente degli accidenti”, una nozione che si accompagna ad altre nozioni di fenomeni accidentali, come i giorni e le notti e le ore, e al succedersi di piaceri e pene (“A Erodoto” 72-73); non così per Seneca che inscrive il tempo nell’essere, nel “quod est” (Ad Luc. 58, 11), e si interroga con stupore innanzi tutto sulla sua natura. “La sapienza, cosa nobile e di grande ampiezza, ha bisogno di uno spazio libero. Essa si occupa della realtà divina e umana, del passato e del futuro, del caduco e dell’eterno, del tempo. Pensa a quante questioni sorgono anche solo sull’ultimo problema. Il tempo è una realtà a sé stante? È pensabile che ci sia un essere prima e fuori del tempo? Esistendo qualcosa prima del mondo, esiste prima del mondo anche il tempo, o esso ha avuto inizio insieme con il mondo?” (ibid. 88, 33). Sono, a veder bene, le stesse domande che, poco più di tre secoli dopo, Agostino si porrà in quell’ardita meditazione sul tempo, introdotta dal paradosso: “Che cos’è, dunque, il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se però volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so” (Conf. 11, 14).
Seneca tratta il tempo in modo specifico nel “De brevitate vitae”, ma il tema è ripreso, o da diverse angolazioni o per rafforzare le cose già dette, in tutte le opere. Tra gli stoici teneva banco un quesito: si discuteva se il tempo fosse da considerare “corporale” o “incorporale”. E la stessa domanda si pone per lo spazio, il vuoto e il linguaggio (Ad Luc. 58, 11). Seneca, che avvertiva la difficoltà di opporre radicalmente “corporalia” e “incorporalia” in una concezione secondo la quale tutto ciò che è reale è materiale, mette tra parentesi l’aporia – che sarà successivamente messa in luce da Alessandro di Afrodisia (Top. 301, 19 in SVF 2, 329) e da Plotino (Enn. 6, 1, 25) – e passa oltre, non volendo lasciarsi irretire in discussioni che lo porterebbero lontano da ciò che gli sta veramente a cuore. Il percorso che porta alla sapienza sale effettivamente dagli esseri corporei a quelli incorporei (Ad Luc. 90, 29), che sfuggono agli occhi del corpo, potendo essere appresi solo da una coscienza attenta e grazie a un difficile sforzo di astrazione. Quello che è certo è, dunque, che il tempo non si percepisce come una cosa, come un oggetto tra altri oggetti; ed è forse per questo che gli uomini, abitualmente, non lo pensano come reale e non gli riconoscono alcun valore. Proprio come fanno per la loro anima! È fin troppo facile, infatti, non accorgersi di una perdita di cui non si è consapevoli, perché resta nascosta (Brev. 8, 4).
Così Seneca si porta con naturalezza sul suo proprio terreno, trasformando l’indagine sul tempo in una “concezione etica del tempo”, secondo la felice espressione di A. Grilli (“L’uomo e il tempo” in “Seneca. Letture critiche”, a cura di Alfonso Traina, Mursia, Milano 1976, p. 57). Il tempo diventa, pertanto, coefficiente determinante della felicità o dell’infelicità umana e l’orchestrazione speculativa dei vari aspetti del problema acquista una fortissima valenza esistenziale, sì che dire “tempo” per l’uomo è la stessa cosa che dire “vita” e, non a caso, Seneca spesso scambia un termine con l’altro.
Si può indicare col termine greco “chrónos” un primo ambito di significati della parola “tempo”: è il tempo in generale, inteso come misura del durare di qualsiasi essere diveniente, e si sa che per noi la sola esperienza possibile è sempre quella di esseri che sono nel mutamento. Sotto tale aspetto il tempo appare come tempo astronomico, il quale assume il moto apparente del sole e la divisione del giorno in ore – il computo fu mutuato dai babilonesi – a misura di ogni altro moto. Questo tempo è detto anche matematico, perché la mente umana lo pensa spazialmente, e quindi non si stanca mai di dividerlo in parti sempre più piccole, ma uguali e omogenee tra loro, tali perciò da essere numerabili. La rappresentazione del tempo e le immagini che la veicolano vengono, pertanto, inevitabilmente a coincidere con lo spazio. Solo dopo molti secoli ci si rese conto degli equivoci e dei falsi problemi – difficili però da districare, come appunto i famosi sofismi di Zenone l’Eleate – che la riduzione del tempo a spazio comportava. Tuttavia quel modo di pensare il tempo appare a noi naturale, non meno che agli antichi, perché è entrato a far parte del nostro linguaggio e serve ad inquadrare tanto i fenomeni naturali quanto gli eventi storici. Il tempo cosmico adempie perfettamente le funzioni che gli sono richieste e scorre senza posa, impersonale nella sua oggettività misurabile; e tuttavia i segni che lascia l’inarrestabile succedersi dei giorni sono ovunque e noi li percepiamo, soprattutto se ci accade di rivedere dopo un lungo intervallo luoghi e persone. La vista del mutamento di ciò che è altro da noi ci induce allora a pensare, almeno per qualche istante, a come noi stessi siamo cambiati e a chiederci dove ci mena quella rincorsa affannosa a cui abbiamo ridotto la nostra esistenza: “ogni giorno, ogni ora ti cambia, ma negli altri la rapina appare più facilmente; in te, invece, si cela, non è allo scoperto” (Ad Luc. 104, 12).
Il tempo cosmico appare allora come lo scenario del tempo vissuto da colui che lo misura, “il numerante” di cui parlava Aristotele. È questa la dimensione più reale e individuale del tempo e fa tutt’uno con la coscienza che l’io ha di sé, con la sua stessa sostanza, con la sua vita. E ciò sta a significare che la vita d’un uomo vale quanto vale il suo tempo. Nessuno prima di Seneca aveva colto questa verità e s’era fatto – come solo lui seppe fare – testimone dell’angoscia umana di fronte al tempo, che “ci sospinge ed è sospinto velocemente, sì che siamo rapiti senza che ce ne accorgiamo” (ibid. 108, 24). Le metafore ricorrenti per esprimere la nostra ansia per la fugacità del tempo sono assai significative: il fiume, il punto e l’abisso. Il fiume non sta che nel suo passare e il suo passaggio che cos’altro è se non una fuga precipitosa? (ibid. 49, 2). Ogni uomo non può non pensare: “è un punto quello che viviamo e ancor meno di un punto” (ibid. 49, 3). Come non avvertire un senso di vertigine dinanzi alla “vastità abissale del tempo” (ibid. 99, 10)? Seneca lo esprime con una frase di rara efficacia: “sono sospeso in un istante del tempo che fugge” (in puncto fugientis temporis pendeo, Nat. quaest. 6, 32, 10). È stato ben detto che l’aver afferrato il senso negativo e il potere di nullificazione del tempo è la scoperta più profonda della psicologia di Seneca (F. Aubenque e J. M. André, “Sénèque”, «Bull. Budé» 1964). Ma Seneca vide anche nella sua scoperta l’attestazione di una capacità di infinito che caratterizza l’uomo e che non si esplica solo nel male e nel far getto di sé, ma anche nel bene, nel riscatto del proprio tempo, nel cammino verso la saggezza. Il tempo possiede, pertanto, un valore inestimabile per cui occorre seriamente contabilizzarlo, domandandosi per che cosa lo spendiamo e come ne entriamo in possesso. Il problema per l’uomo è, allora, come far presa sul tempo, come non lasciarsene travolgere; in una parola, come vincere l’angoscia e trasfigurarla in serenità d’animo e gioia.
Due sono le forme di esistenza che sono alla base di ogni nostro atteggiamento: da una parte, c’è una vita alienata, e quindi un tempo sprecato; dall’altra, una vita di cui ci riappropriamo a ogni istante e dunque un tempo ritrovato. I modi di alienare il proprio tempo e di “metter mano sul tempo” (Ad Luc. 1, 2) per farlo proprio poggiano sulla tripartizione di passato, presente e futuro. Il passato è sottratto al dominio della fortuna e può essere da noi rivisitato nei suoi momenti più significativi, anche se dolorosi. Abbiamo bisogno, infatti, di interrogarci sul nostro passato, per mettere a profitto del presente e del futuro la lezione dell’esperienza. All’insensato e al malvagio, però, il passato è molesto, perché ridesta in essi un senso di colpa messo accuratamente a tacere. Ma fingere che il proprio passato non esista è ancora un modo per fuggire da se stessi; del resto non c’è redenzione possibile senza pentimento, e dunque senza un giudizio sul male compiuto. Giova immensamente, invece, all’animo ricordare, e spesso, i benefici ricevuti. È la memoria, infatti, che fa riconoscenti: “memoriam gratum facit” (Ben. 3, 4, 2). Un individuo e una società che non abbiano coscienza della loro storia, sono senza radici e, dunque, in balia di impressioni del momento e di pulsioni istintive; né può esserci vera cultura senza conoscenza dell’eredità che ci è stata trasmessa. Bisogna, però, evitare sia l’assenza di memoria storica, sia la fuga all’indietro, che è tipica dei “laudatores temporis acti”, inguaribili nostalgici di un passato che non è mai esistito e che non si vuole effettivamente conoscere, ma in cui si cerca un riparo per le proprie illusioni.
Anche al futuro ci si può rapportare in maniera patologica, sacrificando ad esso la serenità da conquistare oggi e gli impegni concreti da adempiere giorno dopo giorno. È molto diffuso l’atteggiamento di chi vive fuori di sé perché totalmente preso dall’ossessione del futuro, ardentemente temuto o sperato. Seneca, però, tiene a distinguere dall’assillo di ciò che ancora non è, e che potrebbe anche non esserci mai, l’esercizio della capacità razionale di collegare fenomeni e avvenimenti in modo da prevederne, entro certi limiti, i possibili sviluppi e gli esiti. L’uomo, insomma, è pur sempre un essere capace di progettare e di lavorare alla costruzione del futuro per sé e per i suoi simili. È bene poi esercitarsi a prevedere – Seneca parla addirittura di esercizi di “praemeditatio futurorum malorum” – soprattutto le avversità più dolorose, ed in primo luogo la morte. Soffriremo di meno, o non soffriremo affatto, se esse non si abbattono a sorpresa su di noi (Ad Luc. 46, 33-35; 78, 21; 107, 3-4): “chi ha previsto i mali futuri sminuisce la loro forza nel presente” (Marc. 9, 1). Passato e futuro non si dissolvono, dunque, nel nulla del “non è più” e del “non è ancora entrato nell’esistenza”: essi esistono perché esiste colui che li pensa e perché il ricordo e l’attesa sono presenti alla coscienza di un io. Tutto riconduce, quindi, alla realtà vivente e pensante di quell’io che, essendo qui e ora presente a se stesso, può ricordare ciò che è stato, “quod fuit”, e prevedere o preparare ciò che sarà, “quid futurum est” (Brev. 10, 2). Tuttavia è proprio riguardo al presente, più ancora che al passato e al futuro, che l’uomo non sa rapportarsi nel modo giusto.
Il più grave e diffuso atto di irresponsabilità nei confronti del presente è l’incredibile, sconsiderato scialo di esso: “il tempo si chiede come fosse niente, si dà come fosse niente” (ibid. 17, 5). Come l’uomo si lascia derubare del presente dagli altri e come egli stesso lo sprechi, Seneca lo ha descritto in pagine memorabili. Molti sono i modi in cui la stoltezza si manifesta, ma il denominatore comune è e rimane sempre lo stesso: la dissipazione della propria esistenza attraverso la perdita di quel tempo di cui dovremmo, invece, assicurarci il possesso. Ed è unica anche la via per trasformare il tempo in un bene tangibile e fecondo: solo la riscoperta dell’interiorità e la socratica “cura dell’anima” possono farci uscire da uno stato di alienazione e restituirci finalmente a noi stessi. Allora il tempo – passato, presente, futuro – non fa più paura: “è privilegio, infatti, di una mente serena e tranquilla poter spaziare in ogni parte della sua vita” (ibid. 10, 5). Il passato non è più da temere perché è stato vissuto bene, o è redento dal pentimento; e al futuro l’uomo saggio e buono può rivolgersi, come dirà Plutarco qualche decennio dopo, “con speranza lieta e luminosa, senza timore e senza diffidenza” (Tranq. an. 14, 477 f). E il presente? Il presente diventa quello che i greci designano col termine “kairós”. Seneca, a cui non piace usare parole di lingua greca, parla di “tempus captatum” (Ad Luc. 22,5), afferrato a volo, al giusto momento: un tempo, quindi, su cui letteralmente “bisogna saltare addosso” (ibid.). Ci vuole, però, una coscienza desta e una volontà tesa per trasformare le circostanze in materia e strumento di iniziativa morale. Qui non si tratta solo di accettare con coraggio l’inevitabile, cosa che pure ha grande importanza, ma di lasciar spazio alla creazione di una vita più alta che prima del nostro agire non c’era.
La filosofia ci arma contro ogni specie di paura e la prova del nostro progresso spirituale non sta nelle parole che impariamo a dire o nelle belle pagine che scriviamo, ma nel padroneggiare le nostre passioni e nel vincere le nostre paure. Come il soldato si esercita in tempo di pace a combattere il nemico, così è saggio prepararsi a prevenire gli strali della fortuna, soprattutto quando ancora se ne godono i benefici (Ad Luc. 18, 11). Tre cose ci fanno paura: la miseria, la malattia e la persecuzione dei potenti, che è la più temibile di tutte (ibid. 14, 3 ss.); tutte e tre, comunque, richiamano la morte come esito finale possibile e attestazione radicale della nostra finitezza. Tuttavia, è proprio l’atteggiamento che assumiamo di fronte alla morte, la più assidua e angosciante delle paure, a decidere in ultima istanza della nostra vittoria o della nostra sconfitta di fronte alle “perturbationes” e alle “cupiditates”, e quindi del nostro essere o non essere uomini liberi.
Non è cosa da poco la morte, non è tale che la si possa facilmente trascurare e, dunque, “bisogna rafforzare l’animo con molto esercizio perché impari a sopportare la sua vista e il suo arrivo” (ibid. 82, 16). La morte, pur non essendo un male, ha però l’apparenza del male, e anzi del più grande dei mali. “Nell’uomo, infatti, sono uniti l’amore di sé, la volontà di vivere a lungo e di conservarsi nell’essere, la ripugnanza al dissolvimento” (ibid. 82, 15); a torto o a ragione, noi riteniamo inoltre che la morte ci privi di molti beni e ci allontani da molte cose che sono entrate a far parte delle nostre abitudini. Di questa vita – del suo intreccio di bene e male, di buona e cattiva sorte, di gioie e dolori – una qualche idea ce la siamo fatta, ma come sarà ciò a cui stiamo per andare incontro? Ecco, l’avversione alla morte è accresciuta dal fatto che noi abbiamo orrore dell’ignoto (horremus ignota, ibid. 82, 15). Abbiamo una naturale paura delle tenebre e crediamo che la morte sia il regno delle tenebre, anche perché secolari credenze e molti ingegni hanno fatto a gara ad accrescere la cattiva reputazione di ciò che ci attende dopo la morte. Né va taciuto il fatto che essere razionalmente persuasi che i morti non hanno nulla da temere basti ad allontanare da noi “la paura di andare incontro al nulla” (ibid. 82, 16). Ma le inconsulte paure non si vincono solo con le argomentazioni: occorre prendere dimestichezza con l’idea della morte, invece di censurarla e di trasformarla in un tabù. Solo meditando su di essa e riconoscendo in essa una dimensione permanente del nostro essere, riusciremo a far sì che l’incubo scompaia per lasciar posto all’attesa serena di un ospite che può arrivare da un momento all’altro.
Seneca riprende così un tema caro a Platone, che ne trattò specialmente nel “Fedone”, ma lo fa con una ricchezza di motivazioni e sfumature etico-psicologiche che non ha eguali. Nel motivare la terapia per vincere la paura della morte e l’apprendere a morire per poter vivere da uomini liberi, Seneca è insuperabile anche perché dietro le sue parole si avverte un’esperienza diretta, in prima persona, soprattutto nelle “Lettere a Lucilio”, scritte quando il loro autore si trovava in una condizione di precarietà totale, come una goccia d’acqua “in extrema tegula” (ibid. 12, 5), che rotola fin sull’orlo del tetto e, se non è ancora precipitata, è lì lì per farlo. Il filosofo romano strappa alla morte la maschera con cui ci atterrisce perché, caduta la maschera, cade anche il terrore. La morte è, secondo la filosofia stoica, uno degli “adiáfora”, qualcosa di indifferente che non è per sé né bene né male; ma per Seneca essa è anche qualcosa di cui a noi è data la possibilità di fare l’uso migliore. Morire è in teoria un “indifferente”, ma morire in conformità con l’honestum è altrettanto bello e buono che vivere secondo gli stessi valori (ibid. 71, 16). Che poi l’eroe soccomba contro un destino più forte di lui e che nelle vicende di questo mondo si debba registrare la sconfitta della “virtù”, anche questo va messo nel conto. Catone l’Uticense, ad esempio, è come un gladiatore che nell’arena combatte e cade da valoroso. Sparita la libertà politica, egli in segno di protesta ne riafferma tutto il valore nell’atto stesso di sacrificare volontariamente la sua vita. Dante ne eternerà la vicenda, mettendo sulle labbra di Virgilio quei versi sublimi: “libertà va cercando ch’è si cara / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg. 1, 71-72). Al momento, la sconfitta di Catone apparve innegabile; ma “egli dimostrò che un uomo coraggioso può vivere e morire a dispetto della fortuna” (Ad Luc. 104, 29). Ciò che importa, comunque, è che ci siano uomini pronti a far a meno della vita piuttosto che della dignità. E chi può dire se il ricordo dei grandi uomini non porti frutto a distanza di tempo? Quanti si ispireranno al loro esempio e lotteranno per aprire nella storia un varco ai valori per i quali essi offrirono la vita?
