Nel pieno della sua vena narrativa a novant’anni, Manlio Cancogni, ha deciso di chiudere la sua attività artistica: Sposi a Manhattan (Diabasis 2005), è il suo libro “ultimo”, ha dichiarato infatti di aver deciso di non scrivere più.
Classe 1916, insegnate di storia e filosofia in gioventù, Cancogni è stato una firma storica del giornalismo italiano; ha collaborato infatti con le principali testate: dall’ “Europeo” e l’ “Espresso”, al “Giornale” di Montanelli, con inchieste che hanno fatto la storia del giornalismo italiano. Il suo primo romanzo, Delitto sullo scoglio, è del ’43 (Rizzoli). Tra i numerosi e fortunati romanzi della sua lunga carriera, dopo Azorin e Mirò (1948), il suo capolavoro giovanile, ha pubblicato tra gli altri: La linea del Tomori (1966) premio Bagutta, Il ritorno (1971) premio Campiello, Allegri gioventù (1973) premio Strega, Quella strana felicità (1985) premio Viareggio. Con Fazi, l’editore che ha ripubblicato molte delle sue opere ormai introvabili, ha pubblicato Lettere a Manhattan e Il Mister (2000) premio Grinzane. Con l’editore Diabasis – oltre a Sposi a Manhattan – ha pubblicato anche L’impero degli odori (2001) e Gli scervellati (2003). Ha ricevuto non solo molti premi letterari, ma ha anche ricevuto continue e meritate conferme dalla critica più attenta.
In Sposi a Manhattan, Cancogni ci accompagna in un viaggio nella sua vita e all’interno de I Promessi Sposi, il romanzo di tutta una vita, che ha letto e riletto innumerevoli volte, indagandolo con incomparabile profondità. Una passione, la sua, che risale all’infanzia, quando a leggerlo in famiglia era il padre e lui – allora – si identificava con Renzo “specie quando fugge da Milano, scampato per miracolo alla cattura” e cammina di notte nel bosco all’avventurosa ricerca dell’Adda: la capanna il bosco, il buio, una situazione molto avvincente per un ragazzo.
E via via, nelle ripetute letture, prima a scuola e poi in momenti diversi della sua vita, ha continuato a leggerlo ed a interpretarlo, recitandolo anche in pubblico più volte, in Italia e in America, fino a riconoscersi – con diversa intensità e partecipazione – nei sentimenti e nelle situazioni più cruciali di vari personaggi. Ma questo libro ultimo potrebbe anche essere considerato il testamento di uno scrittore che ha sentito la vanità di tutto ciò che passa: “la vanitas…il senso di inutilità di tutto il nostro arrabattarsi”. Vana dunque anche la scrittura, se non è praticata per un fine alto.
In questo romanzo complesso e multiforme, in brani di grande intensità spirituale, Cancogni riflette sul problema del male negli individui e nei popoli, sul dolore e sulla sventura, sulla grazia e sulla fede e, insieme, sul valore e lo scopo dell’arte per la nostra vita, perché, come si chiede in un passo: “Se la bellezza non è veicolo del vero e del bene a cosa serve? Solo, come dice Manzoni, a divertire chi si diverte già abbastanza.”.
Manzoni, dopo la sua conversione, si era proposto di servire con i suoi scritti la causa della libertà cristiana, dopo la repressione religiosa operata dalla Rivoluzione. Anche Cancogni, dopo la sua conversione, si è ripromesso di operare una svolta alla sua opera e di rendere testimonianza.ùà Come si può vedere nei suoi ultimi libri: il Mister, ad esempio, che è intriso del messaggio evangelico, o Lettere a Manhattan, del ‘94, dove si profilava già la storia di una conversione narrata in terza persona, in forma di lettere.
Sposi a Manhattan è un viaggio nel capolavoro manzoniano, che a tratti si è incarnato nella vita dei due nuovi sposi – l’autore e la moglie a cui il romanzo è dedicato – ma è anche un viaggio d’introspezione dell’autore-protagonista nell’analisi dei suoi sentimenti e inclinazioni. Il conosci te stesso – che è imperativo in ogni vita spirituale ( “Conosci te stesso ed incontrerai il tuo io più vero, gli altri e Dio”) – viene praticato da Cancogni attraverso uno scavo praticato mediante una lettura autobiografica dei Promessi Sposi.
