«Conosci te stesso» era scritto sul frontone del tempio di Delfi. Socrate ne fece il suo motto, dandogli un’estensione e una profondità insospettate. Mettersi in chiaro con se stessi, con un atto di coraggio e di sincerità da rinnovare di continuo, significa infatti pervenire all’età della ragione, cioè superare l’egocentrismo, il narcisismo, così come l’istinto del gregge e la falsa certezza dei luoghi comuni. Conoscere se stessi significa tener viva in sé una visione di vita matura, la quale comporta una serie di verità, di obiettività, e quindi un movimento verso l’interiorità obiettivante, una nobile tensione, un rigore etico e razionale per scoprire la verità che è in noi e che sola può guidare la nostra vita.
Conoscere se stesso per Socrate non significa conoscere in sé solo l’individuo, con le sue caratteristiche contingenti e i suoi variabili umori, ma conoscere e riconoscere in sé l’uomo, l’umanità comune in ciò che essa esige, in ciò che può, in ciò che deve. La conoscenza dell’umanità in noi consiste nella consapevolezza delle possibilità e dei limiti a tutti comuni, nonché dei doveri a cui la natura umana ci chiama e, dunque, dei fini che dobbiamo raggiungere.
Con approssimativa schematizzazione nel dialogare socratico si possono distinguere tre momenti essenziali: la professione di ignoranza, l’ironia, la maieutica. Socrate come è ben detto nello scritto più socratico che ci sia, l’”Apologia” muove alla ricerca di «quella sapienza che è consentita all’uomo», e in «questo servizio prestato Dio», in questa sua «continua occupazione» egli ha dato tutto se stesso.
Ma come cercare quella sapienza, come stabilirla su un sicuro fondamento? Nessuna verità esiste come se fosse un dato materialmente trasmissibile ad altri, un pacco già confezionato da consegnare o da ricevere: la verità si apre un varco, vive realmente nell’anima di chi si impegna a cercarla, di colui che la riscopre e la fa sua, la interiorizza fino a farne la misura della propria esistenza. È, dunque, inutile comunicare agli altri ciò che è il punto di arrivo della nostra riflessione; occorre invece cercare insieme, trasformare la sterile disputa sofistica in una forma di collaborazione tra spiriti bisognosi di verità anche quando non se ne rendono pienamente conto e quali che siano i rispettivi punti di partenza. Di qui il paradossale procedere di Socrate: egli disdegna la conferenza, il discorso celebrativo, il discorso in proprio, la lezione, e cerca con le sue domande, con i suoi dubbi, con i suoi interrogativi di far affiorare nella coscienza dei suoi interlocutori un problema universale per passare poi a impostarlo esattamente, nel modo più rigoroso.
Socrate pervenne a un rifiuto sistematico per quanto riguardava la mitologia (nell’”Eutifrone”) e la scienza del suo tempo (celebri le pagine nel “Fedone” in cui traccia la sua autobiografia intellettuale), ma egli praticò il dubbio metodico nelle questioni che riguardavano il senso della vita e le scelte morali. Il dubbio e l’interrogazione si accompagnano da parte di Socrate alla professione di ignoranza consapevole, o docta ignorantia, perché solo chi sa di non sapere si porta dentro il pungolo alla ricerca e può muovere incontro a risposte non generiche, non evasive, sì da poter attuare, prima o poi, il passaggio dall’esempio addotto al criterio, al principio di più atti che manifestino uno stesso valore.
Dinanzi alle affermazioni ottusamente dogmatiche di chi ha la pretesa di sapere e nulla veramente sa, Socrate dispiega tutta la potenza della sua dialettica. La sua ironia è uno scherzo terribilmente serio, che irrita quasi intenzionalmente l’interlocutore per scuoterlo, per farlo uscire dalla prigione dei suoi pregiudizi e renderlo, così, aperto a quella verità che ancora gli sfugge. L’interlocutore, costretto da Socrate a trarre dalle sue asserzioni le conclusioni che logicamente ne discendono, ma che sono insostenibili e contraddittorie, all’inizio insiste nelle sue tesi, ma a poco a poco anch’egli avverte di non poter più poggiare i piedi su un terreno che frana. Allora, e solo allora, si fa strada finalmente nel suo animo una salutare diffidenza per le facili apparenze, per i luoghi comuni, per le formule prefabbricate. Il sofista si sottrae alla ricerca con un espediente o fingendo indignazione; ma se si tratta di giovani desiderosi di conoscere il vero, il loro turbamento, paragonabile alla scossa inflitta dalla torpedine marina, è quanto mai salutare. Ed è soprattutto per loro e con loro che Socrate continua nella sua mirabile missione. L’ironia, propria di chi fa avanzare a grado a grado la consapevolezza del valore del vero per un mondo che voglia essere umano, diventa allora maieutica, estrazione dalle profondità dell’anima della verità presentita, con un tormento paragonato ai dolori del parto: la verità, infatti, non è mai una cosa tra le cose, ma un processo di generazione spirituale. Figlio della levatrice Fenarete, Socrate diceva spesso di aver ereditato dalla madre l’arte della maieutica. L’educazione autentica è e rimarrà sempre, finché la parola «uomo» avrà un senso, una maieutica della persona, un punto di incontro tra sollecitazioni e scoperte, un approfondimento dell’interiorità conseguito con e tra gli uomini, una conquista personale di ciò che vale per tutti.