L’enfasi posta sulla figura di Catone e sulla sua fine impone l’esame anche di un altro problema: la morte volontaria, divenuta fenomeno diffuso nell’età ellenistico-romana. Sulla questione del suicidio l’antichità conobbe due posizioni fondamentali: da una parte, Socrate, Platone e Plotino videro in esso un’ipotesi proibita, perché in nessun caso l’uomo può disporre della vita che Dio gli ha data, né essere autorizzato a fuggire dalle sue responsabilità; dall’altra parte, epicurei e stoici ne ammisero la possibilità, sia pure in determinate circostanze. Epicuro, ad esempio, condanna apertamente coloro che si danno la morte per disgusto o per paura della vita (fr. 496 Usener) e Seneca cita quel pensiero con vivo consenso (Ad Luc. 24, 22). Il suicidio, insomma, è ammesso se compiuto a tutela della propria integrità e dignità morale. L’impressione prevalente, però, è che nello stoicismo antico e in Seneca si vada oltre il criterio formulato da Epicuro. Scrive il filosofo romano: “Grazie a Dio, nessuno può essere costretto a vivere; sta, infatti, a noi sbarazzarci di ciò che pesa su noi come una necessità” (ibid. 12, 10). Quello che avrebbe dovuto essere un doloroso passo è molto spesso celebrato dai pensatori stoici come la suprema espressione di libertà e la prova per eccellenza di signoria su se stessi. Occorre, però, ricordare che a Seneca fu ordinato di morire e che egli, a differenza di Zenone e Cleante, non scelse di lasciare questo mondo di sua propria volontà. Com’egli stesso ci ha raccontato, quand’era giovanissimo, essendo molto malato, pensò al suicidio; decise, però, di vivere non volendo arrecare un grande dolore al padre, molto avanti negli anni, e agli amici (ibid. 78, 3-4). L’idea di chiudere definitivamente i conti con la vita tornò ad affacciarsi nell’ultimo triennio, ma in lui vinse ancora una ragione più alta dell’affermazione della propria assoluta libertà: “Vivere è un dovere quando il bene dei nostri lo richiede”, scrive nobilmente Seneca, e a chiedere al filosofo di continuare a vivere e a giovare agli altri questa volta era la dolce moglie Paolina (ibid. 104, 2-5).
Al di là della vittoria sulla paura della morte, al di là del modo lucido e coraggioso di gestire eticamente la consapevolezza di dover morire, le domande metafisiche si pongono in tutta la loro ineludibilità: che cosa significa morire, c’è una vita oltre la morte e, se c’è, verso quale immortalità siamo incamminati? Per ironia della storia, mancò allo stoicismo, uno dei più alti movimenti spirituali che siano mai esistiti, una dottrina della realtà dello spirito: l’anima, infatti, è anch’essa soma, pur trattandosi di un corpo formato da un fuoco sottile che trova sempre una via d’uscita. E dire che poi, nelle analisi delle capacità proprie dell’intelligenza (psiché logiké), ed in particolare della vita morale, spesso i filosofi stoici, e Seneca in primo luogo, hanno toccato i vertici della speculazione. Di qui l’oscillazione permanente del filosofo romano – dall’opera prima, la consolazione “A Marcia”, alla corrispondenza con Lucilio – fra la morte come “fine”, dissoluzione di tutto l’uomo, corpo e anima, come nella “Lettera 54”, e la morte come “transito”, passaggio a una vita nuova e più alta, di cui si parla nella “Lettera 102”. In lui, insomma, il dubbio e la volontà di credere coesistono, s’intrecciano e si limitano a vicenda. Pertanto, sul problema dell’immortalità, proprio a colui che aveva per primo introdotto in Occidente la riflessione tematica sulla morte era preclusa la scelta fra il sì e il no. L’ultima sua parola sembra sia stata un problematico “forse”. L’immortalità personale è per Seneca una speranza, che non riusciamo a tradurre in certezza razionale, anche se ad essa non possiamo e non vogliamo rinunciare.
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Testi di Seneca
L’UOMO, UNA CORDA TESA FRA OPPOSTE POSSIBILITÀ
CHE COSA È L’UOMO? L’UOMO SI PORTA APPRESSO LA SUA FRAGILITÀ. Che cos’è l’uomo? Un vaso che alla più piccola scossa, al più piccolo movimento va in frantumi. Non ci vuole una grande tempesta per distruggerti: al primo urto, ti sfascerai. Che cos’è l’uomo? Un corpo debole e fragile, nudo, privo di difese naturali, bisognoso dell’aiuto altrui, esposto a ogni oltraggio della sorte. Un corpo formato da tessuti deboli e delicati, che si presentano [strutturati] in splendide forme; incapace di reggere al freddo, al caldo, alla fatica, ma soggetto a dissolversi anche nel torpore e nell’inazione; preoccupato di procurarsi il cibo che, se scarso, lo fa venir meno e, se eccessivo, lo fa scoppiare; sempre in ansia per la propria conservazione e col fiato sospeso, che uno spavento improvviso o un improvviso fragore bastano a stroncare; un corpo che è sempre a se stesso fonte di pericoli.
E ci stupiamo che subisca la morte, per la quale basta un solo rantolo? Un odore, un sapore, la stanchezza e la veglia, una bevanda, un cibo, e tutte quelle cose senza le quali non può vivere possono dargli la morte. In qualunque direzione si muova, l’uomo ha subito coscienza della propria debolezza (quocumque se movit, statim infirmitatis suae conscium): non sopporta ogni clima; può ammalarsi per avere cambiato qualità dacqua, per aver respirato arie a cui non è abituato, per accidenti e disgrazie insignificanti. Quell’essere fatiscente e malaticcio, inaugura la vita col pianto: eppure, questo spregevole animale, dimentico della propria condizione, quali grandi pensieri arriva a concepire!
Si eleva con l’animo a ciò che non muore ed è eterno, e, proteso verso il futuro, dà disposizioni per i nipoti e per i pronipoti. Intanto, viene a stroncarlo la morte. E quella che chiamiamo vecchiaia arriva nel giro di pochissimi anni. (Marc. 11, 3-5)
L’UOMO, PUPILLO DELLA NATURA. Abbiamo ricevuto tanti doni e attitudini, e soprattutto l’intelligenza. L’intelligenza, non appena si applica, penetra dappertutto ed è più veloce delle stelle, delle quali a distanza di secoli prevede i percorsi. Dalla terra ci viene una straordinaria varietà di prodotti, e abbiamo ricevuto innumerevoli altre cose. Passa pure in rassegna tutti gli esseri e prendi da tutti le singole qualità che vorresti ti fossero date: non ne troverai uno al quale tu vorresti sostituirti in tutto e per tutto. Esaminando bene la liberalità della natura, devi proprio ammettere che sei stato il suo pupillo.
È così: agli Dei immortali siamo stati e siamo ancora quanto mai cari. Concedendoci il massimo onore che a noi si potesse rendere, ci hanno collocati subito dopo di loro. Grandi sono i doni che abbiamo ricevuti, maggiori di questi non saremmo stati capaci di accoglierne. (Ben. 2, 29, 5-6)
Sarebbe una cosa ben meschina l’uomo, se non si sollevasse al di sopra delle cose umane (o quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit)… L’anima raggiunge il bene pieno e perfetto della condizione umana quando, al di là del male che ha calpestato, si volge verso l’alto e penetra nel seno più riposto della natura. Allora può viaggiare [con la mente] in compagnia degli astri… Quando l’anima tocca certe altezze, comincia a nutrirsi di esse e progredisce: liberata dalle catene, ritorna alla sua origine. A lei è dato di partecipare alle realtà divine non come a cosa d’altri, ma come a ciò che le appartiene di diritto… Essa sa che tutto ciò la riguarda direttamente… (Nat. quaest. 1, praef. 5, 7 passim)
IL RISCHIO DELL’AZIONE. Noi non ci aspettiamo mai una certezza assoluta, perché è difficile la ricerca della verità (in arduo est veri exploratio), ma seguiamo la strada della verosimiglianza. Con questo criterio procediamo in ogni attività: è così che seminiamo, navighiamo, intraprendiamo imprese militari, prendiamo moglie ed alleviamo i figli. Pur essendo incerto l’esito di tutte queste attività, noi seguiamo la strada che crediamo ci offra buone speranze. Chi, infatti, può garantire il raccolto all’agricoltore, il porto al marinaio, la vittoria al soldato, l’onestà della moglie al marito, l’affetto dei figli al padre? Noi andiamo là dove ci spinge una ragionevole verosimiglianza, non dove ci conduce la verità assoluta.
Se tu aspetti di fare solo ciò che avrà un sicuro successo e di conoscere solo ciò che è verità assoluta, allora, messa da parte ogni attività, la vita si ferma. (Ben. 4, 33, 2 e 3 passim)
CORRIAMO SENZA SAPERE VERSO CHE COSA. Lucrezio ha denunciato la confusione in cui versa il nostro spirito: I fanciulli tremano e hanno paura di tutto nell’oscurità più profonda, noi abbiamo paura in pieno giorno (De rer. nat. 2, 55-56). Occorre, però, una precisazione. Non è che noi abbiamo paura in pieno giorno; è che noi abbiamo avvolto ogni cosa nelle tenebre. Non vediamo niente, né quello che ci nuoce, né quello che ci giova. Corriamo tutta la vita di qua e di là, senza saper sostare e senza fare attenzione a dove mettiamo i piedi. È una folle corsa nelle tenebre! Pur non sapendo dove ci porta la strada, noi continuiamo a percorrerla a tutta velocità. E, così facendo, ci toccherà poi tornare indietro da più lontano. (Ad Luc. 110, 6-8 passim)
TRA SPERANZA E DISPERAZIONE. Ogni giorno, ogni ora ti cambia (omnis dies, omnis hora te mutat): ma mentre questa rapina del tempo è ben visibile negli altri, a te sfugge perché si effettua in segreto. Il tempo ci sottrae gli altri; a noi toglie furtivamente una parte di noi stessi. Tu non pensi a questo, né ti curi di porre rimedio alle ferite, ma ti crei motivi di preoccupazione con speranze e timori immotivati. Se tu sei saggio, tempera tra loro questi due sentimenti: non sperare senza disperazione; non disperare senza qualche speranza (nec speraveris sine desperatione, nec desperaveris sine spe). (Ad Luc. 104, 12)
Chi non ha più speranza, ecco chi non deve disperare (quid nihil potest sperare, desperet nihil). (Medea 163)
L’UOMO È PROBLEMATICO, PERCHÉ AMBIVALENTE: COME RIDUCE A BRICIOLE LA SUA VITA. Afferma Epicuro: «Vivono male coloro che incominciano sempre a vivere» (male vivunt qui semper vivere incipiunt). Condannati, infatti, a rifare di continuo la trama della loro esistenza, la loro vita manca di qualsiasi coerenza e completezza… Credimi, gli uomini che si comportano così non sono pochi: sono la quasi totalità. (Ad Luc. 23, 9 e 11 passim)
Con la nostra incostanza noi ricomimciamo sempre da capo a vivere la nostra vita, ora in una maniera, ora in un’altra: la riduciamo a briciole e a brandelli. Ed in tal modo la rendiamo ancora più breve. (Ad Luc. 32, 2)
Siamo proprio come l’uomo descritto da Orazio: non mai uguali a noi stessi e neppure simili, sempre incamminati su vie che divergono (Sat. 1, 3, 11 ss.). Gli uomini sono quasi tutti così. Ognuno muta di giorno in giorno propositi e aspirazioni: ora vuol prendere moglie, ora starsene con l’amante; ora si sente un despota, ora è servilmente ossequioso; ora avanza pretese insopportabili, ora si abbassa al di sotto di chiunque altro; ora dilapida il denaro che è suo, ora rapina quello degli altri. Una volta vogliamo apparire frugali e seri, un’altra volta spendaccioni e vani.
Siamo così, sempre diversi nei nostri atteggiamenti e, quel che è peggio, sempre incoerenti. Nessuno di noi si attiene a un solo ruolo; siamo tutti desiderosi di assumere sembianze diverse (nemo unum agit, ceteri multiformes sumus). Cambiamo maschera di volta in volta e ce ne mettiamo una opposta a quella che ci siamo appena tolta. Di qualcuno che hai visto ieri potresti a ragion dire: «Chi è costui?», tanto è cambiato. (Ad Luc. 120, 21-22)
Gli uomini sanno quello che vogliono solo nel momento, appunto, in cui lo vogliono. I nostri giudizi mutano di giorno in giorno e si capovolgono nei loro contrari. I più prendono la vita come un gioco. (Ad Luc. 20, 6)
Nessuno, per quanto pavido, preferisce star sempre pencolante piuttosto che cadere una buona volta. (Ad Luc. 22, 3)
TRA VOLUBILITÀ E OSTINAZIONE. La volubilità non si ferma mai e l’ostinazione non sa mutar nulla. Ma se ci sono fondati motivi, non si deve aver paura di mutare le nostre opinioni o la nostra condizione. Volubilità e ostinazione sono estremi da evitare. (Tranq. 14, 1)
RIDERE E SDEGNARSI PER LA STESSA COSA. Se una cosa è detta di fronte ad una sola persona, ridiamo; se di fronte a molti, ce ne sdegniamo. Non lasciamo liberi gli altri di ripetere quanto noi stessi, abitualmente, diciamo sul nostro conto. (Const. 16, 4)
Vedrai, se le osservi attentamente, le stesse persone passare nel volgere di un tempo brevissimo dal riso convulso alla rabbia violenta. (Ad Luc. 29, 7)
DUE PESI, DUE MISURE. Ciascuno pretende per sé il potere di un re assoluto ed esige che gli si dia la più esagerata libertà; non vuole, però, che altri si prenda la stessa libertà contro di lui. (Ira 2, 31, 3)
C’È QUALCOSA DI INCONFESSABILE IN NOI. Ognuno interroghi se stesso e scenda nel proprio intimo ed esamini ciò che ha tacitamente desiderato. Quanti desideri ci si vergogna di confessare persino a noi stessi! Quanto pochi sono i desideri che potremmo formulare alla presenza di un testimonio! (Ben. 6, 38, 5)
Perché evocare i mostri dell’inferno? / Nel tuo stesso cuore tu troverai i mostri / che l’hanno atterrito (Quid rogas ditem mala? / Omnes in isto pectore invenies feras, / quas timuit). (Herc. Oet. 269-271)
La condizione originaria di noi uomini è buona, a patto che non ci poniamo fuori da essa (bona condicione geniti sumus, si eam non deseruerimus). (Helv. 5, 1)
La natura noi l’abbiamo violata e rovesciata in tutte le sue leggi. (Agam. 35)
Siamo noi che rendiamo funesta l’aria che respiriamo. (Oed. 36)
Lo sai, ma non lo fai (scis, sed non facis). (Ad Luc. 94, 26)
IL PESO DELLA PRESSIONE SOCIALE E IL RIFIUTO DEI SUOI FALSI VALORI
LA LETTERA 7: L’ASSALTO ALLA NOSTRA PSICHE
Mi chiedi che cosa per te sia bene evitare. Rispondo: la gente. Non puoi affidarti ad essa senza pericolo. Quanto a me confesso che non torno mai a casa quale ne ero uscito. Qualcosa dell’equilibrio raggiunto è turbato, ciò di cui mi ero liberato ritorna. Come succede a chi è stato tanto provato dalla malattia da non poter uscire di casa senza danno, così accade al nostro spirito che si è appena rimesso da una lunga infermità.
L’eccessiva consuetudine con la gente è dannosa: c’è sempre qualcuno che ci decanta un vizio, ce lo inculca e, senza che ce ne accorgiamo, ce lo trasmette. E il pericolo è tanto più grande quanto più numerosa è la gente che avviciniamo. Niente, però, è più dannoso ai buoni costumi di certi spettacoli, perché allora i vizi si trasmettono più facilmente attraverso il piacere.
Capisci che cosa voglio dire? Io ritorno a casa più avido, più ambizioso, più dissoluto, anzi più [incline ad essere] crudele e disumano, proprio perché sono stato tra gli uomini. Mi sono trovato per caso al circo, a mezzogiorno, e a quell’ora mi attendevo scherzi e farse, insomma un qualche diversivo dopo lo spettacolo offerto il mattino. Ebbene, non a qualche buffo intermezzo mi toccò assistere, ma a cose al confronto delle quali i combattimenti del mattino [delle bestie feroci fra loro, o con i gladiatori] sembrano atti di misericordia: guardando i combattimenti fra i gladiatori, io ho assistito a veri e propri omicidi (mera homicidia). I gladiatori, infatti, non avendo alcuna protezione, sono esposti in ogni parte del loro corpo ai colpi che vengono loro inferti e, pertanto, nessun colpo va a vuoto.