Sposi a Manhattan è un romanzo autobiografico in cui i protagonisti compaiono con i loro nomi,
Ma nell’architettura del romanzo la vera protagonista è la Grazia che agisce ed è testimoniata nella realtà quotidiana di persone noi contemporanee, così come viene testimoniata dai personaggi manzoniani. La letteratura appare così come una fiaccola che passa di mano in mano, da autore a autore, a portare il messaggio evangelico nell’oggi.
“Una notte, verso il principio del novembre ’42, proprio al colmo della guerra…” Il racconto ha a inizio nel ’42, con un viaggio, e culmina nella fede ritrovata dallo scrittore protagonista della storia con Rori, amatissima moglie da moltissimi anni. Manilo e Rori Cancogni sono Gli sposi promessi del titolo del primo capitolo. Sono fidanzati da un anno e stanno per separarsi nel pieno della guerra: lui sta partendo sul Orient Exspress per la traversata balcanica per raggiungere il suo posto di insegnante di italiano in un liceo di Atene. Rori, la ‘sua’ Lucia, ha appena diciotto anni.
Tra i libri che ha portato con sé su quel mitico treno, c’è una copia dei Promessi Sposi che lo accompagna attraverso frontiere e nazioni devastate dalla guerra.
E in questo viaggio verso la capitale della Grecia la sua storia: il dolore per il distacco dei fidanzata, vissuto in parallelo a quello di Renzo e Lucia e poi le provviste preparate per lui che via via consuma, le letture dei Promessi Sposi in treno e nella camera d’albergo, con la fotografia della sua promessa sposa sul comodino, e i suoi ricordi dall’infanzia, e quelli del fronte in Albania in cui ha combattuto… il racconto della sua storia si innesta sulla storia dei popoli.
Sullo sfondo del romanzo manzoniano che acuisce il suo sguardo, riconosce nella Belgrado colpita dai bombardamenti e nelle città devastate che attraversa, i flagelli delle guerre che imperversano ad ogni giro della Storia. Registra differenze e analogie, scrive infatti: “diversamente da… come in …”. Come nel 600, quando i lanzichenecchi irrompevano nel milanese, così Hitler nel ’41, quando, “senza dichiarare guerra, aveva attaccato all’improvviso il Regno di Juguslavia”. Le SS sono i “lanzichenecchi moderni”. A incutere “terrore”, non è più la “furia barbarica” di quei soldati alla ventura scesi senza disciplina, in bande devastanti che terrorizzavano con la loro violenza e con i saccheggi. Il nuovo flagello è l’ “ordine” spietato dei nazisti (quell’ordine con il quale hanno organizzato lo sterminio programmato di un popolo). Al giovane viaggiatore, simili appaiono i flagelli che minacciano e colpiscono da sempre le città invase dalla forza bruta della guerra. Non più la peste, ma altre epidemie: come il tifo petecchiale e la carestia, e la fame…
In questa lettura della storia contemporanea alla luce dei Promessi Sposi, in cui riconosce gli assalti devastanti del male che Manzoni ha così efficacemente descritto, l’autore ci fa sentire l’attualità di quel messaggio. In diversi punti mette in luce la grande capacità di Manzoni di rappresentare il male: “radicato nel mondo e dentro di noi”. Nelle pagine storiche, ad esempio, in cui Manzoni racconta dei lanzichenecchi. E il male nella ricerca dei responsabili della peste: con la notissima vicenda degli innocenti, vittime della paura degli untori. E il male nei Bravi, nel loro mandante, e nella inconsapevolezza di don Abbondio; e lo svilupparsi del male fin dalle sue dalle radici nella storia tenebrosa della monaca di Monza, dove si assiste ai continui “progressi del male” che inizia ad operare già nei membri della sua famiglia, “tra le pareti di casa”; fino a che il male agisce nella povera Geltrude, costretta a farsi monaca e, “mentre la coscienza è quasi assente” il male diventa “quasi necessario”, fin che esplode nel delitto. Cancogni commenta: “E questo, sappiamo, è vero per il secolo XVII, come per i secoli successivi. Fino ad oggi. Oggi infatti non siamo diversi dai nostri predecessori… E come accadde allora, anche oggi si cercano i responsabili altrove. …Mai, in ogni epoca, gli uomini accettano di riconoscere l’origine del male, in loro stessi, operante nel cuore di ognuno e di tutti. Nella Milano alla deriva di fine estate del 1630, che ha rotto i legami con ogni residuo di bene, legalità, compassione, solo Renzo (oltre a qualche comparsa, come i Padri cappuccini “servitori dei bisognosi”) sembra conservare la bontà naturale e cristiana che gli permette di vedere, soffrire con gli altri, restando tuttavia se stesso.”
