Giornale di Brescia, 9 dicembre 2021
In esilio dopo il processo subìto con Daniel’ nel 1966, lo scrittore nel 1977 e 1986 fu invitato in città dalla Ccdc
L’incontro con Andrej Sinjavskij il 12 aprile del 1977 è stato uno degli eventi più significativi della fine degli anni Settanta per la città di Brescia. Da pochi mesi aveva iniziato la sua attività la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura che, sotto la guida del prof. Matteo Perrini, aveva individuato nel rispetto dei diritti dell’uomo ad ogni latitudine una delle sue linee d’azione prioritarie, andando a scontrarsi con una sorta di conformismo imperante all’epoca, per il quale non si poteva esaminare criticamente quanto avveniva nei Paesi dell’Est europei senza essere accusati di arretratezza culturale.
Il cambio di paradigma culturale avvenne quando la Cooperativa diede la parola ai dissidenti, a coloro che il regime sovietico aveva perseguitato e imprigionato. Il dissenso, come precisò Sinjavskij nella memorabile conferenza che tenne al teatro Franciscanum affollato fino all’inverosimile, non consisteva “in una forma di opposizione politica, di lotta contro il regime, ma nella denuncia veridica della realtà e nella resistenza morale e spirituale ad essa. L’accento è posto anzitutto sulla coscienza e sul pensiero che cerca e indaga la realtà. Ecco perché agli attuali detenuti politici dell’URSS s’attaglia così bene la definizione di prigionieri di coscienza”. Sebbene il grande scrittore russo venisse fatto oggetto alla fine dell’incontro da domande preparate in anticipo con l’obiettivo di screditare la sua persona, la sua spiritualità, l’alto livello del suo intervento e le risposte pacate alle provocazioni impressionarono e commossero grandemente i presenti.
Da allora nessuno ebbe più il coraggio di criticare i dissidenti nei numerosi incontri che la Cooperativa promosse negli anni successivi: anzi la città e i paesi della provincia, dove spesso andarono a parlare, li accolsero sempre con profonda amicizia ed ammirazione, appunto come testimoni del valore della libertà e della coscienza. Lo stesso Sinjavskij ritornò una seconda volta a Brescia, nel Salone Vantitelliano, il 16 ottobre 1986 in un clima completamente diverso, accolto da un grande pubblico.
Ma chi è Andrej Siniavskij, imputato – insieme all’amico Julij Daniel’ – in un processo che diventò uno scandalo mondiale, il primo dopo la caduta di Chruṧčëv e delle illusioni riformiste? Nato nel 1925, conclusi brillantemente gli studi, ottenne un posto come collaboratore scientifico all’Istituto di letteratura mondiale. La sua carriera si prospettava assai promettente. Ma ecco che con il critico letterario Siniavskij, brillante e documentato, convive nascostamente e comincia a scrivere in proprio il suo alter ego, che ha pensieri di feroce ironia, di una fantasia sbrigliata e provocatoria. Prenderà presto il nome di un ladro ebreo del folklore di Odessa, Abram Terz. A partire dal 1959, con quello pseudonimo appaiono in Occidente, grazie all’amicizia con la figlia di un diplomatico francese, i suoi racconti e romanzi brevi.
Nel processo, che si svolse a Mosca nel febbraio 1966 in cui venne condannato a sette anni di internamento nel gulag a regime duro per “tradimento”, Siniavskij rivendica “il significato dell’immagine artistica è tanto più esatta quanto più e ampia. Motivo per cui la letteratura non può essere valutata con formule giuridiche”.
Il potere sovietico concesse l’esilio a Siniavskij dopo cinque anni di gulag, anche per spezzare il filo dell’amicizia con Daniel’: lo scrittore si trasferì a Parigi dove fondò la rivista “Syntaksis” e continuò a svolgere il suo ruolo intellettuale, scrivendo nel 1984 quello che è il suo capolavoro “Buona Notte. Come disse nell’intenso incontro con i giovani bresciani “per i libri sono andato in prigione, per i libri ho superato la prova del gulag e con i libri conduco la mia battaglia”.
Nel 1989, dopo aver aspettato inutilmente il visto per un anno e mezzo, finalmente Siniavskij può compiere il “pellegrinaggio dell’anima” alla tomba dell’amico Julij Daniel’ con cui aveva condiviso l’amore per la scrittura in un mondo ostile e la dignità di non considerarsi colpevole di fronte a un potere minaccioso e senza limiti.