Sì, questo è lo spettacolo preferito dalla gente e non potrebbe essere altrimenti. Qui non c’è corazza, non c’è scudo che si opponga al ferro; qui niente difesa, niente schermaglie che possano ritardare la morte dei contendenti… Al mattino gli uomini vengono gettati in preda ai leoni e agli orsi; a mezzogiorno alla crudeltà degli spettatori. E se c’è un vincitore, lo riservano per un altro massacro: unica fine di tutti i combattimenti è la morte…[parr. 1-4]
Si capisce, allora, perché la folla eserciti un’influenza trascinante; ma è proprio per questo che bisogna sottrarsi al suo potere. Questo vale persino per un Socrate, un Catone, o un Lelio; a maggior ragione per chi abbia un animo ancora debole, poco saldo nella virtù, o per chi sia in via di formazione, essendo molto difficile resistere all’assalto di vizi che ci vengono incontro con l’accompagnamento di tanta popolarità.
Un solo esempio di dissolutezza o di avidità fa già molto male. Un commensale che pensi solo ai piaceri della tavola a poco a poco snerva anche te e ti rende fiacco. La vicinanza di un ricco sollecita in te la brama di ricchezza; un compagno di indole malvagia attacca la sua ruggine anche a chi ha ancora un’anima limpida e semplice. Che cosa pensi che sarà del nostro modo di vivere, una volta che siamo assaliti e premuti da ogni parte? Sembra che tu non abbia altra scelta che l’imitazione o la resa. E invece bisogna evitare l’una e l’altra soluzione. Non devi essere simile ai malvagi solo perché sono molti, né ostile ai molti solo perché dissimili da te. Raccogliti in te stesso per quanto puoi. Vivi in compagnia di quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. È un rapporto scambievole, perché gli uomini, mentre insegnano, imparano (mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt). [parr. 6-8]
SE FOSSERO POCHI A FARE UNA COSA… Ci sono cose che noi usiamo non perché siano necessarie, ma perché le abbiamo. Quante cose ci procuriamo solo perché le hanno gli altri, perché le hanno quasi tutti! Tra le varie cause dei nostri mali c’è anche questa: ci lasciamo suggestionare da ciò che fanno gli altri, invece di regolarci secondo ragione, e così finiamo con l’essere trascinati dall’uso corrente. Se fossero pochi a fare una cosa, non ci verrebbe voglia di imitarli (si pauci facerent, nollemus imitari). Se una moda diventa dominante, noi la seguiamo nella convinzione che una cosa è onorevole se fatta da molti. Così per noi l’errore tien luogo del giusto, una volta che sia diventato comune. (Ad Luc. 123, 6)
IL SINGOLO E LA FOLLA. «Quando sei costretto», ammonisce Epicuro, «a stare in mezzo alla folla, allora sovrattutto raccogliti in te stesso» (fr. 209 Usener). Bisogna che tu diventi diverso dai più, però, per poterti ritirare in te stesso senza pericolo. Ritirati solo se sei deciso a diventare buono, interiormente libero, temperante. Altrimenti è meglio scappare da te stesso e perderti nella folla: accanto a te saresti troppo vicino a un poco di buono. (Ad Luc. 25, 7)
NESSUNA PAROLA È INNOCUA. Nessuna delle parole che ascoltiamo è innocua (nulla ad aures nostras vox inpune perfertur). Ci possono nuocere i complimenti così come le imprecazioni contro di noi. Queste facendo sorgere vani timori, quelli viziandoci nell’atto di esaltare in noi e di augurarci beni lontani, aleatori e vaghi, mentre possiamo trovare solo in noi stessi il motivo per essere felici. (Ad Luc. 94, 54)
Nessuno sbaglia solo per sé, ma diffonde su chi gli è accanto la sua stoltezza e, a sua volta, fa sua la stoltezza altrui. I vizi dell’ambiente sociale si trovano negli individui, poiché sono tanti gli individui che li hanno contratti. E così mentre uno rende peggiore l’altro, diventa più cattivo lui stesso. Chi ha imparato il vizio, poi lo insegna. Accumulandosi quel che di peggio ciascuno reca in sé, si genera, nella sua spaventosa forza d’urto, la corruzione generale. (Ad Luc. 94, 54)
VIVERE DI RAGIONE E NON DI CONFORMISMO. Non c’è cosa tanto idonea a metterci nei guai più seri quanto adeguarci alle chiacchiere, ritenendo giusto qualcosa solo perché tutti ne sono fermamente convinti, e degradarci così a vivere non di ragione, ma di conformismo. (Vita 1, 3)
SOLITUDINE E SOCIALITÀ. Bisogna mescolare ed alternare la solitudine ed il commercio con gli altri uomini. (Tranq. 17, 3)
Non vivere per gli altri è non vivere neppure per sé. (Ad Luc. 55, 5)
Come chi diventa peggiore fa danno non solo a sè, ma a tutti quelli a cui, migliore, avrebbe potuto giovare, così chi si prende cura del proprio miglioramento già si rende utile agli altri, non foss’altro perché fa di sé una persona capace, in futuro, di giovare. (Otio 3, 5)
IL TAEDIUM VITAE E LA FUGA DA SE STESSI
PERCHÉ L’UOMO È SCONTENTO DI SÉ? L’essere scontenti di sé (sibi displicere) nasce da mancanza di equilibrio interiore e da passioni non vigorose o poco soddisfatte, quando cioè gli uomini non tentano di realizzare quello che desiderano, o non riescono a ottenerlo, e si sfiancano del tutto in una vana speranza. Sono sempre instabili e sempre volubili, come succede immancabilmente a chi è in bilico. Ricorrono ad ogni mezzo per fare quello che desiderano, si fanno maestri a se stessi nel progettare quelle cose disoneste e rischiose, a cui poi si sentono costretti; e quando alla fatica non segue il premio, li tormenta un’inutile vergogna: soffrono non per aver fatto il male, ma per averlo voluto invano.
Allora si pentono di quanto hanno fatto e hanno paura di rifarlo. Si insinua a poco a poco in essi l’agitazione propria di chi non trova una via d’uscita, non essendo capaci né di comandare alle loro passioni né di assecondarle: di qui l’ondeggiamento senza fine di una vita che non riesce a realizzarsi compiutamente e lo spegnersi fra le disillusioni di un’anima svuotata di ogni vigore.
Questo malessere diventa più grave quando gli uomini, resi infelici dalla propria inconcludenza, cercano rifugio nel privato e negli studi solitari: ma questo non riesce a sopportarlo l’animo umano, che anela alla vita pubblica, ama l’azione ed è per natura inquieto perché non trova in sé di che consolarsi. Perciò, venendo meno le soddisfazioni che offre l’azione a chi vi si dedica con impegno, l’uomo non sopporta più la casa, la solitudine, le solite quattro mura: in una parola, non sopporta di essere abbandonato a se stesso (invitus aspicit se sibi relictum).
Ne deriva quella tal nausea e quello scontento di sé (taedium et displicentia sui), quel voltolarsi dell’animo che non sa dove fermarsi e una rassegnazione cupa e morbosa alla propria inattività, certamente perché ci si vergogna di confessare quali siano le sue cause: la vergogna ricaccia dentro i tormenti e allora le passioni, chiuse in uno spazio angusto senza uscita, si sopraffanno a vicenda. Di qui la malinconia e l’abbattimento, l’interminabile fluttuare di una mente incerta, sospesa fra le speranze avviate e i rattristanti rammarichi. Ne deriva sia la tensione tipica di chi odia la propria solitudine e si lamenta di non avere nulla da fare, sia quell’invidia che detesta a fondo i successi altrui, perché l’inattività sterile alimenta il livore. Colui che non è riuscito a realizzarsi augura, infatti, anche agli altri ogni male possibile. (Tranq. 2, 7-10)
VOLERE E DISVOLERE. Come dobbiamo chiamare questa forza che, mentre noi ci dirigiamo da una parte, ci trae da un’altra, spingendoci proprio verso il punto da cui desideriamo allontanarci? Qual è questa forza che, in continuo contrasto col nostro spirito, non ci permette di volere decisamente una cosa? Noi ondeggiamo fra propositi diversi, ma non prendiamo nessuna decisione libera, assoluta, definitiva.
«È la stoltezza», mi risponderai, «che è incostante e volubile». Ma come e quando riusciremo a uscirne? Nessuno può farlo solo con le proprie forze: bisogna che qualcuno ci porga la mano e ci tiri fuori. (Ad Luc. 52, 1-2)
Chi ha troppo concesso ai vizi è senza vigore e non può accogliere in sé la voce della ragione e metterla in atto. Si è indurito, per un verso, e nello stesso tempo si è infiacchito. «Ma lui lo desidera». Non credergli. Non dico che egli ti voglia mentire quando dice che desidera cambiare vita: egli crede di desiderarlo. La sua vita sregolata lo ha disgustato e tuttavia presto si riconcilierà con essa… Gli uomini amano e odiano a un tempo i loro vizi. (Ad Luc. 112, 3-4 passim)
Certamente, fra tutti i mali, il peggiore è questo, che cambiamo persino i vizi. Non abbiamo neppure la buona sorte di rimanere in un vizio al quale siamo già avvezzi…Siamo sbattuti dai flutti e ci attacchiamo ad un rottame dopo l’altro, abbandoniamo quello che avevamo cercato, torniamo a cercare quel che avevamo buttato. Tutto in noi è un avvicendarsi di brame e pentimenti. (Otio 1, 2-3 passim)
In tutte le cose mi accompagna la debolezza di un’anima che pure nutre buoni propositi e in quella incostanza temo di scivolare giù. Mi pare di pendere sempre, come colui che è lì lì per cadere… Son travagliato non da una tempesta, ma dal mal di mare. Io soffro ancora, pur essendo in vista della terraferma. (Tranq. 1, 16 e 18 passim)
NON SAPPIAMO STARE CON NOI STESSI. Guardali singolarmente: non ce n’è uno al quale non appaia preferibile stare con chiunque altro piuttosto che con se stesso (circumspice singulos: nemo est cui non satius sit cum quolibet esse quam secum). (Ad Luc. 25, 7)
Sempre scontenti di quel che hanno, gli uomini intraprendono viaggi senza meta, percorrono terre e mari. Ma presto i luoghi di grande richiamo annoiano; e lo stesso accade per quelli selvaggi e disabitati.
L’insensatezza avversa sempre la situazione del momento… Si passa così da un’iniziativa all’altra, da spettacolo a spettacolo. Come dice Lucrezio: Tutti in tal modo sempre fuggon se stessi (De rer. nat. 3, 1066). Ma a che pro, se non riescono a sfuggire a se stessi? L’io, compagno insopportabile, insegue se stesso e incalza. (sequitur se ipse et urget gravissimus comes). (Tranq. 2, 13-14)
Lunghi i viaggi, molti i luoghi visitati; ma tristezza e noia non sono stati vinti in te. L’animo devi mutare, non il cielo (animum debes mutare, non caelum). Anche se ti lasci dietro terre e città, come dice il nostro Virgilio (Aen. 3, 72), dovunque andrai ti seguiranno i tuoi vizi.
Disse Socrate ad uno che si lamentava per lo stesso motivo: «Perché ti meravigli se non trai vantaggio alcuno dai tuoi viaggi, dal momento che porti in giro te stesso? Ciò che ti ha spinto lontano continua a pesare su di te. Questo continuo agitarti non serve a nulla. Perché non ti giova fuggire? Perché tu fuggi sempre in compagnia di te stesso. È il peso dell’anima che devi deporre; prima [di averlo fatto], nessun luogo ti potrà piacere» (Tecum fugis. Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus). (Ad Luc. 28, 1-2)
Non scandalizzarti se riesce a pochi intendersi a meraviglia con se stessi. Noi, infatti, siamo a noi stessi tiranni e molesti già per nostro conto. Una volta ci amiamo e un’altra abbiamo disgusto di noi stessi: siamo poveri esseri, il cuore dei quali è di volta in volta gonfio di orgoglio, tormentato dal desiderio, fiaccato dal piacere, consumato dall’inquietudine. Noi non sappiamo mai stare con noi stessi e questa è la nostra peggior miseria. (Nat. quaest. 4, praef. 2)
IL DOCUMENTO-PROGRAMMA: LA LETTERA 1
Fa’ come ti dico, caro Lucilio, rivendica finalmente te a te stesso e il tempo che finora ti veniva portato via, o che ti era sottratto, o ti fuggiva, tienilo nelle tue mani e custodiscilo. Persuaditi, che è proprio come ti dico: del tempo parte ci viene strappata, parte ci è tolta subdolamente, parte va dispersa. Tuttavia lo sperpero più vergognoso è quello che si fa per negligenza. Se osservi bene, buona parte della vita la perdiamo a far male, la massima parte a non far niente, tutta a fare ciò che non ci riguarda.
Trovami uno che attribuisca qualche valore al tempo, che sappia impiegar bene una giornata e capire che quotidianamente si muore. Perché in questo ci inganniamo: vediamo la morte davanti a noi, mentre per gran parte l’abbiamo già oltrepassata: tutto ciò che della vita ci siamo lasciati dietro appartiene, infatti, alla morte. Fa’ quindi, mio Lucilio, quello che, a quanto mi scrivi, già stai facendo: abbi cara ogni ora (omnes horas complectere). Potrai dipendere meno dal domani, se diventerai padrone dell’oggi. Mentre si rimanda la vita [dello spirito], essa passa.
Nulla, Lucilio, ci appartiene; solamente il tempo è nostro: la natura ci ha dato questa sola cosa, passeggera e fuggevole, ma ne esclude quanti vogliono essere esclusi. E poi gli uomini sono tanto stolti che si riconoscono debitori per aver ottenuto cose insignificanti e di nessun valore, cose comunque sostituibili, non si sentono mai in debito quando hanno ricevuto in dono dagli altri parte del loro tempo; eppure questo è l’unico bene che nemmeno la persona grata può restituire.
Chiederai forse come mi comporti io che do questi consigli. Lo confesserò francamente: mi comporto come un signore amante del lusso, tuttavia sono ordinato e il registro delle mie spese è ben tenuto. Non posso dire di non perdere nulla, ma sono in grado di dire che cosa perdo e perché e in che modo. Insomma, posso rendere conto della mia povertà. A me accade, del resto, quel che accade alla maggior parte di coloro che sono ridotti in miseria non per colpa loro: tutti li compatiscono, nessuno li soccorre.
Io non ritengo povero colui che si accontenta di quel poco, non importa quanto, che gli rimane. Preferisco, tuttavia, che tu abbia cura del tuo patrimonio e tu comincerai a farlo per tempo. Infatti, come dicevano i nostri vecchi, «è troppo tardi bere a piccoli sorsi, quando si è giunti al fondo». Sul fondo, infatti, rimane non solo ben poco vino, ma il peggiore. Sta bene. [parr. 1-5]
LE GRANDI PAGINE DEL DE BREVITATE VITAE SUL TEMPO
NON È SCARSO IL TEMPO A DISPOSIZIONE, SIAMO NOI A RENDERLO TALE. La maggior parte degli uomini si lamenta della malignità della natura perché noi siamo generati a breve vita: questo spazio di tempo che ci è concesso scorre via così veloce e con tanta rapidità che, fatte poche eccezioni, tutti gli altri si vedono abbandonare dalla vita mentre ancora stanno preparandosi alla vita. E di questo male a tutti comune – così almeno lo giudicano i più – non si dolgono soltanto il popolino e la gente ignorante, ma perfino uomini celebri. Di qui la famosa massima del più grande dei medici, [Ippocrate]: «La vita è breve, lunga l’arte».
Di qui quell’atto di accusa, così poco conveniente a un saggio, mosso alla natura da Aristotele: «La natura si è mostrata molto generosa verso gli animali, la cui esistenza [per ognuno] copre un arco di tempo che va da cinque a dieci generazioni, mentre all’uomo, nato per molte grandi imprese, è assegnato un termine assai più breve».
In realtà, non è scarso il tempo a nostra disposizione, siamo noi che ne abbiamo perduto molto (non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus). Abbastanza lunga è la vita e ce n’è stata data con generosità per compiere opere altissime, se fosse interamente utilizzata bene. Se però viene sprecata nella dissipazione e nell’ignavia, se non viene spesa in un’attività degna, ci capiterà di accorgerci che la vita è passata via solo quando saremo con l’acqua alla gola: prima, non la sentivamo passare.
È così: non è breve la vita che riceviamo, ma siamo noi a renderla tale (ita est: non accipimus brevem vitam, sed facimus). Del nostro tempo non siamo poveri, ma prodighi. Un patrimonio immenso, da re, se capita nelle mani di un cattivo padrone, viene dissipato in un momento; invece, una ricchezza modesta, affidata a un buon amministratore, col tempo aumenta di valore. Così la nostra vita: diventa molto lunga per chi sa disporre bene di essa. (Brev. 1, 1-4)
L’INCREDIBILE SPRECO DEL TEMPO. Perché lamentarsi della natura? Con noi è stata benigna. È lunga la vita, se ne fai buon uso (vita, si uti scias, longa est). [Ma quanti ne fanno buon uso?]. Ecco, uno è dominato da un’insaziabile attività; un altro si dà un gran da fare in cose inutili. Uno, roso dall’ambizione, è sempre preoccupato dei giudizi altrui; un altro, col miraggio di arricchirsi, si lascia trascinare per tutte le terre e per tutti i mari dall’irrefrenabile smania degli affari. Quelli tormentati dalla frenesia della guerra sono sempre intenti a escogitare pericoli per gli altri, o sono in ansia per i propri; e che dire di quelli che si consumano in una volontaria schiavitù, nell’ingrato compito di tributare un vero e proprio culto ai loro superiori?
