La vicenda umana di Simone Weil può essere letta alla luce di una risoluzione ferma e costante di «orientare la propria vita da cima a fondo in un senso determinato»,[1] risoluzione presa sin dall’adolescenza e perseguita fino al punto di rottura. In questo ella espresse certamente un’esigenza personale, che tuttavia non si risolse in pura autoaffermazione nella misura in cui il senso impresso alla sua volontà e al suo lavoro fu di comprendere l’epoca che gli era stata data in sorte. La quantità di problemi sociali, politici, storici, filosofici, religiosi affrontati con estrema lucidità nel vivo dei conflitti dà la misura del compito che ella si era prefissa, avendolo precocemente individuato come il compito cruciale richiesto dalla crisi epocale dell’Occidente. Che ne sia rimasta in breve schiacciata e che abbia preferito lasciarsi morire nel momento in cui ha sentito spezzarsi la capacità di lavoro, non dovrebbe perciò sorprendere né lasciare spazio a facili giudizi psicologici. È più proficuo interrogarsi sulle sue scelte di vita nel contesto sociale, intellettuale e politico in cui è vissuta e con il quale si è misurata senza risparmio di energie, in uno stato di crescente isolamento.[2]
A cominciare dagli anni successivi agli studi universitari, quando volle coniugare l’insegnamento liceale con la militanza politica a fianco degli operai; scelta nella quale inizia a manifestarsi un’esigenza conoscitiva in contrasto con i procedimenti dalla ricerca corrente in ambito umanistico come in quello scientifico. Per lei conoscere ha voluto dire essenzialmente comprendere ciò che determina la realtà concreta in cui ci si trova a vivere, rendersi ragione del perché le cose in ciascun ordine della vita sociale stanno come stanno e a quali condizioni possono essere modificate per soddisfare i primari bisogni fisici e morali degli individui. Si applicò dunque all’osservazione della concreta vita sociale, che per essere compresa comportò per lei uno studio inedito da condurre nel vivo delle contraddizioni e dei conflitti in atto piuttosto che nel chiuso delle biblioteche.
La sfida del lavoro in fabbrica fu in effetti un’esperienza pensata e voluta come un compito conoscitivo indispensabile per nutrire di realtà il pensiero politico, misurando in concreto se e fino a che punto l’organizzazione imposta dal moderno lavoro industriale era compatibile con condizioni di lavoro e di vita non oppressive, e se dunque l’esito rivoluzionario avrebbe effettivamente potuto modificare la condizione operaia. Di fatto fu l’immersione in una situazione drammatica, che non si lasciava afferrare con gli strumenti comuni della morale e della politica, che anzi ebbe su di lei l’effetto devastante di mettere fuori gioco proprio l’intelligenza,[3] al punto che la sua tenuta psicofisica sul lavoro fu possibile soltanto a prezzo di un mutamento radicale della coscienza di sé.[4]
Ciò che ella guadagnò da questa scelta fu la definitiva uscita dall’universo delle rappresentazioni indotte dal privilegio e insieme una conoscenza sperimentale del mondo del lavoro, che invece restava paradossalmente estraneo a un’intellettualità che pure era ossessionata dai problemi della società e della politica. Personalmente significò per lei un mutamento profondo della coscienza di sé, al punto che se si volesse cercare un passaggio della sua esistenza in cui parlare di conversione potrebbe avere senso, sarebbe proprio quello che conseguì all’esperienza di fabbrica. E politicamente comportò la presa d’atto della distanza estrema tra condizione proletaria e condizione borghese, tra la «la classe di quelli che non contano (…) e che non conteranno mai, qualsiasi cosa accada»,[5] e quella dei pochi che a vario titolo contano qualcosa per il semplice fatto di essere collocati in una posizione che consente loro di esercitare la forza su quelli che contano zero. Agli occhi di Simone Weil la vita in fabbrica si riassunse in questa contrapposizione; è questo il dato di fatto primario, ignorando il quale era inevitabile cadere nell’astrattezza. Cosicché a suo avviso «il problema è quello di sapere se, nelle condizioni attuali, si può arrivare a far sì che nell’ambiente della fabbrica gli operai contino qualcosa ed abbiano coscienza di contare qualcosa».[6] Ma così posta, la questione operaia appare in una luce ben diversa da quella in cui la sinistra rivoluzionaria la leggeva ideologicamente; agli occhi di Simone Weil la classe operaia cessa di essere un mito e la questione che la concerne si trova infine, per usare la metafora marxiana, posta sui suoi piedi.