Sempre accompagnato dalla lettura dei Promessi Sposi che gli illimpidisce lo sguardo, dopo aver attraversato un gran numero di frontiere giù per la penisola balcanica, approda nell’Atene alla fame. Ovunque lo colpisce uno spettacolo di miseria, di epidemie, di morte: “tre secoli dopo – scrive – Atene è in attesa di una catastrofe di proporzioni forse maggiori” di quella di Milano al tempo della peste.
Cammina per la città, vede la gente che muore per le strade e fin ai tavolini dei bar e si sente spaesato come Renzo a Milano. Si accorge di essere entrato in un mare di guai, “Come Don Abbondio” ma, a differenza di lui, per colpa sua; in più, lui non ha neanche rimorso.
Ha in mente solo di tornare a casa a sposare la sua Lucia. E’ in cerca di lettere di raccomandazione per essere rimandato a casa, e si reca inutilmente presso il Nunzio apostolico – l’allora cardinale Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII – a colloquio con lui si sente “un poco come don Abbondio a colloquio col cardinale Federigo: “anche a me – scrive – pareva che, quando ne andava di mezzo la vita, fosse lecito sottrarsi ai propri doveri”. Infatti, era ad Atene come un civile ma doveva obbedire agli ordini alla stregua di un soldato.
Cancogni ha fatto propria la lezione del Manzoni. Ha praticato infatti una lettura didattica e insieme creativa dei Promessi Sposi. Ne è una prova il riconoscimento nel quale – con don Abbondio come specchio – ammette, in mezzo a tanta miseria, di essersi preoccupato solo per sé, di non aver pensato ai suoi studenti; di aver mancato al suo impegno di cittadino in tempo di guerra per inseguire la sua felicità privata. Ha trovato un seme del male dentro di sé. La critica gli ha infatti riconosciuto “la semplice ma assai rara virtù di fare di ogni pagina una testimonianza di verità, deposta anche contro se stesso”. Infatti, il suo ammettere la verità di una colpa personale gli ha aperto il sentire la colpa comune e comune miseria, che non è solo il principio di un’etica superiore, ma è un appello da cui nasce una nuova consapevolezza.
Con il rimpatrio a causa di una provvidenziale polmonite, finisce il primo capitolo di un romanzo diviso in tre parti che scandiscono una narrazione che attraversa più di mezzo secolo di esistenza: dalla giovinezza alla terza età, quando i due sposi ormai anziani vivono per metà anno a Fiumetto, in Versilia, e per l’altra metà dell’anno a New York. Nell’andirivieni tra la Versilia e l’America portano con sé più copie dei Promessi Sposi. A Manhattan, nella casa di quaranta metri quadri, al sedicesimo piano di un grattacielo, I Promessi Sposi per loro sono “come il breviario per il parroco”: lo leggono continuamente. Ne hanno diverse edizioni, ma lo leggono insieme da un vecchio volumetto della BUR che hanno squinternato in dispense per scambiarsele nel loro “nido l’amore” americano. Lo legge Cancogni da solo, come lo ha letto e commentato per gli studenti del Corso di Letteratura italiana all’Università del Massachusets, in cui l’opera Manzoniana, dall’Adelchi agli Inni ha avuto una gran parte.
Quel corso, è argomento della parte centrale del libro densa di citazioni e commenti che fanno riferimento all’intera opera manzoniana, che ammira. Di Manzoni ammira “il miracolo dello stile” che “viene dalla profondità di una coscienza ispirata, …grazie all’unità della fede”. Ne mima anche alcuni attacchi, come il “Cammina cammina” di Renzo che avanza di notte alla ricerca dell’Adda. Lo cita, e lo poche righe sotto, con il suo “Cammina cammina” indica l’avanzare del suo viaggio verso la sua meta, quasi a riproporne il ritmo vitale ed a evidenziare la citazione.