E quanti si lasciano prendere dalla passione dell’altrui bellezza, o dall’ossessione per la propria? I più, privi come sono di uno scopo da perseguire, spinti dalla loro superficialità volubile, perennemente insoddisfatta, rincorrono di continuo un progetto dopo l’altro. Quelli, però, per i quali nulla va bene e non hanno una meta a cui dirigere il loro cammino, il fato li sorprende nel torpore, tra gli sbadigli, sì che non esito a giudicare vera la frase che il più grande dei poeti ha lasciato scritta, come un oracolo: «Piccola è la parte della vita in cui viviamo». Tutto il resto, infatti, non è vita, ma tempo.
Ci incalzano i vizi e ci assediano da ogni parte, e non ci permettono di rialzarci, né di fissare gli occhi alla verità. Premono su quelli che sono immersi nelle passioni e inchiodati ad esse, e non consentono loro di ritornare in se stessi. Talvolta riescono a trovare un po’ di riposo, ma restano sempre inquieti: come quando, in alto mare, anche dopo che è calato il vento, continua l’agitazione delle onde. Insomma, per costoro non c’è un momento di tregua dalle loro passioni. (Brev. 2, 1-3)
Nessuno, neppure gl’ingegni più luminosi di ogni tempo, per quanto concordi nel valutare la cosa, potrà mai esprimere adeguatamente lo stupore che suscita questo accecamento della mente: gli uomini non permettono a nessuno di occupare i loro poderi e, se nasce la minima contesa, gli animi s’infiammano; intanto lasciano entrare gli altri nella loro vita, ed anzi sono proprio loro a introdurvi quelli che la faranno da padroni. Così, non se ne trova uno disposto a spartire con gli altri il proprio danaro, ma tra quanti ciascuno spartisce la sua vita! Sono tirchi nel tenersi stretto il loro patrimonio, ma quando si tratta di perder tempo, diventano quanto mai prodighi del solo bene per cui essere avari sarebbe onesto.
Qual è, dunque, la causa di tutto ciò? Voi vivete come se doveste vivere sempre, la vostra fragilità non vi viene mai in mente, né considerate quanto tempo è già trascorso. Voi fate spreco del tempo come se la scorta di cui disponete fosse ancora intera e abbondante, e non pensate che potrebbe essere il vostro ultimo giorno quello che state dedicando a un’altra persona, o ad una qualsiasi attività. Di tutto avete timore come esseri mortali, e tutto desiderate come se foste immortali (omnia tamquam mortales timetis, omnia tamquam immortales concupiscitis). (Brev. 3, 1 e 4)
NON CI RENDIAMO CONTO DEL VALORE DEL TEMPO. Mi stupisco ogni volta che vedo alcuni chiedere ad altri il loro tempo, e quelli essere più che disposti a concederlo. Si bada da parte degli uni e degli altri al motivo della richiesta di tempo, non al tempo in quanto tale: lo si chiede e lo si dà come se non fosse nulla. Ci si trastulla con la cosa più preziosa di ogni altra, ma loro non se ne accorgono: il tempo è incorporeo, non cade sotto gli occhi e perciò viene tenuto in pochissimo conto, anzi non gli si attribuisce quasi nessun valore.
Gli uomini molto volentieri accettano pensioni e gratifiche e per averle non risparmiano fatiche, lavoro, impegno. Nessuno, invece, attribuisce valore al tempo e tutti lo usano con larghezza, come se non costasse nulla. Guardali, però, quando sono malati. Se sentono vicino il pericolo di morte, abbracciano le ginocchia dei medici [per implorare aiuto]; se poi temono la pena capitale, si dicono pronti a dar tutto quello che hanno per aver salva la vita. Così contraddittori sono i loro sentimenti!
Ma se si potesse mettere sotto gli occhi di ciascuno il conto degli anni che restano da vivere come di quelli trascorsi, come si spaventerebbero vedendo che ne restano pochi, come li risparmierebbero! È facile amministrare bene quello che si possiede con certezza, anche se esiguo; ciò che non si sa quando verrà a mancare, quello invece bisogna conservarlo con più cura.
Nessuno ti restituirà gli anni perduti, nessuno ti renderà un’altra volta a te stesso. La vita andrà avanti per la strada per cui si è avviata, non tornerà indietro né arresterà il suo corso. E lo farà senza rumore, senza che nulla ti avverta della sua fuga veloce: scorrerà silenziosa (tacita labetur). Non c’è comando di re né volere di popolo che possa protrarre la sua durata; continuerà a correre come quando fu lanciata il primo giorno, senza deviare, senza indugiare. Che accadrà? Tu sei preso da molte faccende, ma la vita ha fretta. Arriverà, intanto, la morte e per lei il tempo, tu lo voglia o no, dovrai trovarlo (Quid fiet? Tu occupatus es, vita festinat. Mors interim aderit, cui velis nolis vacandum est). (Brev. 8, 1-3 e 5)
PER VIVERE MEGLIO, SPENDIAMO LA VITA A ORGANIZZARE LA VITA. Può esserci qualcosa di più sciocco del modo di pensare di certe persone, che menano vanto della loro capacità di prevedere le cose [e di disporle a loro piacimento]? In tal modo si sono caricati di un bel peso. Per poter vivere meglio, spendono la vita ad organizzare la vita (ut melius possint vivere, impendio vitae vitam instruunt). Dispongono i loro progetti in una lunga prospettiva; ma non è forse proprio questo [programmatico] dilazionamento la peggior iattura della vita? Esso ci fa buttar via un giorno dopo l’altro, man mano che giunge e, promettendoci l’avvenire, ci sottrae il presente. Sta qui il maggior ostacolo della vita: l’attesa, che dipende dal domani, perde l’oggi (maximum vivendi impedimentam est exspectatio, quae pendet ex crastino, perdit hodiernum). Tu vuoi disporre di ciò che è nelle mani della sorte e frattanto ti lasci sfuggire quello che è già in tua mano. E perché mai? Che cosa pensi di fare? Poiché sta nell’incertezza tutto quello che deve ancora venire, cerca, allora, di vivere nel presente.
Ecco, il sommo poeta leva alta la sua voce e, come scosso da un fremito divino, canta un carme salutare: Per gli infelici mortali il giorno più bello della vita / è il primo a fuggire (Virgilio, Georg. 3, 66-67). «Che cosa aspetti», egli disse, «perché ristai? Se non lo afferri, fugge». E anche quando l’avrai afferrato, fuggirà ugualmente. Bisogna, perciò, gareggiare in velocità con il tempo quando ne facciamo uso e attingervi in fretta, come da un torrente impetuoso che non scorrerà sempre.
A biasimare nel modo più efficace l’interminabile fantasticheria contribuisce anche questo: il poeta giustamente non dice “l’età più bella”, “il giorno più bello”. Mentre il tempo fugge così velocemente, tu te ne stai quieto e fai passare indolente, davanti ai tuoi occhi, una serie di mesi e di anni tanto lunga quanto piace alla tua avidità. Il poeta, invece, parla di un giorno e per di più fuggente.
C’è forse da dubitare che il giorno più bello sia sempre il primo a fuggire per gl’infelici mortali, incalzati da tante preoccupazioni? La vecchiaia li sorprende, ma i loro animi sono ancora puerili. Sono giunti, ma impreparati e inerti; non hanno provveduto a nulla ed ecco, all’improvviso, senza che se lo aspettassero, sono piombati nella vecchiaia. Non sentivano che giorno per giorno si avvicinava.
Il viaggiatore, quando è distratto dalla conversazione, dalla lettura, o da una riflessione più intensa [del solito], si accorge di essere giunto a destinazione prima ancora che di essersi avvicinato; così è di questo viaggio della vita, ininterrotto e velocissimo, che noi percorriamo con passo uguale, sia che dormiamo sia che siamo desti. Coloro che sono occupati [nei modi più diversi] si accorgono solo alla fine di essere già arrivati. (Brev. 9, 1-5)
LA COSCIENZA DELL’IO TRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO. La vita ha tre dimensioni: ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà (in tria tempora vita dividitur: quod fuit, quod est, quod futurum est). Ciò che stiamo vivendo è di breve durata, ciò che vivremo è dubbio, solo ciò che abbiamo vissuto è certo. Su questa parte della vita la fortuna ha perduto ogni diritto: essa non può essere assoggettata al potere di nessuno.
Ebbene, gli indaffarati (occupati) hanno perduto il proprio passato. Loro non hanno tempo di volgersi a ciò che pure hanno vissuto; e, se anche ne avessero il tempo, non ne hanno la voglia perché è spiacevole ricordare cose di cui si prova rimorso. Sono, perciò, riluttanti a ritornare con la mente a un tempo male impiegato, tanto più che il ricordo riporta in primo piano quei vizi che la lusinga del piacere momentaneo allora dissimulava. Nessuno si volge volentieri al passato se non chi sottopone le sue azioni al giudizio della coscienza, che non inganna. Deve inevitabilmente temere i propri ricordi chi ha nutrito molte ambizioni, chi ha disprezzato con alterigia, chi è stato arrogante nella vittoria, chi ha perfidamente ingannato, chi ha rubato con cupidigia e ha dissipato con prodigalità. Eppure del nostro tempo questa è la parte sacra e inviolabile, al di sopra di ogni vicenda umana: sottratta al dominio della sorte, non molestata dal bisogno, libera dalla paura e dall’assalto delle malattie. Non può essere né turbata né rapita, il suo possesso è sicuro ed è per sempre. I giorni sono presenti a noi soltanto uno alla volta, anzi momento per momento, mentre i giorni del passato saranno tutti presenti ogni volta che glielo ordinerai: si lasceranno interrogare e trattenere a tuo arbitrio. Ma le persone troppo indaffarate non hanno tempo per farlo.
Solo gli spiriti tranquilli e sereni possono riandare con il pensiero a tutti i momenti della propria vita; la mente delle persone indaffarate è, invece, come se fosse sotto il giogo: non può volgersi a guardare indietro. La loro vita, quindi, sprofonda nel nulla (abit igitur vita eorum in profundum): come un vaso senza fondo, in cui non serve a nulla versare quanto tu voglia. Così non importa la quantità di tempo che viene loro concessa, se non ha dove raccogliersi, dal momento che passa attraverso animi sconnessi e incapaci di trattenerlo. Il tempo presente è brevissimo, tanto breve che qualcuno addirittura ne nega l’esistenza: è sempre in corsa, fluisce e precipita. Finisce di esistere prima di giungere e non ammette sosta più dell’universo o delle stelle, a cui il moto perpetuo non consente di fermarsi mai in uno stesso punto. Solo al tempo presente si rapporta l’indaffarato: un tempo così breve che non si può afferrare. Ma anche questo è sottratto a chi è tirato di qua e di là da tante faccende. (Brev. 10, 2-6)
VIVERE A LUNGO, O VIVERE BENE?
Non pretenderà di aver vita tranquilla chi si affanna per prolungarla, chi annovera tra i beni supremi il vivere a lungo. (Ad Luc. 4, 4)
Nessuno cerca di vivere bene, tutti si preoccupano di vivere a lungo. Tutti, invece, hanno la possibilità di vivere bene, nessuno di vivere a lungo. (Ad Luc. 22, 17)
Non il vivere è buona cosa, ma il vivere bene (non vivere bonum est, sed bene vivere). (Ad Luc. 70, 4)
Come una commedia, così una vita: non importa quanto a lungo duri, ma che sia ben rappresentata (quomodo fabula, sic vita: non quam diu, sed quam bene acta sit, refert). (Ad Luc. 77, 20)
Che tu viva a lungo, non dipende da te; spetta a te, invece, vivere pienamente tutto il tempo che ti è stato assegnato. La vita è lunga, se è piena (longa est vita, si plena est); è piena, quando l’anima prende possesso del bene che le spetta ed esercita un’incontrastata signoria su di sé. (Ad Luc. 93, 2)
Facciamo in modo che tutto il tempo sia veramente nostro; ma non sarà così se prima non cominceremo ad essere padroni di noi stessi. (Ad Luc. 71, 36)
Quando lo spirito si rende conto della grandezza di una sua impresa, si dilata esso stesso e pensa a ciò che gli resta da fare, non a ciò che gli resta da vivere. (Nat. quaest. 3, praef. 4)
Non pochi ricercano e raccontano che cosa gli uomini abbiano fatto. Ma è molto meglio ricercare che cosa essi debbano fare. (Nat. quaest. 3, praef. 7)
Come un’unica catena tiene legati il prigioniero e il suo guardiano, così queste cose, che sono tanto dissimili, procedono insieme: il timore tien dietro alla speranza. L’uno e l’altra sono tipici di un animo incerto, reso ansioso dall’attesa trepidante del futuro. Noi, infatti, siamo incapaci di vivere del presente e vogliamo anticipare col pensiero ciò che è ancora lontano. (Ad Luc. 5, 7-8 passim)
Ogni giorno è una tappa della vita e va considerato come se chiudesse la serie, come se fosse quello che conduce al termine la nostra esistenza e ne segna il compimento. (Ad Luc. 12, 6 e 8 passim)
Prepariamo la nostra anima come se già si fosse giunti all’ultimo giorno. Nessuna dilazione, dunque. Cerchiamo ogni giorno di regolare i nostri conti con la vita (cotidie cum vita paria faciamus). Senza dubbio la vita ha sempre in sé qualcosa di imperfetto, di incompiuto; ma chi ogni giorno ha saputo dare l’ultima mano alla sua esistenza, non si troverà mai a corto di tempo. Pertanto affrettati a vivere e considera ogni giorno come una vita intera. (Ad Luc. 101, 7, 8, 10 passim)
Andando a dormire, diciamo con serena letizia: «Ho vissuto, ho percorso il cammino che la sorte mi ha dato». Se Dio ci darà anche un domani, accettiamolo lieti. Chi attende il domani senza trepidazione può dirsi un uomo felice, che ha il pieno dominio di sé. Chi sa dire: «Ho vissuto», accoglie ogni nuovo giorno come un guadagno. (Ad Luc. 12, 9)
Ciascuno lascia che la sua vita vada a precipizio, poi si trova nauseato del presente e tormentato dall’attesa del futuro. Ma colui che utilizza soltanto per sé ogni istante del suo tempo, che organizza le sue giornate come se ciascuna valesse una vita, non desidera il domani e non lo teme. (Brev. 7, 8-9 passim)
Quello che si è perduto può essere riguadagnato con un impiego attento del momento presente. Il pensare a compiere cose rette è la migliore garanzia di ravvedimento. (Nat. quaest. 3, praef. 3)
La pace senza affanni appartiene a quei pochi che, memori della brevità della vita,/ utilizzano il tempo che non tornerà mai più. (Herc. fur. 174-177)
3. L’UOMO DINANZI ALLA MORTE
L’INEVITABILE COMPAGNA DI OGNI MOMENTO
LA PROCESSIONE DEL GENERE UMANO. Considera l’estrema fugacità del tempo (respice celeritatem rapidissimi temporis) e come è breve il cammino di questa vita che percorriamo con tanta fretta. Osserva la processione del genere umano, i cui membri tendono tutti alla stessa meta: si succedono gli uni agli altri, a una distanza che è brevissima, anche se può sembrare assai lunga.
Ci distinguono gli intervalli, ma l’esito ci accomuna. Il tempo che passa tra il primo e l’ultimo giorno è vario e incerto: se guardi agli affanni, è lungo anche per un bimbo; se guardi alla rapidità con cui passano gli anni, è angusto anche per un vecchio. Niente c’è che sia più labile, fallace, mutevole del tempo. Tutto muta e, se così vuole la fortuna, si volge nel suo contrario e, in tanto avvicendamento degli umani eventi, niente e nessuno è certo se non la morte. Eppure, tutti si lamentano dell’unica cosa che non inganna nessuno. (Ad Luc. 99, 7 e 9)
Non c’è viaggio che non abbia un termine (nullum sine exitu iter est). (Ad Luc. 77, 13)
MORIAMO A POCO A POCO OGNI GIORNO. Noi non piombiamo tutto ad un tratto nella morte, ma ci avviciniamo a poco a poco. Moriamo ogni giorno (cotidie morimur). Ogni giorno, infatti, ci è tolta una parte della vita, e anche quando si cresce, la vita decresce. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri per noi non c’è più: questo stesso giorno che stiamo vivendo, lo dividiamo con la morte. Come la clessidra non si vuota con l’ultima goccia del suo stillicidio, ma con quelle che prima sono cadute, così l’ultima ora in cui cessiamo di esistere non produce, da sola, la morte, ma la compie: allora noi giungiamo al termine, ma da tempo vi siamo incamminati.
Tu, Lucilio, con l’elevatezza e l’efficacia che raggiungi quando metti le tue parole al servizio della verità, hai scritto: «La morte non viene una volta sola; quella che ci rapisce è solo l’ultima». (Ad Luc. 24, 20-21)
L’INCONSULTO ISTINTO DI MORTE. Epicuro rimprovera coloro che bramano la morte, non meno di quelli che la temono. «È ridicolo», scrive Epicuro, «che tu corra incontro alla morte per disgusto della vita, dal momento che è il tuo modo di vivere che ti fa agognare la fine del vivere».
Così pure in un altro passo dice: «Che cosa c’è di più ridicolo come desiderare la morte quando, a forza di aver paura della morte, la vita è talmente dominata dall’affanno da farti desiderare la morte?»…
Non dobbiamo né odiare, né amare troppo la vita. Sono due eccessi da evitare. Ma dei due il più temibile è senza dubbio il primo, la brama di morire. L’inconsulto istinto di morte (ad moriendum inconsulta animi inclinatio) spesso travolge uomini generosi e ardenti, insieme a uomini vili e fiacchi: se gli uni disprezzano la vita, gli altri ne sono come schiacciati.