È attraverso questa esperienza che la sua riflessione fu dunque depurata dai residui procedimenti speculativi a cui era stata educata,[7] e le si impose con la forza dell’evidenza sperimentale la priorità assoluta di indagare ogni via utile a porre rimedio, per quanto parziale, ai devastanti effetti fisici, psichici e morali del meccanismo industriale. Effetti che incidevano profondamente sull’intero corpo sociale, costituito da una massa informe di oppressi in balìa di una società in cui alla borghesia era assegnato il compito dell’oppressore in cambio del sentimento illusorio di contare per qualche cosa. Di qui nasce altresì quella forma inconfondibile del pensiero weiliano da lei stessa definita come «filosofia in atto e pratica»,[8] cioè come esercizio critico della mente applicata all’analisi della civiltà attuale, nel convincimento che «la vita sarà tanto meno inumana quanto più grande sarà la capacità individuale di pensare e di agire».[9]
Questa stessa ferma volontà di comprendere in situazione la spingerà a prendere parte alla guerra civile spagnola. Un’esperienza breve ma illuminante che le rivelerà «il carattere irreale della maggior parte dei conflitti emergenti», enunciati come sono mediante una terminologia che è tanto più vuota di significato quanto più atta, non appena se ne presentino le circostanze, a spingere irresistibilmente popoli e individui a versare fiumi di sangue, ad ammucchiare rovine su rovine, senza poter mai raggiungere realmente qualcosa che corrisponda alle parole per cui credono di battersi. Cosicché «agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, che è impossibile mettere in rapporto tra loro o con le cose concrete».[10] Dunque, un linguaggio politico resosi autonomo dalle cose concrete, al pari e in continuità con quello della scienza e della tecnica: «Sembra che in ogni campo abbiamo perduto le nozioni essenziali dell’intelligenza, le nozioni di limite, di misura, di gradualità, di relazione, di rapporto, di condizione, di legame necessario, di nesso tra mezzi e risultati».[11]
In definitiva il compito che Simone Weil si assunse dopo l’esperienza di fabbrica e della guerra civile fu quello di sottoporre lo statuto stesso della politica a una revisione radicale, investendola con una esigenza di verità destinata a scontrarsi con il rifiuto a prendere in considerazione un pensiero che sembrava generato da una matrice culturale sconosciuta, i cui effetti pratici, se avesse trovato una qualche applicazione, avrebbero sconvolto abiti mentali, convincimenti e pratiche radicati nello spirito stesso dell’Occidente. Società, arte, scienza, religione e politica risultano parimenti investite da una critica che ne svela l’essenziale carattere menzognero e perciò oppressivo. Da una siffatta esigenza sono nati i grandi saggi degli anni tra il ’37 e il ’43, nei quali ella sottopose a revisione critica il percorso storico della civiltà occidentale, alla ricerca delle cause prossime e remote di una situazione tragica da cui non si sarebbe potuto riemergere senza porre le premesse di un nuovo inizio. [12]
Alla stessa esigenza è ispirata la ricerca frammentaria depositata nei Quaderni tra il 1940 e il 1943, straordinario laboratorio di un pensiero deciso a ricostruire per via sperimentale il corpo originario della filosofia nella sua unità e pluralità. Per lei non si trattava infatti di proporre un nuovo sistema filosofico, bensì di apprendere a leggere simultaneamente su piani molteplici, e dunque a pensare l’ordine non come una gerarchia precostituita dal pensiero stesso attraverso un procedimento logico dimostrativo, ma come relazione tra una molteplicità di letture: un «ordine senza forma né nome», secondo un passo fondamentale dei Quaderni.[13] Relazione che di per sé non si può comunicare, si può solo cercare di rendere sensibile attraverso opere che esaltino il rapporto tra una molteplicità di forme, una molteplicità di letture.[14] Di qui l’inconfondibile fisicità di pensieri applicati a descrivere un universo realmente percepito, contro l’arbitrio e violenza di pensieri e atti generati da visioni immaginarie, relativamente innocue finché restano espressione di singoli, devastanti non appena giungono a coagularsi in immaginari collettivi.