E via via continua a rileggerlo e ad interpretarlo per la sua vita e per i suoi lettori. Rilegge i capitoli dedicati alla conversione dell’Innominato. E se è vero che nella conversione dell’Innominato riverbera l’esperienza che ne ha fatto Manzoni, è fatale che ora quella conversione venga letta e interpretata da Cancogni alla luce della sua propria conversione. Più volte ci esorta a rileggere i passi che cita, ma li ha riletti egli stesso nella cornice reale della sua vita. Non si identifica “addirittura” con l’Innominato, non vanta le scelleratezze di quel gran peccatore, i suoi delitti, ma anche lui si sente peccatore: “e certe volte in maniera intollerabile”. Ammette di aver continuato “continuare a vivere come se Dio non esistesse”, e che anche se nell’ambiente in cui viveva era inutile parlarne non poteva “fare a meno di” pensare a Dio, “l’Essere sempre presente la cui voce” si faceva sentire e gli ricordava: “Io sono”. Cancogni sente “l’Io sono” esplodere dalle sue profondità.
Ci esorta a riprende in mano i Promessi Sposi. Se lo facciamo, scopriamo che al capitolo XX l’Innominato, nel punto cruciale della sua crisi, in una solitudine tremenda, si è sentito occupato “a vivere come se Dio non ci fosse”, ma gli pareva che quel Dio di cui aveva sentito parlare gridasse dentro di lui: “Io sono però”. Quel “però” è stato croce e delizia per la critica. C’è chi l’ha trovato poco poetico. Luigi Russo riconosce in quel “però” la registrazione del dialogo col Dio vivente. E’ il riconoscimento della presenza di Dio; quel ritrovamento di Dio nel profondo, che, come scrive il critico, “annuncia il piegarsi dell’anima su se stessa”.
Cancogni ha fatto sue le parole di Manzoni. Con differenze e analogie. L’Innominato, nel suo tempo, sentiva parlare di Dio; nell’ambiente di intellettuali frequentato da Cancogni, invece, era inutile parlarne. Tutti e due hanno sperimentato il sentimento della presenza di Dio che viene dal profondo. L’ “Io sono” è l’ECCOMI! di Dio che viene a manifestarsi nella storia umana. L’ “Io sono” è l’autoproclamazione divina che Mosè ha sentito per la prima volta sull’Oreb, è il nome Dio che egli stesso ha rivelato al suo profeta affinché lo annunciasse al suo popolo. Così che queste pagine, entrano a far parte della storia della salvezza testimoniata nell’oggi.
Faccio notare, però, che Cancogni non ha posto il suo riconoscimento o ritrovamento di Dio e quello dell’Innominato come due testi a fronte, come invece ha fatto con altre situazioni. Lascia a noi di scoprirle differenze le analogie che dicono la novità rinnovante di ogni esperienza religiosa.
Tra le analogie, in tutte e due le conversioni c’è stato un motivo scatenante. Il “fatto” che ha portato Cancogni ad intraprendere definitivamente il lungo cammino della conversione ricercata e attesa, temuta e infine accolta con “timore e tremore”, è stata la morte in America della figlia Pimpi, poco più che quarantenne, “che un cancro si è portato via in soli 15 giorni”. Questo evento luttuoso, lo ha portato ad una ricerca di senso scaturita dal dolore, dalla sofferenza e dalla morte.
Come ha confessato egli stesso in un’intervista, “da molti anni riguardo alla fede era in uno stato di attesa, c’era qualcosa che le spiegazioni laiche del senso della vita non lo soddisfacevano più. Il terreno, come ha capito dopo, era preparato da anni”. Come sappiamo, ciò che ha portato a maturazione la conversione dell’Innominato, anche quella preparata da tempo – è stata la scelleratezza di cui si è reso complice con il rapimento di Lucia e l’influsso che Lucia ha esercitato.