In alcuni, infatti, si insinua la sazietà, il nonsenso di tutto ciò che fanno e vedono; non l’odio, si badi, ma il tedio della vita. È facile scivolare in questo stato d’animo, spinti anche da certe teorie filosofiche. «Fino a quando», continuiamo a dire a noi stessi, «fino a quando sempre le stesse cose? La notte incalza il giorno, il giorno la notte…Incluse in uno stesso cielo, le cose si fuggono e si susseguono. Tutto passa per ritornare. Non faccio, né vedo mai nulla di nuovo. Nulla ha veramente termine. Ad un certo punto una siffatta visione ingenera nausea». Così per molti la vita non è neppure un dramma: essa è semplicemente inutile. (Ad Luc. 24, 22-26 passim)
IL TIMORE DELL’ULTIMA ORA. Da quando sei nato stai andando alla morte. Il timore di quell’ultima ora rende inquiete tutte le altre. (Ad Luc. 4, 9)
NON GUARDA LA DATA DI NASCITA. «È triste», tu dici, «avere la morte sotto gli occhi». La morte deve averla sotto gli occhi tanto il giovane quanto il vecchio: essa, per chiamarci, non guarda la data di nascita. (Ad Luc. 12, 6)
Tu che mi leggi sei più giovane: e che importa? La morte non tiene conto degli anni. Tu non sai in qual momento essa ti attenderà; perciò aspettala in ogni momento. (Ad Luc. 26, 7)
PUÒ VENIRE DOVUNQUE E IN QUALUNQUE ISTANTE. Che fare? La morte è sulle mie tracce, la vita fugge. Che io non fugga la morte e, intanto, non sciupi vanamente la vita… Il valore della vita non consiste nella sua lunghezza, ma nell’uso che se ne fa. Può accadere, anzi spessissimo accade, che chi ha vissuto a lungo abbia vissuto poco. (Ad Luc 49, 9-10 passim)
UGUALE PER TUTTI. Le cose certe si aspettano e solo le cose incerte si temono. Perché allora temere la morte, dal momento che essa porta con sé una necessità invincibile, uguale per tutti? Chi può lamentarsi se la sua condizione è quella a cui nessuno può sottrarsi (quis queri potest, in ea conditione se esse, in qua nemo non est)? Carattere essenziale della giustizia è l’uguaglianza. (Ad Luc. 30, 11)
CHIAMA TUTTI EGUALMENTE. La morte, questo sicuro punto d’arrivo, non può essere evitato da cure scrupolose, né da prosperità straordinaria o da sovraumana potenza. In modi diversi e suscitando reazioni diverse, la morte chiama tutti ugualmente. (Nat. quaest. 2, 59, 3-4)
Chiunque impreca perché uno è morto, si lamenta che quello sia stato uomo. Siamo tutti soggetti a un unico destino: chi ha avuto in sorte di nascere è votato alla morte. (Ad Luc. 99, 10)
LA MORTE E LA PAURA DELL’IGNOTO. La morte è fra quelle cose che, pur non essendo mali, ne hanno l’aspetto: è insito nell’uomo l’amore di sé, la volontà di vivere a lungo, come la ripugnanza verso il dissolvimento, che sembra gli tolga molti beni e lo strappi a tante cose a cui è affezionato. La morte ci ripugna anche perché, mentre sappiamo che cosa c’è nella vita, ignoriamo quello che ci attende di là, e abbiamo paura dell’ignoto. (Ad Luc. 82, 15)
LA PAURA DELLA MORTE CI RENDE MESCHINI. Fatti animo contro la paura della morte: è questa paura che ci rende meschini. (Nat. quaest. 6, 32, 9)
NESSUNO PUÒ TOGLIERCI LA MORTE. Tutti possono togliere all’uomo la vita; ma nessuno può toglierci la morte. (eripere vitam nemo non homini potest; / at nemo mortem). (Phoen. 1, 151-153)
LA MORTE È SEMPRE QUELLA DEGLI ALTRI. Noi inseguiamo progetti, cariche, retribuzioni, successi. E intanto la morte ci è accanto. Però la morte a cui pensiamo è solo quella che tocca gli altri e non noi. Talvolta, in verità, al nostro animo si presentano casi di morti inaspettate, che ci fanno riflettere; sì, ma solo quel tanto necessario a far svanire la nostra stessa meraviglia. (Ad Luc. 101, 6)
OGNI GIORNO CI AVVICINIAMO. Ogni giorno ci troviamo sempre più vicini al giorno estremo, verso cui ci sospinge ogni ora che passa. Il momento presente, che ora sta scorrendo, è già scivolato nel passato; ma passato è già tutto il tempo che abbiamo vissuto. Ogni giorno ugualmente porta il suo contributo alla morte. La morte arriva l’ultimo giorno, ma si avvicina ogni giorno. (Ad Luc. 120, 17-18 passim)
ANCHE LE CIVILTÀ MUOIONO. Tutto procede secondo tempi ben definiti: tutti gli esseri devono nascere, crescere, morire (nasci debent, crescere, extingui). Questi astri che tu vedi correre in cielo, le fondamenta stesse sulla cui solidità noi contiamo di trovare stabile appoggio, un giorno si consumeranno e verranno meno. Ogni cosa ha la sua vecchiaia. Tutto ciò che è, non sarà. Tutto il genere umano, presente e futuro, è condannato a morte. Le città che ora dominano il mondo un giorno si cercherà dove una volta sorgevano: tutte periranno, anche se in modi diversi… (Ad Luc. 71, 13 e 15 passim)
Il nostro spirito si deve assuefare alla mutabilità non solo delle vicende private, ma anche degli eventi di portata storica. Si sono visti regni sorti dai bassifondi salire al di sopra di ogni altro potere e antichi imperi crollare al culmine della loro più grande potenza. (Nat. quaest. 3, praef. 9)
Ci furono città che un giorno a ragione gli antichi ammirarono: / là ora tu vedi i piccoli sepolcri di grandi eventi (magnarum rerum parva sepulcra vides). (Epigr. 20, 7-8)
IMPARARE A MORIRE PER IMPARARE A VIVERE
MI GIUDICHERÀ LA MORTE. Io mi osservo e dico a me stesso: «Ciò che finora ho fatto o detto è niente, qualcosa di inconsistente e fallace, che può essere anche variamente abbellito. Per conoscere chi sono in realtà, mi affiderò alla morte. Con coraggio, perciò, mi preparo a quel giorno in cui, deposta ogni astuzia e ogni artificio, giudicherò di me stesso se sono coraggioso solo a parole o anche nell’intimo..».
«Non tener conto dei giudizi umani: sono sempre incerti tra posizioni opposte. Lascia stare gli studi di cui ti sei occupato tutta la vita, le dispute, le conversazioni letterarie, gl’insegnamenti tratti dai saggi, i discorsi eruditi: a parole anche i più vili sono coraggiosi. Preparati senza timore alcuno per quel giorno in cui, tolti di mezzo cavilli e maschere, dovrai giudicare tu di te stesso. Sarà la morte a pronunciarsi sul tuo conto (mors de te pronuntiatura est). Il cammino che realmente tu hai percorso nella vita sarà manifesto quando esalerai l’ultimo respiro». Io accetto questa condizione e non ho paura del giudizio». (Ad Luc. 26, 5-6)
SCUOLA DI LIBERTÀ. Raccomanda Epicuro: «Abituati al pensiero della morte: è cosa egregia imparare a morire». Tu mi potresti obiettare: «Non è superfluo apprendere una cosa che capita una sola volta?». Proprio per questo dobbiamo rifletterci su: bisogna, infatti, indagare sempre ciò che è più difficile conoscere per il fatto che non si può prima farne esperienza. «Abituati al pensiero della morte»: chi dice questo c’invita ad essere liberi. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire (qui mori didicit, servire dedidicit). (Ad Luc. 26, 8-10 passim)
La vita, se manca il coraggio di morire, è una schiavitù (vita, si moriendi virtus abest, servitus est). (Ad Luc. 77, 15)
ANDARSENE CON ANIMO SERENO. La filosofia offre questo vantaggio: fa sì che al cospetto della morte l’uomo sia di buon umore, forte e lieto, quali che siano le sue condizioni fisiche. Benché tutto venga meno a lui, egli non viene meno a se stesso.
Gran cosa è questa e per essere appresa esige una lunga meditazione: andarsene con animo sereno allorquando l’ora inevitabile si avvicina. (Ad Luc. 30, 3-4 passim)
Ti scrivo oggi nello stato d’animo di chi la morte possa chiamare proprio in questo preciso istante, mentre ti sto scrivendo. Per conto mio sono pronto ad andarmene (paratus exire sum) e sono nella condizione di godere dell’esistenza proprio perché non do la minima importanza a quanto essa possa durare. Prima di diventare vecchio, cercavo di vivere bene; ora che sono vecchio, cerco di morire bene. Ma morire bene significa morire di buon grado. (Ad Luc. 61, 2)
NON È FACILE IMPARARE A MORIRE. Non c’è bisogno di imparare a riposare placidamente, se si vuole, su un letto di rose. Ma abbiamo bisogno di imparare a non perderci d’animo sotto i tormenti, a passare la notte svegli, in piedi senza appoggiarci ad un sostegno, al posto che ci è stato assegnato e che dev’essere tenuto anche se fossimo feriti. Occorre pertanto esercitarsi a non temere la morte. Essa, infatti, e nessuno dubita che sia così, ha in sé qualcosa di terribile, che ci ferisce nel nostro stesso istinto vitale. (Ad Luc. 36, 8-9 passim)
Vivere è un dovere, quando lo richiede il bene di chi ci è caro. La mia Paolina mi raccomanda sempre di aver cura della salute. Infatti, poiché so che il suo respiro è una sola cosa con il mio, per riguardo a lei comincio a provvedere anche a me. La vecchiaia mi ha reso più forte nei confronti di certe prove, ma io rinuncio al vantaggio dell’età perché mi viene in mente che in questo vecchio c’è anche una giovane che merita ogni attenzione. Così, mentre io non posso chiedere a lei di amarmi di un amore ancora più intenso, lei però da me ottiene che io provveda al mio bene con maggior scrupolo.
È giusto indulgere agli onesti sentimenti e, anche se non pochi motivi ci spingono a soluzioni estreme, richiamare lo spirito per riguardo verso i nostri cari, tenendo la vita con i denti, pur tra molte sofferenze: chi è buono deve vivere non finché gli piaccia, ma finché è bene che viva. Chi non stima la moglie o un amico, tanto da non voler restare in vita più a lungo per amor suo, e persiste nel voler morire, è un debole. Su questo punto non c’è da transigere: vivere è un dovere quando lo richiede il bene di chi ci è caro. E questo vale non solo se uno ha deciso di morire, ma anche se si è già avviato sulla strada che porta alla morte: si fermi, dunque, e si adegui al desiderio dei suoi.
È segno di animo grande riattaccarsi alla vita per amore degli altri: e i grandi uomini hanno fatto spesso così. Ma la prova di umanità per eccellenza è quando la nostra vecchiaia – il cui vantaggio più grande è un’accresciuta padronanza di sé e un uso più coraggioso della vita – siamo indotti a custodirla con cura scrupolosa perché sappiamo di fare ciò che è dolce, utile, desiderabile a qualcuno dei nostri cari.
Inoltre tale comportamento ha in sé una gioia e una ricompensa non mediocri: nulla di più soave, infatti, si potrebbe pensare che essere a tal punto caro alla moglie da diventare per questo più caro a se stesso. (Ad Luc. 104, 2-5)
PORTO, NON SCOGLIO. Nel mare della vita abbiamo navigato, ci siamo portati avanti tanto che dall’orizzonte sono sparite una dopo l’altra, nello scorrere rapidissimo del tempo, la fanciullezza, la giovinezza, poi la virile maturità posta a cavallo tra la giovinezza e l’età provetta, e infine i più begli anni della vecchiaia. Ed ecco, da ultimo, comincia a profilarsi dinanzi il termine comune del genere umano.
Noi, nella nostra grande demenza, pensiamo che quello sia uno scoglio. È invece il porto, talvolta da desiderare, mai da rifiutare (portus est, aliquando petendus, numquam recusandus). Ad (Luc. 70, 2-3)
IL VIVERE, UN’ARTE DA IMPARARE. Non c’è conoscenza più difficile che quella del vivere. Esistono folle intere di maestri nelle altre arti e si sono visti persino dei bambini impararle al punto di poterle anche insegnare. L’arte di vivere, invece, si deve continuare ad impararla durante tutta la vita; anzi, e questo forse ti stupirà di più, per tutta la vita si deve imparare a morire. (Brev. 7, 3)
SOCRATE COME ESEMPIO. Socrate discuteva di filosofia in carcere e, mentre c’era chi gli garantiva la fuga, egli non volle fuggire e rimase per liberare gli uomini dalla paura di quei mali ch’essi temono di più: la morte e la prigione. (Ad Luc. 24, 4)
VITA E MORTE. Anche il morire è uno dei compiti della vita. (Ad Luc. 77, 18)
FINCHÉ STIAMO SU QUESTA TERRA, SIAMO UMANI. Finché restiamo tra gli uomini, siamo umani (dum inter homines sumus, colamus humanitatem); non siamo oggetto di paura, motivo di pericolo per nessuno! Disprezziamo i danni, le ingiurie, le punzecchiature, gli insulti che ci sono arrecati, e sopportiamo con magnanimità questi inconvenienti di breve durata. Il tempo di volger l’occhio, dice il proverbio, di girarci, e la morte arriva. (Ira 3, 43, 5)
PERCHÉ TURBARSI SULLA SOGLIA DELLA VERA PACE? Ha raggiunto la sapienza chi può morire serenamente. Noi, invece, trepidiamo all’avvicinarsi del pericolo, ci perdiamo d’animo, cambiamo colore e dai nostri occhi cadono lacrime che non porteranno alcun frutto. C’è qualcosa di più vergognoso che angosciarci quando ci affacciamo alle soglie della vera pace? (Ad Luc. 22, 16)
CONGEDO. Cure e affanni, prestigio e onori avuti in cambio del dovere / adempiuto, andate, e d’ora in poi altri tormentate. / Dio mi chiama lontano da voi. Compiuto / il mio percorso quaggiù, ti saluto, o terra ospitale. / Il corpo accogli, avida terra, sotto pietre rituali: / a te rendiamo le ossa, l’anima al cielo. (Epigr. 71, 1-6)
4. INTERROGATIVI SULL’ALDILÀ
LA PRIMA IPOTESI: LA MORTE COME FINIS E NON ESSE
LETTERA 54
La malattia, che mi aveva concesso un lungo congedo, [ora] mi ha assalito all’improvviso. «Che genere di malattia?», tu chiedi, e fai bene a chiedermelo perché le ho proprio tutte. Ad una, però, sono soggetto in modo particolare: a quella grave difficoltà di respiro che chiamiamo, appunto, suspirium, termine che ben la designa senza bisogno di ricorrere alla lingua greca. L’attacco è di breve durata, ma violento come una tempesta; cessa per lo più nel giro di un’ora; non so, infatti, chi potrebbe resistere di più respirando come un agonizzante.
Sul mio corpo si sono abbattuti ogni sorta di malanni e di rischi per la salute, ma nessuno mi sembra più fastidioso di questo. Se ne comprende anche la ragione: essere affetti da altri mali significa essere ammalati, esserlo da questo è come esalare l’ultimo respiro. Non a caso i medici lo chiamano «allenamento alla morte»: una volta o l’altra, infatti, l’asma porta a compimento ciò che ha tentato spesso di fare [e ti lascia esanime]. Pensi che io sia felice e contento perché l’ho scampata?
Sarei ridicolo se prendessi questo intervallo tra un attacco e l’altro della malattia per una guarigione; è come se, in tribunale, uno credesse di aver vinto una causa perché è riuscito a rinviarla. A dire il vero io, anche mentre mi sentivo soffocare, non smisi di richiamare alla mente pensieri rasserenanti e coraggiosi.
Dissi a me stesso: che c’è di strano se la morte mi mette alla prova? Lo faccia pure. Io, da parte mia, l’ho fatto con lei per lungo tempo. «Quando?», mi domandi. Addirittura prima di nascere. La morte è il non essere. Ormai so di che si tratta: sarà dopo di me quello che c’era prima di me. Se in tale stato, prima che venissimo alla luce, patimmo delle pene, noi allora non ce ne accorgemmo. Ti chiedo: una lucerna forse è più infelice quando è spenta o prima di essere accesa? Chi lo sostenesse sarebbe un perfetto sciocco. L’uomo è come una lampada che ora si accende, ora si spegne; ebbene, nel tempo che sta in mezzo vi è qualcosa da soffrire, ma sia prima di venire al mondo, sia dopo che abbiamo lasciato il mondo c’è profonda pace. Se vedo bene, caro Lucilio, noi ci inganniamo in questo: pensiamo che la morte debba ancora venire, mentre ci ha già preceduto e ci seguirà. Tutto ciò che fu prima di noi è la morte. Nessuna differenza, dunque, c’è tra il non nascere e il morire, dal momento che il risultato in entrambi i casi è uno solo: il non essere.
Non ho mai smesso di rivolgere a me stesso, anche mentre mi sentivo soffocare, queste esortazioni ed altre simili; ma in silenzio, ovviamente, perché non potevo parlare. Poi, a poco a poco, quella difficoltà di respiro si trasformò in affanno, mi concesse pause più lunghe e alla fine si placò. Mi è rimasto, però, uno strascico e benché quell’attacco non si sia ripetuto, neppure ora il respiro è regolare e qualcosa lo rende ancora faticoso. Sarà quel che sarà, purché non mi venga meno il respiro dell’anima.