Ora, tale concezione non ha avuto per Simone Weil soltanto valore di opzione epistemologica, ma altresì una forte valenza sociale e politica. Poiché le relazioni stabilite tra gli oggetti del pensiero non sono senza rapporto con le relazioni vigenti tra gli esseri umani in un determinato contesto sociale; infatti maggiori sono le differenze socialmente affermate, più forte si fa l’esigenza di imporre un ordine gerarchico che investa ogni espressione della vita umana e del suo rapporto con l’ambiente naturale. Al contrario, la differenza tra gli individui va riconosciuta come minima, benché si tratti di un minimo prezioso perché definisce la singolarità di ciascuno. Perciò lei non fa uso di categorie generali, di modelli di pensiero; non cerca di sistemare i fatti della realtà in schemi o sistemi conoscitivi; non si occupa dell’Uomo né della Persona, ma della pluralità degli individui, e dunque della condizione umana colta attraverso l’esperienza della loro situazione effettiva. D’altra parte pensare in termini di differenza minima, significa sopportare una contraddizione che non deve essere tolta: tutte gli individui, per il semplice fatto di essere tali, sono uguali, e insieme ciascuno è unico. Ma per cogliere la loro essenziale uguaglianza ed essenziale unicità occorre di nuovo andare oltre la forma, cioè oltre il potere di nominare e classificare, occorre rinunciare a tale potere; solo così l’esistenza dell’altro diventa reale al punto da sentirsi in obbligo verso di lui.
Il pensiero religioso elaborato da Simone Weil negli ultimi anni di vita è già tutto implicito in questa concezione antropologica. La metafora della creazione come abdicazione di Dio alla sua onnipotenza, altro non è che l’esempio assoluto di rinuncia a comandare ovunque se ne abbia il potere, e perciò un implicito invito alle creature a rinunciare a loro volta liberamente al proprio potere, o meglio all’immagine immaginaria di esso che ciascuno nutre a suo modo in se stesso.[15] Ne consegue una concezione religiosa in cui la rinuncia da parte della creatura a qualsiasi cosa che non sia il bene assoluto, e perciò la scelta di un «niente» invece di «tutto il bene esistente o possibile, sensibile, immaginario o concepibile, offertoci dalle creature», conduce alla «rivelazione che questo nulla è la pienezza suprema, la fonte e il principio di ogni realtà».[16] Un «niente» che pertanto non è pura e semplice negazione,[17] ma ciò che consegue allo svuotamento del sé che dice «io», per accogliere «l’Altro» che implora muto, avendo per primo rinunciato al possesso del creato, e ridare significato alla relazione con le creature.