Con Socrate ha inizio una nuova, profonda visione del rapporto e del processo educativo. L’accresciuta importanza data da Socrate alle risorse dell’individuo gli ha fatto intuire la possibilità e la validità di un metodo consistente nello stimolare gli spiriti a trar fuori da sé le proprie energie, con quel procedimento dialogico che venne chiamato, appunto, «socratico». Nella sua arte maieutica troviamo per la prima volta chiaramente annunciato il principio che l’educazione, per quanto implichi sempre una relazione sociale, un rapporto interpersonale tra educatore ed educando, si realizza eminentemente nell’interiorità dell’educando, come auto-educazione, e che l’azione esterna dell’educatore ha valore soltanto se riesce a destare ed a irrobustire la vita interiore e la personalità dei discepoli. Inoltre il socratismo portava implicitamente all’affermazione che tutti gli uomini hanno, almeno potenzialmente, un eguale valore ed un’eguale educabilità, sebbene di fatto il suo eros di educatore si volga soprattutto a quei giovani ben disposti ad accogliere la più elevata formazione intellettuale e morale, l’areté. Per renderli migliori non c’è che aiutarli a scoprire ciò che essi sono, accostarsi a loro con amore, chiamarli a collaborare nella soluzione dei problemi, vagliare insieme le diverse opinioni con l’ironia critica che fa svanire la falsa scienza, esercitare l’induzione che apre le porte alla scienza vera, dimostrare la razionalità fondata della prospettiva migliore. In tal modo, l’educazione non è più un privilegio di casta, ma si applica a tutti gli uomini, poiché ogni uomo è il soggetto di un destino spirituale, potendo acquistare una sua propria capacità di giudizio ed una sua personale responsabilità.
Socrate fu l’ispiratore di tutte le grandi filosofie della Grecia, senza aver portato una dottrina, senza aver nulla scritto. Egli pone al di sopra di tutto l’attività ragionativa, e più specialmente la funzione logica dello spirito. L’ironia che porta con sé è destinata a scartare le opinioni che non hanno subito la prova della riflessione ed a far loro vergogna, per così dire, mettendole in contraddizione con se stesse. Il dialogo, come egli lo intende, ha fatto nascere la dialettica platonica e quindi il metodo filosofico, essenzialmente razionale, che pratichiamo ancora. Socrate va più in là ancora: pone la più rigorosa connessione tra pensiero e azione, tra verità e moralità sino a fare della virtù stessa una scienza. Mai la ragione è stata posta più in alto: ecco per lo meno ciò che colpisce al primo sguardo. Ma se esaminiamo più da vicino la figura di Socrate, non possiamo mettere tra parentesi la natura religiosa della sua personalità: egli insegna perché l’oracolo di Delfi ha parlato. Ha ricevuto una missione. E povero e deve restare povero. Bisogna che si mischi al popolo, che egli stesso si faccia popolo, che il suo linguaggio sia comprensibile da tutti. Come Gesù, Socrate non scrive nulla, perché il suo pensiero si comunica vivo a degli spiriti che lo porteranno ad altri spiriti. È insensibile al freddo ed alla fame; per nulla asceta, ma liberato dal bisogno e liberato dal suo corpo. Un «demone» l’accompagna, il quale fa sentire la sua voce quando è necessario un avvertimento. Egli crede tanto a questo segno demonico che muore piuttosto che non seguirlo: rifiuta di difendersi davanti al tribunale popolare e va incontro alla sua condanna, perché il demone non ha detto nulla per dissuaderlo.
In breve, la sua missione è di ordine religioso e mistico, nel senso in cui prendiamo oggi queste parole. Bergson lo ha detto molto bene: l’insegnamento di Socrate, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione. Si è detto che egli avrebbe riportato la filosofia dal cielo sulla terra, ma si comprenderebbe la sua vita, specialmente la sua morte, se la concezione dell’anima che Platone gli presta non fosse stata la sua? La questione è di sapere quello che questo genio avrebbe fatto in un’altra società ed in altre circostanze, se non fosse stato colpito al di sopra di tutto da ciò che vi era di dannoso nell’empirismo morale del suo tempo, nel relativismo dei sofisti e nelle incongruenze della democrazia ateniese. Socrate con il messaggio della sua vita e della sua morte ha aperto il passaggio ad uno spirito nuovo, al risveglio della coscienza. E ciò è stato decisivo per l’avvenire dell’umanità.
Giornale di Brescia, 26.1.2001. Articolo scritto in occasione della conferenza di Giovanni Reale su “La personalità e il metodo di Socrate”.