Tu, però, per quanto mi riguarda, fatti garante di questo: io non trepiderò nell’istante supremo. Sono già preparato e non faccio programmi neppure per un’intera giornata. Tu, intanto, loda e imita colui al quale non rincresce morire, sebbene gli sia gradevole vivere. Che coraggio c’è, infatti, ad andarsene quando si è cacciati via? Tuttavia ci vuol coraggio anche in quel caso [se tu puoi dire]: sono mandato via, è vero, ma me ne vado come se avessi deciso io di andarmene. Perciò il saggio non è mai cacciato via, perché essere cacciato significa essere costretti ad abbandonare un posto contro la propria volontà. Ma il saggio non fa niente contro voglia (nihil invitus facit sapiens). Sfugge alla legge della necessità, perché è lui a volere ciò che essa gli comanderà. Sta bene. (Ad Luc. 54, 1-7)
LA SECONDA IPOTESI: LA MORTE COME TRANSITUS E DIES NATALIS
LETTERA 102
Riesce fastidioso a chi fa un bel sogno colui che lo sveglia, poiché lo priva di un piacere che, pur essendo illusorio, ha lo stesso effetto di uno reale; ebbene, la tua lettera mi ha procurato una pena simile, perché mi ha distolto da un’utile meditazione, alla quale mi stavo dedicando e che avrei proseguito, se avessi potuto.
Mi compiacevo di pensare, anzi di credere all’immortalità dell’anima. Mi affidavo all’opinione di quei grandi uomini che di una prospettiva tanto consolatrice ci danno piuttosto la promessa che la prova. Mi abbandonavo a una così grande speranza e provavo disgusto per me stesso: ormai guardavo con tristezza quello che restava della mia vita spezzata e mi sentivo di essere prossimo a passare in quel tempo senza fine che è la vita eterna. Da quel sogno così bello sono stato destato all’improvviso dall’arrivo della tua lettera. Ma riprenderò quel sogno e lo recupererò [alla mia riflessione], quando ti avrò congedato. [parr. 1-2]
È naturale che l’uomo si protenda con la mente verso l’infinito. L’anima umana è così grande e nobile da non permettere che le siano posti limiti, se non quelli comuni a Dio. Prima di tutto non accetta [di essere rinchiusa in] una patria terrena, sia Efeso o Alessandria o qualunque altra città, fosse anche più popolosa e ricca di edifici: la sua patria è quella che racchiude nei suoi confini l’intero universo…
L’anima poi non vuole che le venga assegnata un’esistenza limitata alla sua epoca. «Tutti gli anni sono miei», dice, «non c’è età preclusa ai grandi ingegni, non c’è tempo che non sia accessibile al pensiero. Quando arriverà quel giorno che separerà questa mescolanza di divino e di umano, lascerò questo corpo dove l’ho trovato e ritornerò a Dio. Neppure adesso ne sono completamente separato, ma mi trattiene alla terra il grave peso del corpo».
Attraverso questa vita mortale, ci si prepara a quell’altra vita migliore e più lunga. L’utero materno ci contiene per nove mesi e ci prepara non per sé, ma per quel luogo in cui pare che siamo mandati già capaci di respirare e di resistere all’aria aperta: così attraverso questa vita terrena, che si estende dall’infanzia alla vecchiaia, maturiamo per un altro parto. Un’altra nascita ci attende, un’altra condizione (alia origo nos expectat, alius rerum status).
Non possiamo ancora sopportare la vista del cielo, se non da lontano. Perciò, guarda intrepido a quell’ora decisiva. L’ultima ora del corpo non è l’ultima dell’anima. Guarda tutto ciò che ti sta intorno come i mobili di un luogo dove sei ospite: [sapendo, cioè, che] bisogna passare oltre. La natura spoglia chi esce dalla vita come chi entra.
Non puoi portar via più di quanto hai portato nascendo, anzi bisogna lasciare anche gran parte di quello che hai portato per la vita: ti sarà tolta la carne e il sangue che scorre e circola per tutto il corpo; ti saranno tolte le ossa e i muscoli, che sostengono le parti molli e liquide.
Questo giorno che temi come l’ultimo è quello della nascita all’eternità (dies iste quem tamquam extremum reformidas aeterni natalis est). Deponi senza indugio il peso [del tuo corpo], a cui ti tieni aggrappato e non opporre resistenza. Uscisti, lasciando il corpo in cui eri nascosto, e fosti espulso con dolore da parte di tua madre; pure ora gemi e ti lamenti, ma anche il pianto è proprio di chi sta nascendo. Allora, non si doveva fartene una colpa, perché eri venuto al mondo ignaro e inesperto…
Adesso, invece, per te non è più una novità separarti da ciò di cui sei parte; lascia, quindi, serenamente quel corpo che hai abitato troppo a lungo. Sarà sepolto, andrà in decomposizione, non ne rimarrà più traccia. Perché rattristartene? È quello che suole accadere ad ogni nascita, in cui ci si libera dall’involucro che avvolge il nuovo nato. Il corpo è, appunto, nient’altro che il tuo involucro…
Tu, però, portati in alto fin d’ora, per quanto è possibile, e non curarti dei piaceri se non di quelli indispensabili alla vita: volgi adesso il pensiero a qualcosa di più degno e sublime. Verrà il giorno in cui ti saranno svelati gli arcani della natura, si dissiperà la caligine che ci avvolge e ci colpirà da ogni parte un fulgore che assomma e fonde in sé la luce delle stelle. Nessun’ombra turberà quel sereno e il cielo risplenderà di una medesima luce: il giorno e la notte si avvicendano solo in questa parte infima del cosmo. Ci accorgeremo delle tenebre di questa vita mortale quando, con tutto l’essere nostro, mireremo tutto lo splendore che ora ci giunge appena, e solo in minima parte, per il tramite troppo angusto dei nostri occhi. Che cosa ti sembrerà quella luce, quando la vedremo nella sua sorgente?
Questi pensieri non consentono che nell’animo ci sia qualcosa di meschino, di sordido, di crudele. Ci dicono che gli Dei sono testimoni di tutte le nostre azioni e ci comandano di diventar degni della loro approvazione, di prepararci ad imitarli, di rivolgere lo sguardo all’eternità. Chi ha compreso questo pensiero non trema neppure dinanzi a un esercito e alle sue trombe di guerra: in realtà non c’è minaccia che possa far paura a un uomo del genere.
Perché, infatti, dovrebbe temere chi spera di morire? Ma non temerà neanche chi ritiene che l’anima viva solo finché è trattenuta dal vincolo del corpo e che, una volta liberata, si disperda subito, se agisce in modo da essere utile [esempio] anche dopo la morte. Infatti, benché egli venga sottratto alla vista degli occhi, tuttavia torna alla mente il grande valore dell’eroe e la grande gloria della sua stirpe (Virgilio, Aen. 4, 3-4). Rifletti su quanto ci giovano i buoni esempi e comprenderai che la memoria degli uomini grandi non è meno necessaria della loro presenza. Sta bene. [parr. 21-30]
TRA DUBBIO E VOLONTÀ DI CREDERE
Che cosa è la morte? O è la fine, o è un passaggio (Mors quid est? Aut finis aut transitus). (Ad Luc. 65, 24)
Io non abbandono la vita con coraggio a causa della speranza che una strada mi sia aperta verso quel Dio a cui sono imparentato. In verità ho già meritato di essere accolto presso di lui. A lui ho innalzato il mio pensiero e il suo è stato inviato a me. Tu supponi che io sia annientato e che alla morte non sopravviva nulla dell’uomo: ebbene, anche se la mia morte non mi portasse in nessun luogo, io serberei uguale grandezza d’animo. (Ad Luc. 93, 10)
Ha conosciuto la vera luce. Non è stato uno dei tanti. Ha vissuto dando prova del suo vigore morale. Talvolta ha goduto il cielo sereno; altre volte, come spesso accade, ha visto i raggi del sole attraverso le nuvole. Perché chiedi quanto tempo è vissuto? Egli vive ancora. Ci ha lasciato il ricordo di sé ed il suo nome è già affidato ai posteri. (Ad Luc. 93, 5)
Che cosa dirò alla mia anima al momento della morte, che le serva di viatico per il grande viaggio? «Va’ con coraggio! Va’ felice. Non avere dubbi. Ritorni là da dove sei venuta». Non è l’evento che è in questione, ma solo la data (non de re, sed de tempore est quaestio). Non supplicare, non aver timore, non tirarti indietro come se dovessi andare incontro a qualche male. (Nat. quaest. 6, 32, 6)
Dopo la morte attende l’uomo un riposo eterno, la contemplazione di quanto è puro e limpido, poiché ha lasciato tutto ciò che è materia. Liberato da ogni peso estraneo, egli è restituito a se stesso. (Marc. 24, 5)
Nell’aldilà nulla è nascosto nell’oscurità, i pensieri si mostrano senza veli, il cuore è aperto. La vita si svolge in mezzo a tutti e davanti a tutti. Godiamo la visione di ciò che è stato e di ciò che sarà. (Marc. 26, 4)
Tu, morte, ti sei fatta compagna di quelli che sono ormai felici; / gl’infelici, ecco, siamo noi vivi. (Herc. Oet. 122-123)
L’uomo non è mai così vicino a Dio come quando prende coscienza della sua mortalità e si ricorda di essere entrato nella vita per uscirne. Allora egli considera il corpo non come la sua casa, ma come un albergo dove il soggiorno sarà breve…
La più grande prova della provenienza dell’anima da una sede ben più alta è, per un verso, la sua riluttanza a lasciarsi rinchiudere in questo basso mondo che le riesce angusto, e, per un altro verso, la vittoria sul timore d’uscirne. Sa verso quale meta è incamminata l’anima che ha ben presente donde è venuta.
Perciò un’anima grande, conscia della superiorità della sua natura in questo posto di attesa che le è stato assegnato, s’impegna a un’onesta e operosa condotta di vita. Convinta che nulla le appartenga di quanto la circonda, essa se ne serve come di cose ricevute in prestito, pellegrina in terra straniera e sollecita di partire. (Ad Luc. 120, 14-15 e 18 passim)
DISTACCO INTERIORE E BUON USO DELLE RICCHEZZE NEL DE VITA BEATA
Come mai quel tale si professa filosofo e conduce una vita da gaudente? Perché dice che le ricchezze sono da disprezzare e poi ne ha tante? Disprezza la vita, a sentir lui, e tuttavia continua a vivere. Afferma di non dare importanza neppure alla salute, ma se ne prende cura e anzi desidera averla eccellente. Ai suoi occhi perfino l’esilio è una vana parola ed è proprio lui che dice: «Che male c’è a mutar patria?»; ma, appena gli è possibile, preferisce invecchiare nel suo paese. Egli non vede differenza alcuna tra una vita che duri a lungo e una breve; eppure, se nulla glielo impedisce, fa di tutto per prolungare la sua esistenza, vivo e vegeto, fin nella tarda vecchiaia.
È vero, quelle cose vanno disdegnate, non già perché ci si debba rifiutare di averle, ma per averle [e goderne] in tutta tranquillità, senza lasciarci turbare dall’ansia. Il saggio non scaccia lontano da sé le ricchezze; ma se quelle prendono il largo, lui le vede partire con occhio sereno. In qual posto, infatti, la fortuna potrà riporre più al sicuro i suoi doni, se non là dove potrà riprenderseli e senza che si levino lagnanze da parte di quelli che glieli restituiscono?
Il saggio, dunque, non si ritiene indegno dei doni della sorte: non è che ami le ricchezze, ma giudica che sia preferibile averle (non amat divitias, sed mavult). Non le accoglie nella sua anima, ma nella sua casa. Non rifiuta quelle che possiede, ma esercita su di esse un dominio totale e intende servirsene per ampliare il campo d’azione alla sua virtù. (Vita 21, 1-2, 4)
La povertà permette di esercitare un solo tipo di virtù, quello di non farsi piegare e deprimere; la ricchezza, invece, dà modo di dispiegare virtù quali la temperanza, la liberalità, il discernimento, la magnanimità. Perché, allora, dubitare che il saggio trovi maggior possibilità di manifestare il suo animo nella ricchezza piuttosto che nella povertà?
Il saggio non si disprezzerà se è di bassa statura, ma perché mai non dovrebbe preferire di essere alto? Allo stesso modo, se è cagionevole di salute, o è cieco, non se ne lamenterà, anche se gli andrebbe meglio avere un fisico robusto: egli, però, sa bene che nel suo animo alberga una forza ben più grande.
Il saggio sopporterà le malattie, ma ciò non toglie che desideri godere di una buona salute. Certe cose, infatti, anche se rispetto all’insieme non contano molto e possono esserci tolte senza che vada in rovina il bene essenziale, aggiungono qualcosa alla costante letizia che nasce dalla virtù; le ricchezze danno al saggio la stessa gradevole sensazione che un vento favorevole a chi è in navigazione, o a noi una bella giornata, oppure un luogo soleggiato in pieno inverno. I nostri [stoici] pongono la virtù come unico bene, ma chi di essi oserebbe negare che anche le cose considerate “indifferenti” (adiáphora) abbiano in sé un loro pregio e che alcune siano da preferire ad altre? Ci sono cose da cui si può ricavare poco e altre da cui si può ricavare molto per una vita onorevole. [La ricchezza è tra queste ultime]. Perciò non ti lasciar trarre in inganno: le ricchezze sono tra le cose preferibili.
«Perché, allora, mi prendi in giro», dirai, «se per te le ricchezze hanno tanta importanza quanta ne hanno per me?». Vuoi proprio sapere qual è la differenza fra noi due? Per me le ricchezze, se dovessero sparire, non porterebbero via che se stesse; tu, invece, se quelle ti abbandonassero, ne saresti colpito fino allo sbigottimento e appariresti ai tuoi occhi come se fossi stato derubato di te stesso. Presso di me le ricchezze occupano un posto ben delimitato; per te sono al primo posto. Nel mio caso, sono io che dispongo delle ricchezze; nel tuo, tu sei delle ricchezze. (Vita 22, 1-3 e 5)
Smettila, dunque, di interdire il danaro ai filosofi: nessuno ha condannato la sapienza alla povertà. Il filosofo potrà possedere ampie ricchezze, però non sottratte a nessuno, non macchiate del sangue degli altri, né procurate con mezzi disonesti: ricchezze il cui impiego avrà la stessa onorabilità del modo in cui sono state acquisite. Contro ricchezze di tal genere avrà da recriminare solo gente malvagia. Puoi, dunque, accumularne quante ne vuoi, perché sono oneste: abbracciano, infatti, molte cose che ognuno potrebbe desiderare, ma nulla che altri possa rivendicare come suo.
Il saggio non allontanerà i favori della sorte, non si glorierà né si vergognerà di un patrimonio onestamente acquistato. Potrà anche aver motivo di vantarsene se, avendo aperto la sua casa ai concittadini, potrà dir loro: «Prenda ciascuno quello che riconoscerà come suo». Sarà uomo veramente degno d’onore e ricco a buon diritto chi, dopo quell’invito, resterà padrone di tutto ciò che possiede. Chi si è sottoposto, in tutta tranquillità, a un esame del genere da parte della gente, potrà essere ricco a testa alta e professarsi tale davanti a tutti se nessuno presso di lui ha trovato qualcosa di suo.
Il saggio non lascerà che varchi la soglia di casa sua neppure una moneta di disonesta provenienza; nello stesso tempo non escluderà e non rifiuterà le grandi ricchezze, se dono della fortuna o frutto di una buona condotta di vita. Che motivo ha di rifiutar loro un posto d’onore? Vengano pure, saranno accolte. Non bisogna ostentarle, ma neppure nasconderle: il primo comportamento è da sciocchi, il secondo da timidi e pusillanimi che vorrebbero nascondere tutto quello che hanno nella loro borsa. Il saggio, invece, non caccerà di casa le ricchezze.
Che cosa, infatti, dirà parlando alle ricchezze? «Siete inutili», oppure: «Non so che farmene di voi». E perché mai? Non è forse vero che uno in grado di fare un viaggio a piedi, se appena gli è possibile, preferirà farlo in carrozza e che se un povero avrà l’opportunità di diventar ricco, lo diventerà volentieri? Il saggio disporrà di ricchezze, ma come di beni instabili che da un momento all’altro possono prendere il volo, né permetterà che diventino un peso per sé e per gli altri.
Egli farà dono delle sue ricchezze. Perché, infatti, voi che avete, non dovreste rizzare le orecchie [ai bisogni degli altri] e aprire la borsa? Il saggio donerà [del suo] ai buoni o a chi potrà rendere buono, scegliendo i più degni con grandissima oculatezza: sa, infatti, che occorre render conto delle entrate e delle uscite e dare solo per una causa giusta e provata. Un dono mal fatto è una turpe iattura. Il saggio avrà la borsa facile [ad aprirsi], ma non bucata; da essa molto potrà uscire, ma nulla cadere. (Vita 23, 1-6)
[In conclusione:] disprezzerò completamente il regno della fortuna ma, se potrò decidere, di quel regno sceglierò il meglio. Così tutto quello che mi accadrà sarà per il mio bene, ma preferisco che mi capitino le situazioni più agevoli e più liete, e che debba affrontare quelle meno opprimenti. Non è pensabile, infatti, che possa esserci virtù senza fatica; ma certe virtù hanno bisogno del pungolo, altre del freno.
Come il corpo dev’essere frenato in discesa e spinto in salita, così alcune virtù si muovono lungo un pendio e altre su un’altura. Chi mette in dubbio che c’è da salire, da sforzarsi, da lottare per entrare in possesso della pazienza, della forza di carattere, della perseveranza e di tutte quelle altre virtù che resistono alle avversità e sottomettono la fortuna?