Nella concezione religiosa di Simone Weil è dunque in questione una radicale trasformazione dell’anima, di per sé non trasferibile a un intero popolo, e che tuttavia ha indubbiamente effetto comunitario, nella misura in cui la scelta individuale del bene assoluto opera indirettamente nella vita sociale.[18] Ella pensa a un cristianesimo incarnato in coloro che hanno aderito al bene assoluto e che sono perciò in grado di infondere un’ispirazione autenticamente religiosa in tutte le forme di vita, si tratti del lavoro come dello studio, della ricerca scientifica come dell’espressione artistica e dell’azione politica. Ciò che per lei conta non è pertanto che la nostra civiltà sia formalmente cristiana, ma che al centro della vita sociale come al centro dell’anima operi quell’«infinitamente piccolo» che fa la differenza tra un lavoro che consente l’accesso alla bellezza del mondo e uno che lo preclude;[19] tra un’applicazione allo studio che accresce il potere d’attenzione e una finalizzata al puro successo scolastico;[20] tra una ricerca scientifica permeata dallo spirito di verità e una che considera l’oggetto dell’indagine come al di fuori del bene e del male;[21] tra il collocare la fonte d’ispirazione dell’opera d’arte nel bene assoluto, volgendo il desiderio solo ad esso, e il cercarla nei beni di questo mondo;[22] tra un impegno nella vita pubblica mosso dall’obbligo di rimediare per quanto possibile «a tutte le privazioni dell’anima e del corpo che sono suscettibili di distruggere o mutilare la vita terrestre di un essere umano, quale egli sia»,[23] e uno dominato dallo spirito di partito, che è totalitario per sua natura e ispirazione. [24]
Sta di fatto che l’«infinitamente piccolo» è semplicemente ignorato dalla concezione di gran lunga dominante nella società analizzata da Simone Weil; non solo perché la nostra civiltà è dominata da una falsa idea di grandezza, dalla degradazione del senso di giustizia e dall’idolatria del denaro, ma perché in definitiva in essa è assente l’ispirazione religiosa,[25] e questo a causa dello stato di degradazione in cui la vita religiosa stessa si trova, essendo da molto tempo pressoché priva dello spirito di verità, al pari della scienza e di tutto il pensiero.[26] Rimediare a un danno così grave, e che tanto ha segnato la storia e la cultura occidentale, comporterebbe necessariamente un mutamento radicale che abbia inizio col pieno recupero dell’autentica ispirazione cristiana, conservata, secondo Simone Weil, soltanto dalla mistica.[27]
È ispirandosi a una siffatta concezione spirituale, che negli ultimi mesi di vita trascorsi a Londra Simone Weil ha delineato un rinnovato modello di società, profittando a suo modo del ruolo di redattrice che le era stato assegnato dal governo francese in esilio. Tra i numerosi testi stesi febbrilmente spicca il grande saggio rimasto incompiuto che porta il significativo titolo: Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, pubblicato postumo col titolo L’enracinement, in italiano La prima radice. Concepito come un manifesto in vista della ricostruzione intellettuale, morale e politica dell’Europa, esso muove dalla critica alla cultura dei diritti, che lei giudicava inficiata dall’errore, compiuto dagli uomini del 1789, di aver voluto «cominciare» con una nozione di ordine oggettivo, cosicché i diritti appaiono sempre legati a determinate condizioni e la loro rivendicazione ha senso soltanto se associata a una quantità di forza sufficiente a far sì che ottengano riconoscimento.[28]
Al contrario, Simone Weil pensava che occorresse cominciare con la nozione di obbligo, poiché è soltanto riconoscendosi in obbligo verso ogni essere umano per il semplice fatto che è un essere umano, dunque incondizionatamente, che il diritto è liberato dal vincolo che altrimenti lo lega alla forza; infatti primario è in questo caso non l’aspettativa che altri riconoscano un mio diritto, bensì l’obbligo ad esso corrispondente. Come Simone Weil scrive nelle prime righe del saggio, «l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa».[29] Un obbligo che perciò, diversamente dal diritto, sussiste di per sé a prescindere che venga o meno riconosciuto. Si tratta infatti di una nozione che non si fonda su se stessa, ma sul riconoscimento, universalmente verificabile, che l’esistenza di ciascuno, ne sia o no consapevole, è divisa tra la necessità imposta dalle condizioni di fatto e l’esigenza di un bene assoluto legata alla parte più segreta dell’anima umana, e che tuttavia «non trova mai alcun oggetto in questo mondo».[30] Ora, è precisamente questa contraddizione ineludibile a testimoniare dell’esistenza di una realtà altra, trascendente.
