Due gruppi di persone molto intelligenti lavorano, uno di qui, l’altro di li, a 15.000 Km di distanza. Ciascuno dei due gruppi pensa che l’altro sia più avanti. Gli scienziati vogliono preservare dalla distruzione la loro patria e intanto sono ingaggiati in un duello che è mortale per l’intero pianeta. Da questa semplice, drammatica constatazione nasce l’iniziativa più rivoluzionaria di questi ultimi anni, quella lanciata dal Manifesto di Erice che, stilato da Kapitza, Paul Dirak e Antonino Zichichi, ha raccolto l’adesione di oltre diecimila scienziati dell’Ovest e dell’Est, che sottoscrivendolo si sono pubblicamente impegnati ad abolire il segreto nei rispettivi campi di ricerca, facendo proprio l’appello che Niels Bohr, uno dei grandi maestri della fisica contemporanea, lanciò nel 1950 in una famosa lettera aperta all’Onu e che Giovanni Paolo II ripropone oggi insistentemente negli stessi termini. Ed è certo un segno della realizzabilità effettiva di quella proposta il fatto che il Centro europeo ricerche nucleari, che ha sede in Ginevra, per statuto non può avere segreti e deve rendere noti all’intera comunità scientifica i risultati a cui perviene e le stesse prospettive verso cui si muove la ricerca. Zichichi, che opera al Cern e che è l’animatore appassionato del movimento “Scienza per la pace”, mette in luce nel suo intervento i problemi connessi alla pacifica rivolta morale del mondo scientifico nei confronti della violenza politica, di cui il segreto nel capo della scienza è il naturale alleato, e reca altresì una personale, diretta testimonianza del tormento angoscioso che suscita nella coscienza di eminenti scienziati l’associazione diretta o indiretta del loro lavoro alla fabbricazione di ordigni di distruzione sempre più terribili e sempre più costosi.
In quell’angolo dell’universo che chiamiamo Terra, oggi, alle soglie del Duemila, nell’arco di soli sessanta secondi, mentre trenta bambini muoiono per fame si sprecano due miliardi di lire per spese militari. La connessione tra il sottosviluppo e le superbombe salta agli occhi di tutti con un’evidenza bruciante, da cui non è più lecito distogliere il nostro pensiero. Ognuno degli abitanti di questo nostro pianeta ha in dotazione una potenza distruttiva di circa quattromila chili di tritolo, ma i dati del sottosviluppo sono li ad attestarci la realtà di un altro quotidiano, pauroso olocausto: un miliardo e mezzo di persone affette da una cattiva nutrizione, 460 milioni di persone soffrono di gravi forme di denutrizione che spesso ne causano la morte; 15 milioni di bambini muoiono ogni anno prima di aver raggiunto il quinto anno di età; più dell’80% della popolazione mondiale non gode di alcuna assistenza sanitaria; 1 miliardo e 250 milioni di persone sono sprovviste di acqua potabile; in Africa il 73% della popolazione è analfabeta, in Asia il 58%, in America Latina il 30%. Se consideriamo infatti i cinque bisogni economici fondamentali, così come vengono classificati dalle Nazioni Unite, (cioè alimentazione, salute, istruzione, acqua e abitazione), sotto ciascuno di questi profili i Paesi in via di sviluppo sono totalmente deficitari. C’è da chiedersi come sia possibile in alcuni Paesi vivere, seppure per 35-40 anni, con livelli di alimentazione pari al 45% dell’alimentazione appena sufficiente per la sopravvivenza; eppure come si possa vivere in questi Paesi quando per accedere alle acque sia necessario utilizzare almeno mezza giornata.