Ma è altrettanto evidente che il cammino della liberalità, della temperanza, della mitezza è in discesa. Nell’esercizio di queste virtù teniamo a freno il nostro animo affinché non scivoli; per praticare le altre, invece, lo esortiamo e lo incoraggiamo molto energicamente. Applicheremo, dunque, alla povertà le virtù più coraggiose e combattive; alla ricchezza, quelle che richiedono più riflessione, che insegnano a mettere i piedi sul sicuro e a portare bene il proprio peso.
Stabilita questa distinzione, preferisco le virtù che si esercitano più tranquillamente a quelle che costano sudore e sangue. Perciò non sono io che vivo diversamente da come parlo, ma siete voi che capite a rovescio. Al vostro orecchio arriva soltanto il suono delle mie parole perché voi non cercate il loro significato. (Vita 25, 5-8)
LA POVERTÀ, VIATICO ALLA SAGGEZZA
LA LEZIONE DI ATTALO. Mi ricordo che Attalo, tra la grande ammirazione di tutti [quelli che l’ascoltavano], diceva: «Per troppo tempo mi hanno ingannato le ricchezze. Rimanevo stupefatto quando, in un’occasione o nell’altra, mi abbagliavano con tutto il loro splendore. In una pubblica solennità mi capitò di assistere a questo spettacolo: le ricchezze della città sfilavano mostrando i loro tesori d’oro e d’argento, le loro pietre preziose, le vesti dai colori più ricercati portate da regioni situate al di là dei nostri confini e perfino dei confini dei nemici. Sfilavano anche, da una parte, schiere di giovani, belli ed eleganti, e dall’altra schiere di donne e altre cose ancora, come se la fortuna dell’impero, giunta al suo apice, si compiacesse di passare in rassegna i suoi averi.
In quell’occasione dissi a me stesso: ma che cosa sta a significare tanta ostentazione, a quale scopo tale sfoggio di danaro? Certamente ostentare le ricchezze ha l’effetto.di sovreccitare le già eccitate cupidigie degli uomini. Compresi allora che le ricchezze vanno disprezzate non perché sono superflue, ma perché sono piccola cosa». (Ad Luc. 110, 14-15)
Non giudicarti da ciò che hai. Se vuoi valutare te stesso, metti da parte il danaro, la casa, la posizione sociale. Esaminati nell’intimo. (Ad Luc. 80, 10)
La regola migliore. In fatto di danaro, la regola migliore è quella di non arrivare alla povertà, ma anche di non discostarsi troppo da essa (optimus pecuniae modus est, qui nc in paupertatem cadit nec procul a paupertate discedit). (Tranq. 8, 9)
VIVI POVERO, O COME SE LO FOSSI. «È cosa nobile», dice Epicuro, «una povertà lieta» (honesta res est laeta paupertas). Ma, a dire il vero, non è più povertà quella che è lietamente accolta. Non è povero, infatti, chi ha poco, ma chi desidera di più (non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est)… Vuoi sapere qual è il giusto limite della ricchezza? Il primo è quello di avere il necessario (quod necesse est); il secondo, l’avere a sufficienza (quod sat est). (Ad Luc. 2, 5 passim e 6)
Molti avevano la vocazione filosofica, ma le ricchezze sono state loro di ostacolo; chi è povero procede più spedito, più tranquillo… Se vuoi dedicarti alla cura dell’anima, è necessario che tu sia povero o che tu viva come se lo fossi (si vis vacare animo, aut pauper sis oportet aut pauperi similis)…
La povertà è il miglior viatico della filosofia. La saggezza paga in contanti: rendendo del tutto inutili le ricchezze, è come se ce le avesse già date. (Ad Luc. 17, 3, 5, 10 passim)
Se la libertà ti è sinceramente piaciuta e vuoi spezzare dentro di te i legami che ti tengono avvinto, chiedi pure un po’ di tempo per maturare il tuo proposito in modo che non vi siano poi rimpianti senza fine…
Ma se tu tergiversi per meglio calcolare quello che puoi portare con te, non ne verrai mai a capo. Nessun naufrago si salva a nuoto con i suoi bagagli (nemo cum sarcinis enatat). (Ad Luc. 22, 11-12)
Riduci i tuoi bagagli (sarcinas contrahe). (Ad Luc. 25, 4)
La libertà non può conseguirsi con il denaro: è un bene che non è posseduto né da chi compra né da chi vende. Te lo devi procurare tu quel bene; a te lo devi chiedere. (Ad Luc. 80, 5)
INTERIORE DISTACCO. Nessun bene giova a colui che lo possiede, se lo spirito non è pronto a perderlo (nullum bonum adiuvat habentem nisi ad cuius amissionem praeparatus est animus). Ad Luc. 4, 6
PER PRIMA COSA. Per prima cosa impara a distinguere da te stesso il necessario e il superfluo. (Ad Luc. 110, 11)
CONTA LA DISPOSIZIONE INTERIORE. «Non so», tu mi dirai, «come il ricco sopporterà la povertà, se in essa dovrà cadere». E io non so se il povero, una volta diventato ricco, saprà resistere all’attrazione delle ricchezze. Nell’uno e nell’altro caso quello che conta è la disposizione d’animo, senza la quale è ben piccola prova di buona volontà il pagliericcio o il vestito misero. Deve essere scelta liberamente la povertà e non tollerata per necessità. (Ad Luc. 20, 11)
NON ESSERE POSSEDUTI, MA POSSEDERE SE STESSI. Troppi beni ci portano alla follia e tuttavia non sappiamo lasciarli senza soffrirne. E bada bene che non ti affligge il danno in sé, bensì la falsa opinione di soffrire un danno. Non si soffre, in effetti, per la mancanza di questi beni, ma per il pensiero della loro mancanza. Chi ha il possesso di sé, non ha perso niente (qui se habet, nihil perdidit): ma quanti hanno la fortuna di possedere se stessi? (Ad Luc. 42, 10)
Lo vado gridando… Mostro agli altri la strada giusta, che ho scoperto tardi, ormai stanco di camminare senza meta. Lo vado gridando: evitate tutto ciò che piace alla folla, ciò che è offerto dal caso. Di fronte a beni che sono fortuiti, fermatevi con sospetto e timore. Credete che siano dono della fortuna? Sono trappole (Munera ista fortunae putatis? Insidiae sunt).
Chi di voi vuol vivere al sicuro, eviti il più possibile siffatti doni spalmati di vischio (viscata beneficia), che ci traggono in inganno anche per un’altra ragione: crediamo di essere noi a disporne e invece ne siamo presi. Questo nostro correre ci mena al precipizio. (Ad Luc. 8, 3-4)
SONO PIÙ PERICOLI CHE VANTAGGI. Tutti i beni che ci dilettano di voluttà appariscente ma fallace – denaro, cariche, potere e tantissime altre cose che fanno impazzire di cieca cupidigia il genere umano – comportano fatica per l’acquisto, suscitano invidia in chi non li ha e finiscono con l’opprimere proprio quelle persone che mettono in bella vista. Sono più pericoli che vantaggi. Sfuggenti ed incerti come sono, non si lasciano trattenere facilmente. (Pol. 9, 5)
NON È MAI MOLTO QUELLO CHE NON BASTA. Non è mai poco quello che basta e non è mai molto quello che non basta (numquam parum est quod satis est et numquam multum est quod satis non est)…
Ciò che è sufficiente per la natura non lo è per l’uomo. C’è sempre, infatti, qualcuno che, dopo aver avuto tutto, desidera ancora qualcosa: tanto grande è la cecità umana e tanto facilmente si dimentica il punto di partenza, quando si è andati troppo avanti sulla via del successo. (Ad Luc. 119, 7-8)
EFFETTI DEL CONSUMISMO. Rammolliti come siamo nelle comodità, giudichiamo ormai ogni cosa dura e difficile. (Ad Luc. 20, 13)
La maggiore ricchezza stimola l’amore del lusso e questo, a sua volta, conferisce un’estensione enorme ai vizi. (Nat. quaest. 1, 10)
Chi vive nella prosperità è avido di beni altrui ed è esposto all’altrui avidità. (Ad Luc. 19, 7)
UN ECCESSO DI PROSPERITÀ DÀ ALLA TESTA. E la cosa può capitare sia a un uomo che a una generazione. La sovrabbondanza di mezzi diffonde dappertutto abitudini licenziose. (Ad Luc. 114, 8-9)
I beni di quaggiù sono di ostacolo ai beni veri, in quanto generano errori e pregiudizi. Quanto più in alto e in lungo uno avrà edificato i suoi palazzi, tanto meno vedrà il cielo. (Helv. 9, 2)
Per quanto siano insistentemente desiderati, quei beni che bruciano l’anima e la tormentano sono soltanto splendide miserie. (Ad Luc. 22, 12)
CERTI VIZI HANNO BISOGNO DI SPETTATORI. Elimina la possibilità di fare ostentazione, e avrai insieme eliminato la smania del possesso. L’ambizione, il lusso, la sfrenatezza hanno bisogno di un pubblico (ambitio et luxuria et inpotentia scaenam desiderant): sono vizi da cui si guarisce nel nascondimento. (Ad Luc. 94, 71)
BASTA GUARDARE A CHI SONO CONCESSE LE RICCHEZZE. Le ricchezze non sono un bene: ecco perché può averle anche Elio, il lenone. Dio non ha un modo molto efficace di mettere alla berlina l’oggetto delle nostre brame: quello di concederlo agli uomini più turpi e di allontanarlo dai buoni. (Prov. 5, 2)
SAPER DONARE ED ESSERE GRATI
I CONNOTATI DI OGNI DONO AUTENTICO. La disposizione d’animo del debitore è condizionata da quella del donatore e per questo il bene non va fatto con negligenza. Inoltre non bisogna donare con lentezza, perché – essendo di grande importanza, in ogni favore, la volontà di chi lo fa – chi ha dato tardi vuol dire che per lungo tempo non ne ha avuto l’intenzione. E parimenti bisogna saper donare senza umiliare: infatti, poiché secondo una legge di natura le offese subite incidono più profondamente delle buone azioni ricevute, queste si dimenticano presto, quelle invece sono tenacemente custodite nella memoria. (Ben. 1, 1, 8)
Il bilancio dei benefici non ammette scambio tra dare e avere. Si tratta solo di dare: se si ricava qualcosa, è un guadagno; in caso contrario, non c’è stata perdita alcuna. Si dà solo per dare. Nessuno assegna una scadenza ai benefici né reclama, come un avaro esattore, il tributo al giorno e all’ora fissata. L’uomo virtuoso non pensa mai ai benefici fatti, a meno che non glieli faccia ricordare chi li contraccambia; altrimenti, diventano crediti. È un’usura vergognosa quella di addebitare un beneficio sul conto del beneficato. (Ben. 1, 2, 3)
DONIAMO COSÌ COME VORREMMO RICEVERE. Prima di tutto di buona voglia, subito, senza esitazione alcuna (ante omnia libenter, cito, sine ulla dubitatione). (Ben. 2, 1, 1)
Diamoli i benefici, non prestiamoli a interesse (demus beneficia, non feneremus). (Ben. 2, 1, 9)
CHE FARE CON GL’INGRATI? «Tra quelli a cui abbiamo fatto del bene ci sono alcuni che lo hanno dimenticato, o che fingono di non ricordarsene. Con gente del genere come comportarsi?». La questione che tu mi poni è molto importante e io rispondo così: dobbiamo comportarci con calma, con mitezza di cuore e magnanimità (placido animo, mansueto, magno).
L’offesa di un individuo insensibile, immemore e ingrato non deve mai affliggerti al punto da toglierti la gioia di avergli fatto del bene. Che l’offesa ricevuta non ti faccia mai arrivare a dire: «Vorrei non averlo fatto». Anche se il tuo beneficio a te non porta alcun frutto, ritieniti ugualmente soddisfatto. Non è il caso di sdegnarsi di fronte all’ingratitudine, come se fosse accaduto qualcosa di nuovo. Bisognerebbe, caso mai, meravigliarsi del contrario [dato che esistono mille motivi che distolgono dalla riconoscenza]. (Ben. 7, 26, 1-3)
Ti lamenti di esserti imbattuto in un ingrato. Se è la prima volta, ringrazia la fortuna o la tua prudenza. Però, sta’ attento che la prudenza in questo caso non ti renda gretto. Guai se per evitare il rischio dell’ingratitudine, tu non farai più beneficenza; così, per impedire che si perda nelle mani di un altro, tu lascerai che l’opera buona si perda anche per te. Anche quando incontriamo l’ingratitudine, non dobbiamo stancarci di fare il bene: bisogna seminare anche dopo un cattivo raccolto. (Ad Luc. 81, 1-2)
6. LA SOCIETÀ PIÙ RACCOLTA
DUE LETTERE SULL’AMICIZIA
LA LETTERA 3: scelta oculata e amore senza riserve
Hai incaricato un tuo amico – così tu lo chiami – di portarmi le lettere; ma subito dopo mi dici di non metterlo al corrente delle cose che ti riguardano perché tu stesso non lo fai. Così, in una stessa lettera, hai affermato e negato che egli sia tuo amico. Dunque hai usato quel termine non nel significato suo specifico, ma in modo convenzionale, così come chiamiamo «onorevoli» i candidati alle cariche pubbliche e «signori», se non ci viene in mente il nome, quelli che incontriamo per strada.
Ma se consideri amico uno di cui non ti fidi quanto di te stesso, allora sbagli gravemente e non conosci il valore della vera amicizia. Decidi pure quello che vuoi insieme al tuo amico, ma prima decidi proprio su di lui: una volta sorta un’amicizia, bisogna dare fiducia; prima di fare amicizia, però, bisogna pensarci. Coloro che, contro l’insegnamento di Teofrasto, prima si affezionano e poi giudicano, invece di affezionarsi dopo aver giudicato, capovolgono l’ordine delle cose. Rifletti a lungo se devi accogliere qualcuno tra i tuoi amici; ma se prendi una decisione, accettalo di tutto cuore e parla con lui con grande franchezza, come con te stesso.
Tu poi vivrai in maniera tale da non confidare a te stesso nulla che non possa essere conosciuto dal tuo nemico; ma poiché ci sono cose che è consuetudine tener segrete, rendi l’amico partecipe delle tue preoccupazioni e dei tuoi pensieri. Se ti fiderai di lui, lo renderai fedele (fidelem si putaveris, facies). Alcuni, infatti, proprio perché temevano di essere ingannati, finirono con l’insegnare l’inganno e con i loro sospetti autorizzarono altri a comportarsi disonestamente. Perché mai dovrei essere reticente con un amico? Perché non dovrei considerarmi solo con me stesso, anche se lui è presente?
Ci sono di quelli che raccontano al primo venuto cose che sono da confidare solo agli amici, e scaricano in qualsiasi orecchio le proprie pene; altri, al contrario, hanno paura persino delle persone più care e chiudono dentro [di sé] ogni segreto perché, se potessero, non si fiderebbero neppure di se stessi. Sono comportamenti sbagliati tutti e due perché è un difetto credere a tutti allo stesso modo che non credere a nessuno; tuttavia [in modo distorto] nel primo difetto direi che prevale un atteggiamento di fiducia, nel secondo il bisogno di sicurezza.
Sono da riprovare alla stessa maniera sia quelli che sono sempre in agitazione, sia quelli che non si scompongono mai: non è vera operosità, infatti, ma concitazione di una mente esagitata, compiacersi del trambusto e non è quiete, ma rinuncia alla vita e torpore, giudicare molesto ogni cambiamento.
Terremo a mente, perciò, la massima che ho letto in Pomponio: «alcuni si sono ritirati in nascondigli tanto profondi che non vedono quello che è in piena luce». Bisogna contemperare questi due opposti: chi è ozioso, impari ad agire e chi agisce impari a riposarsi. Consulta la natura: essa ti dirà che ha fatto il giorno [per lavorare] e la notte [per riposare]. Stammi bene. [parr. 1-6]
LA LETTERA 9: il bisogno di avere un amico, un vicino, un compagno
Desideri sapere se Epicuro abbia ragione a criticare, in una sua lettera, chi afferma che il saggio basta a se stesso e non ha bisogno di amici. È una critica rivolta da Epicuro a Stilpone e a quanti credono che il sommo bene consista nella capacità di non sentire alcun male (inpatientia).
Ma se vogliamo tradurre con una sola parola il termine apátheia e renderlo con inpatientia, cadiamo inevitabilmente nell’ambiguità. C’è il rischio, infatti, che si capisca il contrario di quel che vogliamo dire e che si confondano due cose diverse come l’insensibilità a qualsiasi male e la capacità di sopportarlo. In quest’ultimo caso sarà meglio parlare di animo invulnerabile, che giunge a porsi al di sopra di ogni passione.
Fra noi e loro [i seguaci di Stilpone] c’è questa differenza: il nostro saggio vince ogni affanno, ma lo sente; il loro non lo sente nemmeno; noi e loro siamo, invece, d’accordo nel dire che il saggio è contento di se stesso. Eppure, anche se basta a se stesso, vuole avere un amico, un vicino, un compagno (sed tamen et amicum habere vult et vicinum et contubernalem, quamvis sibi ipse sufficiat).
Vedi fino a che punto è contento di sé, che gli basta all’occorrenza anche solo una parte di sé. Se la malattia, o il nemico, lo ha privato di una mano, se un infortunio gli ha fatto perdere un occhio o tutt’e due, quello che gli resta a lui basterà, e sarà lieto con il corpo mutilo o amputato quanto lo era con il corpo intero. Egli non rimpiange le parti che gli mancano anche se preferirebbe che non gli mancassero.