Per Simone Weil si tratta in definitiva di recuperare uno sguardo «religioso» sulla condizione umana, senza che questo comporti necessariamente l’adesione a una qualche forma di credenza. Infatti qui il convincimento del destino eterno dell’essere umano si risolve esclusivamente nel riconoscimento che «tutti gli esseri umani sono assolutamente identici nella misura in cui possono essere concepiti come costituiti da un’esigenza centrale di bene intorno alla quale è disposta la materia fisica e carnale»;[31] e che perciò si deve loro rispetto a prescindere dalle situazioni di fatto: nazionalità, razza, genere, collocazione sociale, condizione economica, valore morale, ecc. In effetti è sufficiente al riguardo il convincimento circa l’esistenza di una realtà altra rispetto a quella di questo mondo, la quale è «l’unico fondamento del bene»,[32] e costituisce altresì «l’unico movente possibile per il rispetto universale di tutti gli uomini»; cosicché, «quale che sia la formula di credenza o d’incredulità che un uomo abbia voluto scegliere, colui il cui cuore tende a praticare questo rispetto riconosce di fatto una realtà altra da quella di questo mondo».[33]
In altri termini, ad una concezione tutta immanente della vita umana, i cui rapporti sociali devono perciò trovare nel diritto la propria regolamentazione e che di conseguenza affida il riconoscimento dei diritti al mutare delle condizioni di fatto e perciò dei rapporti di forza, Simone Weil oppone una concezione che pone al centro non la collettività ma l’individuo nella sua specifica realtà psicofisica, la stessa testimoniata nelle espressioni più alte di tutte le civiltà. Come scrive ne La prima radice, «la coscienza umana su questo punto non ha mutato mai. Migliaia di anni fa, gli egiziani pensavano che un’anima non possa giustificarsi dopo la morte se non può dire: “Non ho fatto patire la fame a nessuno”. Tutti i cristiani sanno di dover udire, un giorno, il Cristo dir loro: “Ho avuto fame e tu non mi hai dato da mangiare”. Tutti si rappresentano il progresso come il passaggio ad uno stato della società umana nella quale, prima di tutto, la gente non soffrirà la fame. Nessuno, la cui domanda venga posta in termini generali, penserà che sia innocente chi, avendo cibo in abbondanza e trovando sulla soglia della propria casa un essere mezzo morto di fame, se ne vada senza dargli aiuto».[34]
Così, è l’obbligo più evidente tra tutti, quello di sfamare chi ha fame, a servire come esempio per compilare l’elenco di quelli che Simone Weil definisce «i doveri eterni verso ogni essere umano», rigorosamente corrispondenti a quei bisogni umani che sono, come il cibo, vitali, siano essi in rapporto alla vita fisica o alla vita morale. Certo, quelli che Simone Weil chiama «i bisogni dell’anima» sono più difficili da riconoscere e definire, perché occorre una forte capacità di discernimento per distinguere l’esenziale e l’accidentale, i bisogni reali, come quelli di libertà, di uguaglianza, di giustizia, di verità, di ordine, di sicurezza, di obbedienza, senza il cui soddisfacimento si cade in uno stato analogo alla morte, e quelli indotti sia da desideri e fantasie personali sia da meccanismi socio-economici. Ma senza una siffatta operazione non c’è criterio che orienti con chiarezza la vita sociale, che ne definisca le priorità, che guidi l’esercizio dei poteri pubblici, al punto da costituirne il criterio della loro stessa legittimità.[35]
Quando nel 1949 L’enracinement fu pubblicato, Emmanuel Mounier non ebbe difficoltà a scorgervi l’espressione di un tutt’altro modo di concepire la politica, un modo, scriveva, «che non si occupa innanzitutto dei rapporti di forza, delle congiunture, dei movimenti della storia, di tutto quell’apparato tanto utile per togliere di mezzo le illusioni dello spirito, ma che finisce per mezzo di una sorta di ipnosi ad eliminare l’uomo dall’azione, e la responsabilità dell’uomo. Ci si chieda piuttosto innanzitutto quali sono i nostri obblighi, e come rispettarli. Ci si interroghi innanzitutto sull’eterno, per regolare su di esso il temporale».[36] Ma bisogna aggiungere che l’interrogazione di Simone Weil sull’eterno non si ispira a una teologia politica, non è intesa a costruire un sapere razionale religiosamente informato. Essa è formulata per intero sul riconoscimento della condizione umana divisa tra la necessità e il bene, conflitto irrisolvibile dal momento che il desiderio di bene «non trova mai alcun oggetto in questo mondo».[37] È perciò la comprensione mistica a sostenere il suo pensiero politico.