Sul problema dello sviluppo dei Paesi non industrializzati il “Quaderno di Humanitas” accoglie gli apporti di un illustre economista, il prof. Alberto Quadrio Curzio, docente di economia politica all’Università Cattolica di Milano, e di un operatore di vastissima esperienza, mons. Giovanni Nervo, per tanti anni responsabile della “Caritas italiana”, di continuo alle prese con le richieste della povera gente a contatto con un esercito di persone che vivono da volontari a servizio dei più bisognosi. Il taglio dei due interventi è diverso rigorosamente scientifico il primo, la cui tematica è ripresa con ampia documentazione in un saggio pubblicato in appendice, ricco di concretezza di proposte operative il secondo; ma l’uno è l’altro nascono da una stessa preoccupazione per l’uomo, analizzando lucidamente la realtà effettuale, denunciando senza mezzi termini ingiustizie e lo sfruttamento di cui si è reso responsabile il neocolonialismo negli ultimi decenni, individuando le ragioni per cui bisogna cambiar rotta negli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. Il cammino da percorrere è lungo e diversi sono i livelli e i modi di intervento. Bisogna, ad esempio, che l’Italia giochi, attraverso la politica del governo nazionale e quella degli organismi europei, un suo ruolo come garante di giustizia nei confronti dei Paesi più poveri per correggere i meccanismi perversi di formazione dei prezzi internazionali (per cui il potenziale economico di quei popoli è, dopo il 1980, peggiore di quello che si aveva nel 1946-47) e perché sia reimpostata in termini nuovi la spinosa questione dei prestiti internazionali, dei debiti che sono stati contratti con tassi di interesse tali, che nel giro di qualche lustro, hanno strozzato ogni possibilità di reale progresso, gettando nella disperazione popoli e governi schiacciati da questo assillo. “Il vero problema non è la nostra fame di cibo, ma la vostra fame di soldi”; queste parole di un giovane africano suggeriscono un criterio interpretativo purtroppo vero per tanta parte della politica economica dell’Occidente verso il Terzo Mondo. Ma anche coloro che non meritano quel giudizio di condanna devono operare più di un cambiamento nella loro mentalità e nella metodologia che ne consegue. Forze politiche e religiose, volontari che operano nel Terzo Mondo, tutti dobbiamo imparare prima di tutto a metterci in ascolto, a dare una priorità sistematica alla formazione umana investendo la maggior parte delle risorse disponibili in capitale umano, a rispettare i ritmi propri di un cambiamento sociale non selvaggio e distruttore, a non proporre ad altri popoli gli aspetti deteriori del nostro sistema di vita.
Dalla domanda su che cosa può fare la scienza per una “cultura della pace” il discorso è passato naturalmente al costo assurdo di una politica mondiale che imbottisce il pianeta di superbombe, rischiando ad ogni istante il terricidio, e condanna larga parte dell’umanità al sottosviluppo e alla morte. C’è tuttavia un altro capitolo della “cultura della pace” da non tacere: quello del rispetto della giustizia internazionale, delle norme etico-giuridiche di convivenza e “dei patti pubblicamente sottoscritti nel riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo. Un mondo di principi e valori di immensa capacità umanizzatrice, negato tragicamente ieri dai crimini nazisti, oggi dal terrorismo, sempre dalle ideologie totalitarie e dagli Stati in cui esse sono al potere. Un uomo che trascorso quattro anni e mezzo in dodici campi di concentramento, ha dedicato la sua esistenza, dal 1945 ad oggi, a questa difficile battaglia per il diritto, sfidando ostacoli e pericoli di ogni genere, instancabile nella sua sete di giustizia e nell’attività multiforme che essa comporta. È Simon Wiesenthal. Ed egli ci ha fatto dono, veramente prezioso per chi poté ascoltarlo e per chi vorrà leggere la fedele trascrizione del suo intervento, delle esperienze di vita attraverso le qualifiche maturato le sue convinzioni.
Il “Quaderno di Humanitas” raccoglie i testi delle conferenze tenute a Brescia nell’autunno del 1985, per iniziativa congiunta dell’assessorato ai Servizi sociali del comune di Brescia e della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, e continua il discorso iniziato con il volumetto precedente Primo: i diritti dell’uomo, anch’esso edito nelle stessa collana. Le questioni affrontate sono quelle di più decisiva importanza per l’avvenire dell’umanità. Su di esse tutti i credenti e non credenti, dobbiamo incontrarci, unire gli sforzi, pervenire a decisioni comuni. Prima che sia troppo tardi.
Giornale di Brescia 22.10.1986. Articolo scritto in occasione della pubblicazione del libro “Per una cultura della pace”.