Così il saggio è pago di sé non nel senso che vuol vivere senza amici, ma nel senso che può stare senza amici e questo può significa: ne sopporta la perdita con serenità. Egli certamente non sarà mai senza amici: ha la capacità di farsene al più presto di nuovi (sine amico quidem numquam erit: in sua potestate habet quam cito reparet). Se Fidia perde una statua, ne fa subito un’altra; allo stesso modo questo artefice di amicizie (hic faciendarum amicitiarum artifex), se perderà un amico, lo sostituirà subito con un altro.
«Come farà», mi domandi, «a procurarsi un amico così presto?». Te lo dirò se mi permetti di saldare subito il mio debito, considerando così chiuso il conto per quanto riguarda questa lettera. Dice Ecatone: «Ti indicherò un filtro amoroso senza veleni, senza erbe, senza incantesimi di fattucchiere: se vuoi essere amato, ama» (si vis amari, ama). Praticare un’antica, sicura amicizia dà molta gioia, ma anche iniziarne e procurarsene di nuove.
Tra chi si è procurato un amico e chi se lo sta procurando passa la stessa differenza che tra un contadino che miete e uno che semina. Il filosofo Attalo era solito dire che è più bello diventare amici che esserlo già, «come per un pittore è più bello dipingere che aver dipinto». La dedizione piena al proprio lavoro procura per se stessa un grande diletto. Non ne prova, certo, uno simile chi, terminata l’opera, smette di lavorare. Egli ora gode del frutto del suo lavoro, mentre quando dipingeva godeva del lavoro in sé. L’adolescenza dei figli è più ricca di frutti, ma la loro infanzia è più dolce.
Torniamo ora al nostro argomento. Il saggio, anche se basta a se stesso, vuole tuttavia avere un amico, se non altro per esercitare l’amicizia e non lasciare inoperosa una virtù così grande. Lo vuole, ma non allo scopo, indicato da Epicuro in quella lettera, di «avere uno che lo assista se si ammala, che lo soccorra se viene incarcerato, o se cade in miseria»; bensì per avere qualcuno da assistere se è ammalato, o da liberare dai nemici che l’han fatto prigioniero. Chi ha di mira solo il proprio interesse, e per questo cerca amicizie, fa male i suoi conti (qui se spectat, et propter hoc ad amicitiam venit, male cogitat). Un’amicizia del genere finirà com’è cominciata: l’amico che era stato cercato perché gli portasse aiuto, qualora fosse caduto prigioniero, se la squaglierà al primo sferragliare di catene.
Queste sono le amicizie che la gente chiama «a tempo» (temporarias populus appellat): chi è stato scelto in vista di un utile, sarà gradito solo finché servirà al conseguimento di esso. Per questo una folla di amici assedia i benestanti e intorno a chi è in miseria si fa il deserto: gli amici fuggono quei posti dove sono messi alla prova. Per questo ci sono tanti casi scellerati di amici che abbandonano per paura e per paura tradiscono. È inevitabile che gli esiti siano coerenti con gl’inizi: chi è diventato amico per calcolo, avendo cercato nell’amicizia qualcosa di diverso dall’amicizia stessa, accetterà di buon grado di tradirla per una qualche ricompensa. Ma, tu insisti: «A che scopo, allora, ti fai un amico?».
[La mia risposta è:] per avere qualcuno per cui io possa dare la vita, uno da seguire in esilio, uno che devo difendere da pericoli mortali con tutto me stesso. Ciò di cui tu parli, invece, non è amicizia, ma un contratto, che mira solo al tornaconto e all’utile che si potrà conseguire.
Senza dubbio, l’amicizia ha qualcosa di simile all’amore, il quale si potrebbe definire un’amicizia che si spinge alla follia. C’è forse qualcuno che ami in vista di un guadagno, per la carriera o per la gloria? L’amore, non curandosi di alcun’altra cosa all’infuori di se stesso, accende nell’animo il desiderio ardente della bellezza e spera di esser ricambiato nell’affetto (ipse per se amor, omnium aliarum rerum neglegens, animos in cupiditate formae non sine spe mutuae caritatis accendit). [Tu potresti obiettarmi:] «Ma com’è possibile che una causa veramente nobile [come l’affetto disinteressato per un amico] confluisca in una passione riprovevole [come l’affetto che prende gli amanti sino alla follia]?
«Ma non è questo il momento di vedere se l’amicizia sia desiderabile per se stessa». No invece, è proprio questo il punto da dimostrare: infatti, se l’amicizia è da ricercare per se stessa, allora ad essa può ben accedere chi sa bastare a se stesso. «E con quale disposizione d’animo il saggio cerca l’amicizia?». Come chi cerca una cosa sublime, non attratto dal lucro né atterrito dalla volubilità della sorte: chi fa amicizia solo in vista di circostanze favorevoli, la priva della sua superiore nobiltà (detrahit amicitiae maiestatem suam qui illam parat ad bonos casus).
I più, caro Lucilio, interpretando male la frase «il saggio basta a se stesso», cacciano via il saggio da ogni luogo e lo confinano dentro la sua pelle (et intra cutem suam cogunt). Qual è, invece, il senso autentico di questa massima, che cosa essa promette, in effetti, e in quali limiti? Sì, il saggio basta a se stesso per vivere felice, non certo per vivere. Per continuare ad esistere, infatti, ha bisogno di molte cose, mentre per essere felice gli basta soltanto un’anima retta, impavida e incurante della sorte.
Voglio anche suggerirti una distinzione che fa Crisippo. Egli dice che «il saggio non manca di nulla, e tuttavia ha bisogno di molte cose; lo stolto, al contrario, non ha bisogno di nulla, perché di nulla sa fare buon uso, eppure manca di tutto». Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose indispensabili alle necessità quotidiane; ma per vivere felice egli non ha bisogno di nulla. Sentirsi privi di qualcosa è sottomettersi alla necessità, ma al saggio niente è necessario [a causa del suo essere contento di sé].
Perciò il sapiente, benché sappia bastare a se stesso, ha bisogno di amici e desidera, anzi, averne quanti più possibile, senza per questo che la sua felicità dipenda dalla loro presenza. Il sommo bene non esige, per attuarsi, mezzi estrinseci: si coltiva in casa, dipende solo da se stesso (summum bonum extrinsecus instrumenta non quaerit, domi colitur, ex se totum est); ma se cerca una parte di sé fuori di sé, allora comincia ad assoggettarsi alla sorte.
«Ma quale sarà la vita del saggio se, gettato in prigione, abbandonato fra gente straniera, o sbattuto su un litorale deserto, rimane senza amici?». Quando l’universo si dissolve nei suoi elementi e con essi gli Dei si fondono in una sola cosa, Giove se ne sta in pace, in compagnia dei suoi pensieri. Qualcosa di simile fa il saggio: si rinchiude in se stesso, sta per se stesso.
Ma finché riesce a dare ordine alle sue cose, è contento di sé e prende moglie; è contento di sé e ha figli; è contento di sé e tuttavia non gli piacerebbe vivere senza i suoi simili. All’amicizia non è portato da un tornaconto personale, ma da una tendenza naturale, perché è innato in noi il piacere dell’amicizia come di altre cose. Come ci ripugna l’isolamento e ci attira la compagnia, come la natura avvicina l’uomo all’uomo, così anche in questo nostro sentimento agisce uno stimolo, un impulso originario che ci rende desiderosi di amicizia.
Il saggio ama moltissimo gli amici, se li procura e li antepone a se stesso; nonostante ciò, egli saprà sempre di avere in sé il suo vero bene e farà sua la ben nota affermazione di Stilpone, quello stesso che Epicuro critica nella sua lettera. Quando la sua città fu presa, Stilpone, che aveva perduto i figli e la moglie, scampò all’incendio che tutto aveva distrutto. A lui che usciva da quell’inferno, solo e tuttavia nel suo intimo beato [perché unito al sommo bene], Demetrio, detto Poliorcete [= l’Assediatore] per le città che aveva distrutto, domandò se avesse perduto qualcosa. Stilpone rispose: «Ho con me tutti i miei beni» (bona mea mecum sunt). Questo disse quell’uomo forte e valoroso. [parr. 1-18]
FEDELI ALLE AMICIZIE
AUTO-PRESENTAZIONE DELL’AMICO LUCILIO. «Ho compiuto gli studi liberali. Sebbene le modeste condizioni mi consigliassero altri tipi di occupazione, ed anche le mie inclinazioni mi spingessero là dove si può trarre subito un guadagno, mi sono orientato verso la poesia, che di guadagni non ne offre, e ho voluto dedicarmi allo studio salutare della filosofia.
Ho mostrato che in ogni cuore può abitare la bontà: mi sono affrancato dalle angustie della mia condizione d’origine, ho scelto come termine di confronto non la mia sorte ma la mia anima, mi sono innalzato al livello dei più grandi. Gaio Caligola non riuscì a distruggere la mia fedeltà all’amicizia con Getulico; Messalina, [la moglie di Claudio] e Narciso, [il suo potentissimo liberto] da tempo nemici dello Stato prima che di se stessi, non riuscirono a farmi mutare condotta nei confronti di persone, amare le quali era già di per sé causa di sventura. Ho messo a repentaglio la mia testa per conservare la mia fedeltà (cervicem pro fide opposui) e nessuno è riuscito a estorcermi una parola che io non possa pronunciare senza offendere la purezza della mia coscienza. Per gli amici ho temuto tutto, per me niente, salvo il timore di non essere stato abbastanza un buon amico…
Non mi sono messo a piangere come una donnicciola e a supplicare [chi mi minacciava]. Nulla ho fatto che sia indegno di un uomo buono, di un uomo vero. Sono stato superiore ai miei pericoli e deciso ad affrontarli. È stato un dono della sorte l’essere stato messo alla prova per vedere quale valore avesse per me la fedeltà: d’altra parte, un bene così grande, non doveva costarmi poco. Poiché non avevano lo stesso valore, non ho avuto esitazione alcuna fra queste due alternative: se fosse meglio che morissi io per serbare la fedeltà, o che venisse meno la fedeltà per salvare la mia pelle.
Non mi sono lasciato prendere dall’agitazione e non ho ceduto all’idea del suicidio come via per sottrarmi al furore dei potenti. Sapevo del ricorso di Gaio alla tortura e che durante il suo regno l’umanità era caduta così in basso che era atto di misericordia dare la morte alle vittime [della sua follia criminale]. Tuttavia non mi gettai sulla spada né mi buttai in mare per annegare, perché non sembrasse che per restare fedeli non si potesse far altro che morire». (Nat. quaest. 4, praef. 14-17)
ALTRE CONNOTAZIONI DELL’AMICIZIA
Caro e fidato, ma non triste e brontolone. Nulla potrà rallegrarti l’animo quanto un’amicizia fedele e affettuosa. È un gran bene che ci siano persone nei cuori delle quali tu puoi deporre qualsiasi segreto, sapendo che da esse hai da temere meno che da te stesso: persone capaci di lenire con la parola le tue preoccupazioni, di dissipare con l’allegria la tua tristezza, di sollevarti lo spirito con la loro sola presenza. Per quanto è possibile, sceglieremo amici liberi dalle passioni: i vizi, infatti, serpeggiano ambiguamente e si trasmettono ai vicini per contagio.
Durante una pestilenza si evitano quelli che sono già colpiti dal morbo, per il rischio di contrarre l’infezione mediante il loro stesso fiato; così nella scelta degli amici, stiamo attenti a prenderci i meno corrotti. Mescolare sani e malati è già cominciare ad ammalarsi (initium morbi est aegris sana miscere). Con questo non è che io ti ordini di frequentare e di seguire solo il saggio; d’altra parte dove troveresti un uomo del genere dal momento che è da secoli che lo cerchiamo? Io dico solo: se non si trova il meglio, puntiamo almeno sul meno peggio… In tanta penuria di gente onesta, non possiamo concederci il lusso di essere molto esigenti (in tanta bonorum egestate, minus fastidiosa fiat electio).
Prima di tutto, però, si evitino le persone tristi e quelle che piangono su tutto, quelle che provano gusto a lagnarsi (praecipue tamen vitentur tristes et omnia deplorantes, quibus nulla non causa in querellas placet). Anche se fidato e affettuoso, un compagno così agitato, che brontola per ogni cosa, diventa un nemico della nostra serenità. (Tranq. 7, 1-2 e 4)
QUELLA SOCIETÀ PIÙ RACCOLTA CHE È L’AMICIZIA. A me preme quello che preme a te e non ti sarei amico, se tutto quello che ti riguarda, non riguardasse anche me. L’amicizia crea tra noi la comunione di tutte le cose (Mihi vero idem expedit quod tibi; aut non sum amicus, nisi quidquid agitur ad te pertinens meum est. Consortium rerum omnium inter nos facit amicitia). Non può vivere felice colui che guarda solo a sé e tutto volge a sua utilità. Vivi per gli altri, se vuoi vivere per te (alteri vivas oportet, si vis tibi vivere). Questo sentimento sociale, che unisce gli uomini tra loro e conferma l’esistenza di una legge fondamentale valida per tutta l’umanità, giova moltissimo se rettamente inteso, a sviluppare anche quella società più raccolta che è l’amicizia. Chi sente di avere molto in comune con ogni uomo avrà tutto in comune con l’amico. (Ad Luc. 48, 2 )
IO, TUO SIMILE. Tu dici: «Perché mi dai dei consigli?». E incalzi: «Li hai già dati prima a te stesso? E con quale risultato?». Non sono così disonesto da pretendere di curare gli altri, mentre sono malato io stesso: ma, come se fossi degente nello stesso ospedale, parlo con te della malattia che abbiamo in comune e ti passo la mia medicina. Perciò tu ascolta quello che ti dico come se io lo stessi dicendo a me stesso: ti apro senza riserve il mio cuore e, dopo averti fatto entrare, mi interrogo (in secretum te meum admitto et te adhibito mecum exigo). (Ad Luc. 27, 1)
POTENZA EVOCATRICE DEI LUOGHI. Non c’è bisogno di vedere un luogo per ricordarsi di un amico. Pure accade che certi luoghi familiari a una persona cara suscitino il desiderio, ch’era celato nell’animo nostro, della sua presenza… Un ricordo, se è del tutto cancellato, non sarà la vista dei luoghi a rinnovarlo; ma se vive in noi, sia pure assopito, può ben essere ridestato. (Ad Luc. 49, 1)
QUANTO PUÒ VALERE UNA LETTERA. Non ricevo mai una tua lettera, senza provare immediatamente la sensazione di essere una cosa sola con te. Se ci sono cari i ritratti degli amici lontani, che rinnovano il ricordo e alleviano la tristezza per la lontananza, quanto più gradite sono per noi le lettere, che ci portano segni tangibili e sentimenti di chi pure è assente! Ciò che è più dolce nella presenza di un amico, la lettera lo porta impresso dalla sua stessa mano: essa è l’espressione vivente della sua personalità. (Ad Luc. 40, 1)
NELLA MALATTIA, L’AMICIZIA COME MEDICINA. Per chi è ammalato i buoni conforti sono medicine, e qualunque cosa solleva lo spirito giova anche al corpo (in remedium cedunt honesta solacia, et quidquid animum erexit etiam corpori prodest)…
Alla mia guarigione [quand’ero giovane] contribuirono molto gli amici i quali mi davano sollievo con i consigli, la compagnia, la conversazione. Niente ristora un malato e l’aiuta a ristabilirsi quanto l’affetto degli amici; niente è così efficace a sottrarlo, senza che se ne accorga, all’attesa e al timore della morte. Pensavo che sarei vissuto non con loro, ma per loro tramite, e così mi sembrava non di esalare il mio spirito, ma di consegnarlo ad altri. Queste riflessioni mi dettero la volontà di voler aiutare me stesso e di sopportare ogni sofferenza. (Ad Luc. 78, 3-4 passim)
LE AMICIZIE DA EVITARE. «Vivi e fuggi l’amicizia dei potenti», tu dici. Consiglio incompleto il tuo. / Questo è lo scoglio più grande, non l’unico. / Vivi e fuggi anche le amicizie che brillano di eccessivo splendore / e tutto ciò che si impone perché molto in vista. / I grandi signori, i nomi di chiara fama, non frequentarli, / e così pure quelli su cui grava la nobiltà del casato. (Epigr. 16, 1-6)
RECIPROCITÀ. Non puoi credere che ti siano amici coloro ai quali tu amico non sei. (Ad Luc. 19, 11)
LA PROVA. La povertà ti mostrerà da chi sei veramente amato. (Ad Luc. 20, 7)
IL PRANZO, MOMENTO DI AMICIZIA. «Devi badar bene» raccomanda Epicuro (Fr. 49 Usener, Lettera a Meneceo) «con chi mangi e bevi, piuttosto che guardare che cosa mangi e che cosa bevi: perché il divorare carne senza amico è vita da leoni e da lupi». (Ad Luc. 19, 10)
NON COME UN SOCIO. Niente ci impedisce di donare qualcosa a un amico, anche se sosteniamo che tra gli amici tutto è in comune. Con un amico le cose sono in comune, non però allo stesso modo in cui lo sono con un socio, per cui una parte è mia e una è sua. Con un amico le cose sono in comune come i figli sono in comune tra padre e madre, e quando i figli sono due non ne hanno uno ciascuno, ma ciascuno ne ha due. (Ben. 7, 12, 1)