Nella sua lettura, Cancogni si sofferma sul mutamento che nel gran peccatore, tramite Lucia, sta per giungere a maturazione. Confessa di averci messo oltre 50 anni per amare Lucia. Fin da ragazzo non provava affetto per lei; ricorda che allora il padre aveva “oscurato le vere cause del suo rapimento” e lui non “capiva che cosa l’infame don Rodrigo volesse dalla povera Lucia”. Allora la trovava “una ragazzetta di campagna apparentemente insipida”, poi ha compreso che Lucia è una incarnazione della “divina grazia da cui scendono tutte le altre virtù”. Di Lucia, la fanciulla di un paesino nella campagna lombarda intorno al lago di Como, offre un’icona efficacissima: non gli pare infondato pensare che “Manzoni, presentandocela, avesse in mente un’ancella della Vergine Maria” e ne mette in luce alcuni tratti che la accomunano alla Vergine. Per la sua fede, Lucia, è “ancella della Vergine Maria”; è lux mudi…Madre della sapienza, dispensatrice di verità oltreché di grazie… creatura di grande forza (virgo potens) cui nessuno può resistere”. Per mettere in luce il suo “formidabile” carattere femminile la paragona a diverse eroine della letteratura, come Anna Karenina, Emma Bovary, Lady Chatterley… Ci fa notare, però, che Lucia ha un “potente alleato” che è la sua fede che la fa diventare una mediatrice della grazia che agisce sull’Innominato.
Anche per lui la grazia ha scelto di incarnarsi in una figura umana: Rori, la compagna di una vita.
Anche di lei abbiamo dei ritratti, piccole pennellate: da ragazza, quando sale sul treno per tardare il momento del distacco; giovane nonna quarantenne in pantaloni a rincorrere il nipotino come una ragazza; casalinga quanto mai e insieme disinvolta e intraprendente. La descrive nella vecchiaia, mentre lo accompagna, nella vita e nelle letture che fanno insieme nel loro “nido d’amore” americano. E lì, the nest in the sky, Rori è in camicia da notte, con le spalle magre e le scapole sporgenti, a piedi nudi sul pavimento con le dita deformate dall’artrosi. E poche righe, sotto con il suo “passo ardito di giovane sposa”, con la voce “che si strugge di tenerezza” quando parla del nipote.
Questa immagine di donna – così diversa da quella proposta da tanta letteratura – si scolpisce nella mente. Produce una tenerezza irresistibile, perché ha il segno dell’amore forte come la morte in un romanzo che è anche un viaggio nell’enigma e nel mistero dell’amore coniugale. “Amatevi come compagni di viaggio> sono le suggestive parole della benedizione nuziale data dal frate ai due sposi manzoniani. La si può riconoscere anche sugli Sposi a Manhattan questa benedizione, sta per cadere il sessantatrèesimo anniversario del loro matrimonio. E il loro viaggio continua, oltre il romanzo.
Non c’è il lieto fine della fiaba. Come si può leggere sia in Cancogni che in Manzoni la conversione, come le nozze, sono l’inizio di una nuova vita. Del resto dice bene Franca Rame in un suo spettacolo quando recita: “e vissero felici e contenti per tutta la vita. Il giorno dopo…”.
Tutti ricorderanno come finiscono i Promessi Sposi: Renzo e Lucia ne hanno passate tante. Finalmente sposi, hanno imparato che i fastidi, come i guai, “quando vengono per colpa, o senza colpa, la fiducia di Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. In tutti e due i romanzi, il giorno dopo, accade la calda realtà della vita: guai e fastidi possono sempre arrivare: c’è il giorno dopo giorno, nel ‘600 alla luce della Provvidenza divina, ora alla luce della grazia che scende ancora attraverso un canale umano: Rori, sempre forte e serena nella fede. Sempre pronta a ricordare al marito – inquieto talvolta, anche dopo la conversione – che la cosa essenziale è l’amore che si dà. Una certezza questa, che è fondamentale per ogni cristiano, ma che senza la grazia può ancora sfuggire. E Cancogni, che l’ha sperimentata l’irruzione sorprendente della grazia, ce ne dà una stupenda definizione:
“Ma se la consolazione nasce dal cuore stesso della sventura, dopo aver toccato il fondo del male (e persa ogni speranza sembra non resti altro all’uomo che fissare impietriti il “formidabile deserto” di cui parla il Leopardi) allora la consolazione si chiama conoscenza superiore e serena delle cose. Si chiama Grazia. È il dono di chi, ritrovata la Fede, non ha più ragione di temere; e di chi, non credente, sente tuttavia la presenza del misterioso, assoluto potere che governa l’universo mondo, la storia (sia del singolo che dei popoli) e ne fa accettare gli errori, i delitti, il dolore […]. Questo vale anche per i cosi detti ésprit forts, che dichiarano di non temere la fredda contemplazione del vero. Segno che Dio non vuole proprio dimenticarsi di nessuno, nemmeno di chi ci tiene a dichiararglisi nemico.”
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 21.2.2006 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.