Ciò da cui Simone Weil muove è in effetti un altro modo di conoscenza, che apre al trascendente l’universo delle relazioni umane illuminandole dall’interno. Una conoscenza che opera nell’intimo del corpo sociale, affinché accanto a una giustizia che opera in punta di diritto per rispondere nel miglior modo possibile al grido: «Perché lui ha più di me?», trovi riconoscimento l’essenza stessa della giustizia, che consiste nel vegliare affinché non risuoni a vuoto l’altro grido: «Perché mi viene fatto del male?» Un grido, osserva Simone Weil, che «pone tutt’altri problemi, per i quali è indispensabile lo spirito di verità, di giustizia e d’amore».[38] Un compito questo che può essere assolto soltanto dagli uomini, perché Dio «ha il potere di preservare dal male soltanto la parte di un’anima entrata con lui in contatto reale e diretto», mentre tutto il resto «è abbandonato al volere degli uomini e in balìa delle circostanze».[39] È a partire dal riconoscimento dell’assenza di Dio nelle cose di questo mondo, che Simone Weil ha pensato daccapo la vita sociale e il ruolo della religione in essa, nella stessa contingenza storica in cui Dietrich Bonhoeffer ripensava a fondo il cristianesimo in un mondo che ha imparato a prescindere da Dio. La differenza rilevante è che per lei è Dio ad essersi ritratto dal mondo con l’atto stesso della creazione, cosa che impone a sua volta un nuovo inizio al pensiero teologico; ma prossimo è l’esito per quanto concerne la responsabilità di ciascuno nella vita sociale.
Come Simone Weil scrive in quel testo capitale che è La persona e il sacro: «Preservare la giustizia, proteggere gli uomini da ogni male, significa prima di tutto impedire che gli venga fatto del male. Significa per coloro a cui è stato fatto del male, cancellarne le conseguenze materiali, mettere le vittime in una situazione in cui la ferita, se non è penetrata troppo profondamente, venga guarita naturalmente col benessere. Ma per coloro cui la ferita ha lacerato tutta l’anima, significa per di più e oltretutto calmare la sete dando loro da bere del bene perfettamente puro».[40] Parole di straordinaria densità, la cui verità è sentita prima ancora di essere colta dal pensiero, sentita come obbligo verso la carne esposta ai colpi della costrizione sociale e d’altra parte come esigenza di ricreazione del linguaggio politico. È quanto Angela Putino ha ben compreso allorché coglie nel pensiero della Weil un duplice confronto con la corporeità, in quanto carne e in quanto portatrice di quell’infinitamente piccolo che ne costituisce l’unicità irriducibile. Di qui la sua constatazione che «solo un rinnovato piano di parola produrrà un effetto di discontinuità, solo in una pratica di pensiero, rigenerata da un infinito, si effettuerà realmente un inciampo per i saperi, per gli ordini discorsivi, per le ideologie».[41]
NOTE: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 27.4.2012 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Per esaminare le note leggere il testo in formato PDF.